Magistratura democratica
Magistratura e società

Il femminismo punitivo secondo Tamar Pitch

di Marco Bouchard
Presidente di Rete Dafne Italia, rete nazionale di servizi per l’assistenza alle vittime di reato

Recensione a Il malinteso della vittima, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2022.

Condivido buona parte delle tesi esposte ne Il malinteso della vittima da Tamar Pitch, filosofa e sociologa giuridica di statura internazionale, direttrice responsabile della rivista “Studi sulla questione criminale”, attenta studiosa tanto delle teoriche quanto delle prassi politiche sui temi della sicurezza e delle differenze, soprattutto di genere.

In breve, queste le tesi.

1.Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un progressivo slittamento di significato del termine “sicurezza” e, in particolare, da quello di “sicurezza sociale” verso quello di “sicurezza pubblica”. Se un tempo la sicurezza riguardava essenzialmente la possibilità di vedere protetti la salute, la vecchiaia, il lavoro o la casa, oggi, ormai, è intesa come «diminuzione del rischio di diventare vittime di criminalità di strada, elevata da mezzo a fine…[1]». Come avevo già osservato[2] il termine “sicurezza” oggi descrive le funzioni che, un tempo, erano ricondotte al concetto di “ordine pubblico”, concepito per tutelare l’autorità e la pace sociale da rivoltosi, agitatori e perturbatori d’ogni sorta. Il nuovo volto della “sicurezza” coalizza le istituzioni, soprattutto a livello locale, e la cittadinanza di fronte alla minaccia «vista provenire da un disordine identificato con la microcriminalità, la criminalità di strada, gli illegalismi[3]». Se un tempo la società del benessere cercava di preoccuparsi dei più deboli dai rischi delle disuguaglianze economiche e di potere, oggi la “società del rischio”, mettendo al centro la paura del crimine, divide il mondo tra vittime e colpevoli, effettivi o, spesso, potenziali. Come ama ripetere Tamar Pitch, al rischio dell’oppressione si è sostituito il rischio di “vittimizzazione”.

Le sicurezza così intesa attribuisce al cittadino dei diritti alla sua protezione e, in questo senso, risponde a una esigenza “democratica”. Per contro, osserva la giurista, questo tipo di sicurezza viene privatizzata e concepita come oggetto di un diritto del singolo; inoltre il bisogno di sicurezza enfatizza l’invito alla responsabilizzazione individuale e la possibilità di soddisfarlo attraverso il mercato: le polizie private e le gated communties (quartieri sorvegliati e protetti) ne sono un esempio significativo.

Le ricorrenti crisi economiche globali, i potenti flussi migratori verso l’Europa e la minaccia terroristica hanno comportato una progressiva chiusura delle frontiere al punto che anche migranti e richiedenti asilo sono passati da oggetto di politiche economiche e umanitarie a “questione di sicurezza”. Anzi: sono diventati il paradigma del nuovo nemico da cui difendersi.

2.La sicurezza, intesa come protezione dal crimine, ha generato la figura della vittima che ha ormai spodestato quella dell’oppresso perché il modo dominante di manifestare la percezione dell’ingiustizia impone una sua configurazione come reato e un trattamento giudiziario. Ma il sistema penale costringe la vittima – soprattutto quando vengono offesi beni e interessi collettivi (dai disastri ambientali alle malattie professionali) – ad incanalare le istanze di giustizia nella dimensione giudiziaria strutturata solo per l’accertamento di responsabilità individuali. L’uso pressoché esclusivo dello scenario processuale per reclamare giustizia altera, però, un dispositivo pensato in funzione di garanzia dell’accusato e allontana i protagonisti dall’affrontare le questioni economiche, sociali e politiche all’origine dei fatti penalmente rilevanti. Questo panpenalismo non solo rischia di affossare la macchina giudiziaria ma tende alla «reiterazione senza fine dello statuto di vittima[4]». L’adozione di lenti solo giudiziarie nel trattamento delle offese porta governanti ed esperti (soprattutto i primi, nella ricerca del loro consenso) a preoccuparsi, innanzitutto, delle vittime potenziali per neutralizzare il pericolo del crimine con pene sempre più severe, nuovi reati, anticipando la risposta penale sul “tipo d’autore”, anche con largo uso delle misure di prevenzione. In questa prospettiva il diritto penale disegna una strategia ritagliata sul “tipo di vittima”, distinguendo quelle particolarmente vulnerabili da quelle normali e variando – sulla base di questo criterio – le modalità di svolgimento del processo anche a costo di una diminuzione delle garanzie dell’imputato.

