Se dovessi scegliere una parola di giustizia riferita alle vittime direi “riparazione”.
Credo che la giustizia riparativa ha avuto un grande merito: riportare l’offesa anche – sottolineo anche – sul piano delle concrete dinamiche umane e delle responsabilità che l’offesa comporta innanzitutto nei confronti dell’Altro, prima ancora che nei confronti della società o della legge o dello Stato.
Questo sguardo nuovo verso l’offesa ha comportato tre conseguenze:
- sul piano sostanziale concepire il fatto-reato non solo come una violazione della legalità ma, appunto, come dinamica complessa tra persone;
- sul piano procedimentale affiancare (o, addirittura, sostituire come è accaduto soprattutto nella giustizia minorile) al procedimento di accertamento dei fatti un percorso partecipativo di ricostruzione delle diverse prospettive (potremmo dire delle verità) dei protagonisti: questa “variante” procedurale è stata possibile nella giustizia minorile per molti motivi, non ultimo la finalità personalistica del processo penale minorile;
- sul piano della penalità la messa in discussione della pena/sanzione come afflizione fondata sul criterio della limitazione temporale e spaziale della libertà e a favore di un criterio, appunto, “riparativo” la cui indefinitezza è, però, uno dei maggiori ostacoli all’affermazione della giustizia riparativa (solo Massimo Donini[1], finora ha affrontato seriamente l’argomento).
A distanza di 30 anni dalle prime esperienze di giustizia riparativa in Italia e alle soglie di quella che la legge delega ha definito una “disciplina organica” della giustizia riparativa, un bilancio va certamente fatto. Anche per capire quale sarà il suo prossimo futuro.
Gli elementi che ho sintetizzato – non si fa fatica a capirlo – descrivono un tipo di giustizia con scarse compatibilità con il processo ordinario e con la definizione classica della sanzione penale (anche perché ragionevolmente è difficile rinunciare all’idea del carcere sia pure per le situazioni estreme).
La stessa giustizia riparativa – come l’ho sopra definita – non ha piena consapevolezza se essere un motore di riforma del sistema penale o se essere uno spazio alternativo e complementare ad esso.
Nei fatti, secondo me (complici un po’ tutti), si è cercata di imbrigliarla "dentro” il sistema penale, nella messa alla prova, nei lavori di pubblica utilità, come condizione per ottenere qualche beneficio penitenziario, con interpretazioni molto libere (e non voglio dire di più: ispirate più al contrappasso che alla riparazione) su cui si è soffermato da ultimo Fabio Fiorentin[2] in un bellissimo articolo su Diritto penale e uomo.
Il dato più preoccupante – a mio avviso – è quello offerto dai numeri nudi e crudi: nel 2010 c’erano più di 60.000 detenuti e 30.000 condannati a pene alternative; nel 2019, prima della pandemia, ce n’erano ancora 60.000 mentre – grazie ai lavori di pubblica utilità e la messa alla prova – le misure non detentive sono raddoppiate a 60.000 persone. Cosa voglio dire? Che le misure riparative di “comunità” come vengono chiamate non incidono – se non forse in misura irrisoria – sulla pena carceraria, non riducono la popolazione carceraria ma allargano semplicemente la rete di controllo sociale. Poiché le misure riparative e di comunità sono il contenitore elettivo per i programmi di giustizia riparativa – grazie agli investimenti della riforma – è del tutto ragionevole pensare che la giustizia riparativa si candida pertanto ad un allargamento ulteriore del controllo sociale più che ad una riforma del sistema penale.
Il punto più dolente, a mio avviso, è però quello che riguarda le vittime.
Proprio perché la giustizia riparativa ha come finalità la responsabilità verso l’altro la vittima ha acquistato un ruolo inedito.
Credo però di poter dire che nella giustizia riparativa la vittima ha ricoperto un ruolo soprattutto di ordine simbolico e non effettivo tanto che accademici e pratici si sono inventati la figura della vittima sostitutiva o surrogata che ritengo, francamente, un’aberrazione perché oltre a costituire un dispositivo di vittimizzazione secondaria per la vittima diretta è una palese dichiarazione d’impotenza del sistema di giustizia riparativa perché si fonda su meccanismi che contraddicono le sue finalità.