Anche la giustizia riparativa – sostiene Tamar Pitch – non si sottrarrebbe a questa deriva privatistica e vittimocentrica. Proprio l’esperienza de Il libro dell’incontro[5] starebbe a dimostrare l’utilità della mediazione penale solo al di fuori dei territori giudiziari. Inserita nell’edificio penale, la giustizia riparativa introduce istanze moralizzatrici orientate al pentimento e conferma – sistemando autori e vittime sullo stesso piano – la «visione di una società piatta, orizzontale, in cui conflitti e controversie si gestiscono e risolvono tendenzialmente con strategie di tipo dialogico e comunicativo[6]».

La centralità della vittima si rivela, conseguentemente, anche nell’attivismo sociale. La mobilitazione delle vittime associate, reali o potenziali, è un fenomeno strettamente collegato alla partecipazione processuale e si sfoga attraverso la rimemorazione dei fatti (le case della memoria, gli anniversari), il perseguimento di finalità pedagogiche ed educative e, non infrequentemente, costituendosi in lobby per l’approvazione di nuove leggi spesso di stampo punitivo.

3.Le sirene securitarie – scrive la filosofa e sociologa – avrebbero irretito anche il femminismo (o, almeno, una parte di esso), attraverso progressive richieste di criminalizzazione e di aumento di pene in difesa delle donne. L’uso politico del potenziale simbolico del penale era già evidente quando venne cambiata la legge nel 1996 sulla violenza sessuale. Con l’irruzione del nuovo verbo della “sicurezza” è però dilagato, coltivato non solo dai governi ma anche dagli «attori collettivi che in questo modo cercano visibilità e legittimazione: giacché…è ormai l’autoassunzione dello status di “vittima” che pare essere il modo principe di garantirsi la possibilità di emergere e venire riconosciuti come attori di conflitto[7]».

Parole come discriminazione, sfruttamento, prevaricazione, dominio, disuguaglianza sono state sostituite dal generico “violenza” che meglio si adatta al contesto penale. L’uso del penale ha così rafforzato il «tentativo da parte dei movimenti femministi di rendere riconoscibili come delitti i “mali” sofferti dalle donne, ossia di denaturalizzarli e deprivatizzarli[8]». Ma, d’altro canto, il termine violenza ha finito per descrivere la condizione delle donne in generale, tutte le donne unificando le loro esperienze a prescindere dalle differenze di classe, origine etnica, cittadinanza ed età. In questo senso, dunque, Tamar Pitch intende il “femminismo punitivo”: la scelta di utilizzare indiscriminatamente la parola violenza e l’appello acritico alla giustizia penale. L’affidamento alla giustizia penale della questione “violenza contro le donne” non sarebbe seguito da una critica severa alla risposta paradigmatica offerta dal sistema giudiziario alla violenza: il carcere e la sua disumanità vengono, così, ignorati.

Il tema è stato approfondito in due paragrafi. Il primo è dedicato alla campagna contro la gestazione per altri e, in particolare, alla richiesta di introdurre un divieto universale motivata da molti movimenti femministi europei attraverso la costruzione delle «portatrici (spesso razzializzate) come “vittime” di ricchi profittatori che ne sfruttano la capacità procreativa[9]». Il secondo è dedicato alla prostituzione perché, oggi, vi sarebbe in generale un mutamento di prospettiva: le donne che vendono servizi sessuali, specialmente in strada, “«non sono costruite più, o solamente, come “colpevoli” e “immorali”, ma come “vittime”, e sono costruite come vittime non solo da molto femminismo, ma anche, e insieme, da governi locali e nazionali[10]».

Insomma: il femminile è diventata la figura principe della vittima, «emblema e metafora della comunità (fittizia) minacciata…[11]». La “scoperta”, in Italia, della violenza maschile contro le donne, specialmente quella intrafamigliare o nelle cd. relazioni strette, intime, ha dato luogo a una possente campagna fondata sulle idee di vulnerabilità, debolezza, fragilità femminile. Purtroppo, commenta Tamar Pitch, vi sono donne e movimenti delle donne che hanno accettato questo schema securitario che, da un lato, offre maggiore visibilità ma, dall’altro, si presta a un paradosso: «dovremmo sbattere tutti gli uomini dietro le sbarre, oppure mettere una poliziotta in ogni casa…[12]». In realtà le politiche securitarie finiscono con l’avere efficacia soprattutto contro le figure tipiche della “paura” (mendicanti, rom, stranieri, tossici) che operano nello spazio urbano aperto mentre, appunto, le donne hanno bisogno di proteggersi principalmente da persone ben conosciute, entro le mura domestiche, all’interno delle quali le misure repressive hanno le armi spuntate.

Non ci sono molti studi critici in italiano sul ruolo della vittima nella società contemporanea[13]. Il lavoro di Tamar Pitch, per quanto sia sintetico e miri alla denuncia del “femminismo punitivo”, si colloca tra i tentativi di offrire una chiave di lettura di ordine generale del tema vittimario.

Mi permetto alcune osservazioni critiche.

La prima.

Il protagonismo della vittima di reati è certamente stato esasperato dalle politiche securitarie e dal trasferimento delle esigenze di giustizia sociale dalla sede naturale del confronto (e del conflitto) pubblico e politico verso le sedi giudiziarie. Tuttavia, la configurazione contemporanea della vittima non ha la sua origine nella tendenza recente a privilegiare l’utilizzo dei dispositivi del sistema penale per reagire alle situazioni d’ingiustizia.

La vittimologia come scienza autonoma compare, non a caso, nel 1946 grazie a Hans von Hentig e il termine venne utilizzato per la prima volta dieci anni dopo: inizialmente era una scienza contro la vittima, la cui condotta era studiata per ricercarne delle responsabilità dirette nella produzione del crimine.

La vittima, come la conosciamo oggi, titolare di diritti e doveri, in tutta la sua profonda ambivalenza, nasce, infatti, con la fine della seconda guerra mondiale, forgiata su due archetipi: la vittima assoluta dei crimini contro l’umanità (non solo l’ebreo) e il sopravvissuto ai crimini di una guerra che aveva falciato 50 milioni di civili. Mentre la prima ha inscritto nell’ordine del simbolico, e non solo del diritto penale, uno dei fondamenti inediti della civiltà del Novecento, il secondo ha costretto gli Stati a pensare ad una funzione riparatoria, indennizzatrice verso i propri cittadini, impensabile in precedenza, fino a riconoscere loro un vero e proprio diritto sociale all’indennizzo: dopo la prima guerra mondiale era stato riconosciuto solo ai reduci.

La storia del diritto all’indennizzo è molto interessante perché negli anni successivi al dopoguerra venne gradualmente riconosciuto anche per i delitti comuni violenti: certamente non in Italia. Questa storia ci permette di comprendere sfaccettature essenziali della figura della vittima contemporanea. La sua pietra miliare è una legge della Nuova Zelanda del 1963 voluta dal governo laburista per rassicurare una parte della nazione, preoccupata dalla scelta di abolire la pena di morte. Molti stati europei, anche sulla base di una Direttiva del 2004, hanno previsto indennizzi per le conseguenze di reati non colposi non riparate dall’autore del fatto.  L’Italia si è adeguata da pochissimi anni e solo da noi l’indennizzo è incardinato sull’esito di un procedimento giudiziario con sentenza di condanna passata in giudicato. Unica eccezione, la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime di gravi reati che eroga un sostegno economico con rapidità grazie ad un fondo costituito dai contributi dei comuni della regione.