Cos’è successo? Provo a dirlo in due parole.
Qui bisogna fare un breve ragionamento.
Non è certo la giustizia riparativa ad aver inventato l’attenzione verso le vittime. Caso mai è il contrario. L’età della riemersione della vittima – come la chiamano i vittimologi – ha radici profonde e la giustizia riparativa è solo uno dei rivoli in cui si è manifestata questa nuova era.
Sta di fatto che il pianeta “vittime” – intendo riferirmi alle associazioni, alle fondazioni, a strutture istituzionali o addirittura alle singole vittime – ha intrapreso strade difficilmente conciliabili con la proposta riparativa fondata com’è sull’idea del reato come conflitto e sulla possibilità di un risanamento dialogico delle relazioni.
Le vittime si appellano al responsabile non per dialogare ma per ottenere l’ammissione del torto. E se non la ottengono la reclamano occupando le aule giudiziarie, chiedono pene più severe, promuovono azioni risarcitorie, più raramente istituiscono associazioni per conservare e rinnovare la memoria, più raramente ancora ricercano progettualità rivolte al futuro.
Certo: anche queste sono in qualche modo azioni riparatorie ma sono azioni contrapposte ai principi e ai valori della giustizia riparativa.
Se guardiamo agli altri membri dell’Unione europea (in particolare alla Francia, alla Germania, alla Spagna, all’Inghilterra che non hanno sistemi di giustizia riparativa molto più avanti del nostro) questa spinta “vittimaria” è incanalata attraverso reti di supporto alle vittime che limitano molto gli aspetti più patologici di questa riemersione.
Basterebbe seguire il processo per le stragi terroristiche di Parigi del 2015 per capire quale può essere un modo positivo di riparare: accompagnare le vittime a vedere l’aula prima di sentire la loro testimonianza; assegnare loro un badge rosso per chi non vuole parlare con i giornalisti; dotare le parti civili che non possono seguire il processo in presenza di una web radio con canale dedicato.
Qualcuno le racconta queste cose in Italia? O propone di applicarle da noi nei processi quando ci sono molte persone offese? Quotidiani come Il Dubbio o Il Riformista – particolarmente attenti al tema dei diritti di garanzia – non hanno dedicato un rigo a questi aspetti del sistema penale, così densi di significato politico e democratico.
Paradossalmente quel processo è seguito da Il Giornale[3] per stigmatizzare la scelta di Le Monde – definito «il quotidiano della gauche caviar» – di criticare le dichiarazioni di Patrick Jardin, un esponente della destra sovranista e antislamica. Jardin ha perso la figlia al Bataclan e si era scagliato contro le altre parti civili «affette da sindrome di Stoccolma» che, a differenza di lui, non manifestavano tutto il loro odio. «Mi disgusta vederli inchinarsi in quel modo – ha detto Jardien – Io sono incapace di perdonare e mi rifiuto di chinare la testa». Ecco l’insegnamento dunque: anziché valorizzare il paziente lavoro con 3000 vittime con ben 30.000 incontri realizzati da France Victimes che – secondo il quotidiano diretto da Augusto Minzolini – sono solo espressione di «buonismo stolto e incauto», occorre coltivare la ricerca dell’odio come unica strada legittima della giustizia verso il terrorismo.
Il punto è questo secondo me. O si affronta la questione vittime – con tutta l’ambivalenza che le contraddistingue – oppure le lasceremo in pasto agli umori più neri che connotano l’esperienza vittimaria: il risentimento e l’odio di rimando.
Ma guardiamo avanti.
Io credo che dobbiamo fare i conti con la legge delega perché offre indicazioni piuttosto precise al riguardo ed è inevitabile che le sedi naturali in cui verranno adottati i programmi di giustizia riparativa siano quelli della messa alla prova, dei lavori di pubblica utilità come sanzione sostitutiva, di alcuni benefici penitenziari.
In teoria secondo la legge delega l’accesso ai programmi di giustizia riparativa non può essere sottoposto a preclusioni né in relazione alla fattispecie di reato né alla sua gravità.
Senonché si prevede che l’esito favorevole del programma possa essere valutato sia durante il procedimento penale sia in fase esecutiva. Questo però significa che l’accusato o il condannato vorranno usufruire i servizi di giustizia riparativa se e in quanto ne ricaveranno dei benefici e questi sono previsti solo all’interno di alcuni istituti.