Anche la storia del rapporto tra vittima e processo descrive un’evoluzione che meriterebbe di apprezzarne alcuni passaggi fondamentali. Ad esempio: noi conosciamo bene il processo Eichmann per il reportage di Hanna Arendt e il giudizio sintetico sul “male” accertato dal tribunale distrettuale di Gerusalemme. Forse meriterebbe più attenzione, da parte di giuristi e sociologi, per la funzione svolta dalle vittime e per i criteri utilizzati dal procuratore Hausner nella selezione delle testimonianze: proprio per questo la storica Wieworka[14] lo descrive come evento che inaugura l’era del testimone cui seguiranno altri processi storici come quelli contro Klaus Barbie, Paul Touvier e Maurice Papon. Difficile trovare oggi nella testimonianza un ruolo paragonabile delle vittime. E’ vero: oggi le vittime nel processo, dove il dibattimento ha perduto sia la sua centralità sia la presenza del pubblico garante, occupano ormai stabilmente l’area sacra, quella riservata alle parti e, all’esterno, esercitano varie forme di pressione sulla funzione giurisdizionale. Ma la questione è: se la percezione dell’ingiustizia s’incanala solo verso il sistema penale distorcendolo, è solo conseguenza della sterilizzazione della conflittualità sociale determinata dalle politiche neoliberiste?

Seconda osservazione.

Il riconoscimento della vittima nelle sue molteplici aspettative – di cui l’istanza di giustizia e solo una delle possibili espressioni – non può essere ridotto a fenomeno privatistico e moralistico per il solo fatto che incombe sulla giustizia penale. Certamente l’individualismo, la frammentazione delle identità, la “piattezza” come la definisce Tamar Pitch e l’indifferenziazione sono frutto delle politiche neoliberiste. E non favoriscono la ricerca di soluzioni fondate sulla solidarietà, sulla mobilitazione collettiva e le capacità trasformative del corpo sociale.

Io trovo, però, che questa contrapposizione tra vittima e oppresso, come se fossero i poli estremi di due modelli sociali incompatibili, ci impedisce di sviluppare una riflessione decisiva sulla vulnerabilità. È vero che la vulnerabilità è stata storicamente considerata come difetto o mancanza, sinonimo di debolezza e fragilità, capace di catalogare le persone secondo rigide categorie soggettive: donne, bambini, anziani. Oggi, però, assistiamo a una ridefinizione della vulnerabilità, grazie al lavoro di filosofi d’eccellenza (da Paul Ricoeur a Lévinas) e al pensiero femminista[15] con importanti contributi anche italiani. La Direttiva 2012/29/UE sui diritti delle vittime è impregnata di questo nuovo sapere che colloca l’esperienza dell’offesa criminale tra le manifestazioni tipiche della vulnerabilità umana: dato fisiologico della nostra specie e non dimostrativo di una particolare fragilità del singolo. Se riconduciamo l’offesa all’esperienza umana della vulnerabilità, non diversamente da altre esperienze che ci colpiscono nel fisico come nella psiche, dalla malattia alla disoccupazione, da un incidente alla vecchiaia, possiamo comprendere l’importanza dell’assunzione di obblighi positivi da parte dello Stato nei confronti delle vittime.

La vittima è ambivalente. Porta il peso della sofferenza ma suscita, proprio per questo diffidenza piuttosto che compassione. L’offesa, a sua volta, tende a giustificare nella vittima stessa vendetta e ritorsione anche nelle forme più miti del risentimento. Proprio per questo non deve essere esorcizzata solo perché preda delle politiche securitarie, quelle stesse politiche che, appunto, la strumentalizzano.

La verità è che è proprio il neoliberismo a disinteressarsi delle vittime mentre l’organizzazione di servizi essenziali a metà strada tra la cura e la giustizia favorirebbero il mantenimento di un passabile legame sociale e un rapporto non degenerato con le istituzioni.  

Terza osservazione.

Il limite del saggio è proprio questo: non apre alcuna porta e paralizza la vittima in un ruolo negativo, in sé, nella misura in cui non riproduce i caratteri dell’oppresso, non permette l’emersione delle differenze sociali ed economiche profonde che connotano l’esperienza vittimaria. Si tratta, invece, secondo me, di accettare la sfida dell’ambivalenza della vittima contemporanea, emancipata sia dal potere vendicativo praticato nelle società semplici sia dal silenzio in cui è stata ridotta nella costruzione degli stati nazionali.

Non è un lavoro facile. Penso, però, che l’incontro con la vittima contemporanea ci permette – molto più di quanto non faccia l’approccio simmetrico della giustizia riparativa tra vittime e autori – di ripensare i modi di avvicinare l’esperienza dell’ingiustizia. Il processo non può rinunciare ai suoi parametri cognitivi e razionali ma l’esperienza dell’ingiustizia reclama, dal punto di vista della vittima, una risposta non riducibile all’accertamento dei fatti o, come propone la giustizia riparativa, all’incontro con l’altro.

Dall’esperienza dell’ingiustizia possono emergere nella vittima molteplici bisogni che riguardano esigenze materiali ed emotive, di cura e di giustizia e che la costringono ad un lavoro a volte complesso.  Normalmente viene svolto in autonomia e con successo. Altre no: ed è qui che la vulnerabilità pretende l’attenzione di una rete, di una città sottile chiamata a rispondere alle diverse aspettative, ai desideri e alla possibilità di liberarsi dall’identità di vittima.

Renos Papadopulos, psicologo clinico e psicoanalista junghiano ha dedicato una vita al lavoro con i rifugiati, persone torturate e sopravvissuti alla violenza politica. In un suo recente lavoro[16] dedicato a quelli che lui definisce “dislocati involontari” (anziché migranti), ma utile all’analisi di ogni forma di sradicamento, ci invita a considerare l’importanza cruciale della differenza che corre tra l’esperienza della vittimizzazione, vale a dire l’essere vittimizzato da eventi avversi e la possibilità di sviluppare un’identità di vittima.  

In questa prospettiva ogni esperienza d’ingiustizia dovrebbe meritare, quando richiesta, l’attenzione al filo sottile che corre tra cura e giustizia, direbbe Elena Pulcini[17], alle passioni e alle emozioni che entrano in gioco, alle pretese illegittime di odio e vendetta come a quelle legittime dell’ira e dell’indignazione, queste ultime, si, dotate di un reale potenziale trasformativo.


 
[1] Tamar Pitch, Il malinteso della vittima, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2022, p. 16.

[2] Marco Bouchard, Vittime al bivio. Tra risentimenti e bisogno di riparazione, il melangolo, Genova, 2021, p. 17.

[3] Tamar Pitch, Il malinteso…, cit., p. 17.

[4] Ivi, p. 34.

[5] Adolfo Ceretti, Guido Bertagna, Claudia Mazzucato (a cura di), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Il Saggiatore, Milano, 2015.

[6] Tamar Pitch, Il malinteso…, cit., p. 40.

[7] Ivi, p. 55.

[8] Ivi, p. 56.

[9] Ivi, p. 62.

[10] Ivi, p. 70.

[11] Ivi, p. 81.

[12] Ivi, p. 82.

[13] Segnalo in particolare Caroline Eliacheff e Daniel Soulez-Larivière, Il tempo delle vittime. Come le vittime sono diventate i nuovi eroi della società democratica contemporanea, Ponte alle Grazie, Firenze, 2008 e Daniele Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, Milano, 2014.

[14] Annette Wiewiorka, L’ère du témoin, Plon, Paris, 1998.

[15] Catriona Mackenzie, Wendy Rogers, Susan Dodds, Vulnerability. New essay in ethics and feminist philosophy, Oxford University Press, New York, 2014.

[16] Renos K. Papadopoulos, Dislocazione involontaria. Trauma e resilienza nell’esperienza di sradicamento, Bollati Boringhieri, Torino, 2022.

[17] Elena Pulcini, Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2020.

04/03/2023
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