Questa impostazione conferma quello che dicevo all’inizio: la giustizia riparativa s’inscrive in un quadro di riforma del sistema che mira essenzialmente a favorire (e non è detto che ci riesca) un’uscita mite dal circuito penale o a contenere (o più marginalmente ad evitare) la detenzione. Non ha come obiettivo la riparazione – nel senso alto del termine – della vittima e il suo coinvolgimento è del tutto eventuale.
In altri termini: grazie anche ad uno stanziamento di 4 milioni di euro l’anno ci sarà un rafforzamento degli organici – anche attraverso la figura del “mediatore” penale – che già oggi elaborano e applicano programmi di trattamento. La formazione dovrà favorire un approccio riparativo. In buona sostanza non credo che le cose cambieranno molto rispetto all’esistente se non dal punto di vista “quantitativo” con un effetto “allargamento della rete di controllo” anche per situazioni – come mi è capitato spesso di vedere come giudice penale – che forse non meritano un interessamento da parte della giustizia penale.
L’unico elemento davvero interessante è la previsione contenuta nella lettera g) del comma 18 art. 1 della legge delega secondo cui i servizi di giustizia riparativa dovranno essere erogati da strutture pubbliche facenti capo agli enti locali. Questo significa che Regioni e Comuni saranno coinvolti in compiti di progettazione e realizzazione di percorsi riparativi che oggi li vedono intervenire solo nella giustizia minorile.
La novità potrebbe quindi riguardare non tanto il posizionamento processuale della giustizia riparativa quanto piuttosto le modalità di elaborazione e di realizzazione dei programmi. Regioni e Comuni potranno essere più sensibili anche alle aspettative delle vittime e pretendere servizi di giustizia riparativa in grado di intercettare e valorizzare il coinvolgimento delle vittime.
Io credo profondamente in un diritto penale non chiuso in sé stesso ma aperto verso una restituzione dei suoi protagonisti alla società: non solo per chi è stato condannato o ha dovuto, comunque subire, il peso e le conseguenze di un’accusa (a volte ingiusta) ma anche per chi è stato vittima riconosciuta o ferita doppiamente dal mancato accertamento dei fatti.
Per questo dico spesso che il giudice – non solo quello penale – non ha mai l’ultima parola.
Ho rubato questa espressione a Dietrich Bonhoeffer, un teologo tedesco resistente ucciso a Flossenburg una settimana prima della liberazione dal campo di concentramento. Per lui non si possono dire le cose ultime prima delle penultime. Parafrasando il concetto quando diciamo giustizia vorrei che fosse chiaro che il giudice non può dire mai l’ultima parola anche quando la sentenza è passata in giudicato. Il giudice può avere tutt’al più la penultima, se gli va bene. Perché spesso le sue parole tornano addirittura all’inizio come se nulla fosse successo quando le sentenze, ad esempio, vengono cassate o annullate.
È in questo senso che invoco un “ridimensionamento” del diritto penale.
Il diritto (non solo quello penale) ha un ruolo importante per la vittima perché permette alla vittima il suo riconoscimento pubblico, la riconosce qualificandola in un ruolo sostanziale e, a volte, processuale. Ma la vittima deve anche potersi liberare dal ruolo in cui la inchioda il diritto stesso.
A fine novembre come Rete Dafne faremo un convegno a Napoli sui rapporti tra giustizia riparativa e servizi di assistenza alle vittime. Abbiamo ospitato la giornalista Silvia Giralucci il cui padre venne assassinato dalle Brigate rosse nel 1974. Lei ci ha proposto come titolo del suo intervento: “Uscire dall’ergastolo di essere una vittima”.
Il che mi sembra una frase di grande significato e che in fondo risponde e supera quella ricorrente – per certi versi anche comprensibile – di molti famigliari di vittime del terrorismo che hanno sempre respinto possibilità d’incontro con ex terroristi proprio perché – dicevano – loro non potevano considerarsi ex vittime.
Ho scritto nel mio libro sulle vittime[4] che con la conclusione del processo deve però esser data la possibilità alla vittima di uscire da questo suo ruolo e che le stesse istituzioni devono favorire questo passaggio.
Ecco io penso che una giustizia riparativa dovrebbe proprio avere questa qualità e caratteristica: costituire un ponte verso un’esistenza riparata. Più che un diritto penale minimo io parlerei di un diritto penale “transitivo”.
Credo che questo sia il giusto percorso per la vittima nella prospettiva di concepire una nuova idea di sicurezza.
La parola “sicurezza” significava innanzitutto protezione dai rischi sociali fisiologici insiti nella vulnerabilità umana. Da tempo purtroppo questa parola è stata associata al rischio criminale soprattutto attraverso il suo negativo “insicurezza”.
Sicurezza vuole dire “sine cura”. Se la riferiamo a chi ne dovrebbe beneficiare sta certamente a significare assenza di preoccupazioni, di affanni, d’inquietudine (sine cura). Ma dal punto di vista di chi la deve garantire significa anche assenza di cura, di riguardi, di attenzioni.
Ma è proprio quest’assenza di cura che caratterizza le parole d’ordine di chi ricerca l’impossibile invulnerabilità attraverso l’esasperazione del diritto penale o l’edificazione di muri.
Se fosse più chiara l’ambivalenza di questo termine si giocherebbe di meno con le parole e si valorizzerebbe proprio la parola centrale che è quella della CURA.
Cura significa avere consapevolezza della vulnerabilità umana e che il crimine è anche una delle manifestazioni di questa vulnerabilità e che, proprio per questo, necessita di risposte sul piano della “cura” e non solo della “sicurezza” intesa come prevenzione e repressione del crimine.
Per rassicurare è indispensabile una parola “ultima” sulla verità di quanto è accaduto. Ma quale verità?
Da questo punto di vista la giustizia riparativa, soprattutto nell’esperienza sudafricana della Commissione sulla verità e riconciliazione, ci ha aiutato a capire come accanto alla verità giudiziaria e alla verità storica si collocano delle verità soggettive che non vengono elaborate all’interno della propria coscienza, all’interno del proprio gruppo o con il proprio terapeuta, ma possono essere frutto di un tentativo di condivisione. Tanto è vero che uno dei criteri di ammissione per i programmi di giustizia riparativa previsti dalla Raccomandazione 2018 e dalla Direttiva vittime è proprio quello del riconoscimento essenziale dei fatti. Un requisito che, invece, manca nella legge delega.
Albie Sachs giudice della Corte costituzionale sudafricana in occasione di un suo intervento a Milano nel 2016 parlò, a proposito del modo di lavorare della commissione di come si affrontava un tipo di verità diversa per tecnica e obiettivi da quella giudiziaria. Lui parlava, attraverso il confronto delle narrazioni dei responsabili dei crimini dell’apartheid e delle vittime, del combinarsi di una verità esperienziale con una verità dialogica. Leggo le sue parole: «perché la verità non è qualcosa che può essere catturato una volta per tutte, come per l’entomologo una farfalla che finisce in una teca di vetro. Ciò che s’inchioda non è la verità, esattamente come la farfalla nella teca di vetro non è più una farfalla»[5].
[1] M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Diritto penale contemporaneo 2/2015, 236 e ss.
[2] F. Fiorentin, Punizione o riparazione? La giustizia riparativa nella fase esecutiva della pena: luci e ombre nella prospettiva della riforma “Cartabia”, in Diritto penale e uomo, 6.10.2021
[3] R. Vivaldelli, Il vergognoso attacco al padre di una delle vittime del Bataclan, ne Il Giornale, 19 ottobre 2021.
[4] M. Bouchard, Vittime al bivio. Tra risentimenti e bisogno di riparazione, Il nuovo melangolo, Genova 2021.
[5] La trascrizione integrale del suo intervento la dobbiamo a Claudia Mazzucato, Apparteniamo ad una generazione cresciuta con l’ubuntu. Albie Sachs e Pumla Gobodo-Madikizela in dialogo sulla giustizia riparativa. Il Sudafrica, ovvero il problema della presenza dell’”altro” e la sfida della giustizia, in G.L. Potestà, C. Mazzucato, A. Cattaneo (a cura di), Storie di giustizia riparativa. Il Sudafrica dall’apartheid alla riconciliazione, Il Mulino, Bologna 2017, pp. 165 ss.