Il libro di Ilaria Salis, attivista e insegnante di Monza, neodeputata del Parlamento Europeo dopo aver trascorso un lungo periodo di custodia cautelare in Ungheria, esce nel momento in cui lo stato di diritto italiano, almeno nella formulazione scelta dai costituenti del 1948, subisce il più pesante attacco della sua storia. Ed è questo lo sfondo per proporre alcune chiavi di lettura del libro appena pubblicato presso Feltrinelli con la collaborazione di Ivan Bonnin.
E’ assai improbabile che chi oggi – da varie posizioni - sostiene questo fronte di attacco, in particolare quello che riguarda le istituzioni giudiziarie e le garanzie nell’ambito dei sistemi punitivi, decida di leggere Vipera. Nell’area culturale di riferimento di chi sostiene l’attacco, l’autrice è di norma detestata, e la stragrande maggioranza propende per la sua colpevolezza. Al primo posto tra i risultati della mia ricerca Google, l’algoritmo segnala un articolo del 6 febbraio di Libero Quotidiano, Ilaria Salis, ‘Vipera’ e il manganello: smentisce la versione di suo padre Roberto. È certamente questo uno dei possibili approcci alla lettura di Vipera: considerare il racconto come “la versione dell’imputata” sui “fatti di Budapest”, andando alla ricerca di contraddizioni o semplicemente della prova definitiva che la Salis è solo “una dei centri sociali”, dedita alla violenza, e che alla fine, de minimis, “se l’è andata a cercare”.
Specularmente, il libro piacerà invece a chi si sente vicino al multiforme mondo della “militanza di movimento”, delle occupazioni, della lotta per la casa e, in genere, delle rivendicazioni sociali in forme alternative rispetto alla politica tradizionale, attraverso il semplice «organizzarsi insieme a compagni e amici per combattere il potere e le ingiustizie del mondo», «riconoscendosi in un movimento transnazionale, composto da migliaia di compagne e compagni provenienti da ogni dove», per usare parole del libro. Quella che emerge dalle pagine di Vipera è l’immagine di una giovane con cultura e curiosità, e infinite energie, che ha dedicato la sua vita a un impegno politico totalizzante ed è entrata, con quanta responsabilità non possiamo qui stabilirlo, in un tritacarne giudiziario proprio nel momento in cui si era affacciata a una sorta di “stabilizzazione esistenziale” come insegnante, che sembra gratificarla.
Il libro ha però un interesse che va al di là della cerchia di chi è affascinato dal modello di lotta politica praticato da Ilaria Salis, e che permane anche se, come nel caso di chi scrive, non lo si condivide. Una distanza di visione politica che, ci teniamo a dirlo, non va a incidere sul piano umano, visto che sembra difficile non concedere almeno l’attenuante della buona fede a una quasi quarantenne che, potendo vivere tranquillamente, usa i giorni liberi dall’insegnamento per andare a cercare (comunque) guai a Budapest confrontandosi con camerati rasati virilmente radunati nel Giorno dell’Onore, lasciando a casa due gatti dai nomi impegnativi come Tumulto e Sommossa. “Il movimento” a cui la Salis ha dedicato la vita è d’altronde un mondo di semplificazione estrema, dove si percepisce ogni realtà come composta da “oppressi” ed “oppressori” ben delineati e distinti, e dove si costruisce un’identità che esclude chi ritiene che la società possa essere migliorata anche attraverso strumenti diversi dalla protesta di piazza o da atti che vogliono porsi come “antisistema”. Da questo punto di vista, si può certo dire che l’elettorato ha mandato a Strasburgo una persona assolutamente rappresentativa di un’ampia fascia di mondo giovanile che si sente tradito nelle proprie speranze di crescita individuale e che pensa che le grandi sfide globali, ambiente, migrazioni, conflitti, diseguale distribuzione delle ricchezze richiedano revisioni profonde degli assetti di potere, e che è pronto a contestare il “potere” anche in un confronto duro, senza escludere lo scontro “fisico” con le istituzioni e i suoi rappresentanti.
La parte in cui l’autrice dà il meglio di sé è quella in cui abbandona ogni ambizione didattica e, con uno stile veloce e accattivante, racconta semplicemente che cosa ha visto e vissuto, the hard way. E qui si può ritornare al punto di partenza iniziale: lo stato di diritto e le forme della sua regressione, che devono essere comprese non sulla base di paradigmi generali e di grandi affreschi, ma come storie eminentemente locali, ognuna frutto di una miscela differente di fattori sociali e culturali che operano a livelli diversi. Le iniquità e le ingiustizie sono ovunque, ma per comprenderne le radici e individuare possibili rimedi occorre saper leggere i singoli contesti, cosa che il racconto della Salis ci aiuta a fare.
E la lettura della sua vicenda non può essere disgiunta dal contesto e dalla lunga teoria di riforme costituzionali e legislative introdotte da Viktor Orbán, che hanno portato colpi fortissimi all’indipendenza del sistema giudiziario ungherese e ad acquisire un controllo strategico su intere parti dell’ordinamento per consolidare il nuovo ordine autocratico. Chi abbia seguito la storia di Ilaria Salis, anche solo attraverso la rubrica a fumetti di Zerocalcare, e pure senza assumere la sua totale innocenza, non può non porsi degli interrogativi al riguardo, vista la sproporzione tra i fatti contestati e le pene minacciate, l’evidente tolleranza del governo ungherese per movimenti di estrema destra che non esitano a manifestare pubblicamente posizioni filonaziste (e a volte neanche “filo”) e a praticare la violenza contro gruppi considerati estranei al loro modello identitario.
Vipera lascia certo perplessi sul sistema di giustizia penale ungherese, sia per quanto riguarda la costruzione delle fattispecie di reato che le garanzie processuali. La vicenda rimane infatti abbastanza “misteriosa” da un punto di vista tecnico-giuridico, e sarebbe per questo interessante avere una lettura dall’interno, da parte di qualche giurista ungherese, per capire quanta “creatività” vi sia stata nell’azione della polizia giudiziaria e dei pubblici ministeri. La stessa Ilaria Salis nel libro fa degli accostamenti con le vicende relative alle proteste in Val di Susa. Ma la sua è, ovviamente, una lettura tutta “di movimento” e, in attesa di avere ulteriori elementi conoscitivi sul merito della vicenda, restano molte domande, anche su circostanze che sembrano minute e quasi di folklore. Ad esempio quelle suscitate dal ruolo, nella dinamica probatoria, dei rilievi dell’“antropologo forense” a cui, incatenata, è stata sottoposta Ilaria Salis, completati i quali l’antropologo, con asburgica precisione, ha specificato nella sua relazione come la detenuta mantenesse “il collo rigido e forzato”.
In contesti europei in cui domina meno cautela verso Orbán, e si mostra in genere più interesse per le vicende di oltrefrontiera, la valutazione circa lo stato di diritto in Ungheria è spesso netta anche da parte di chi non è animato da avversione politica per il teorico e pratico della “democrazia illiberale”. Un noto costituzionalista svedese, ad esempio, definì già nel 2021[1] l’Ungheria come una “dittatura di fatto”, ritenendo inadeguate le misure prese dall’Unione Europea.
Occorre uno sforzo di astrazione per ritenere che nell’Ungheria di questi anni il sistema di giustizia possa operare fuori dal contesto, al riparo della pressione generata dalla rilevanza politica di un caso come questo. Ma la vicenda della nostra connazionale in tal senso di per sé dice poco: “senza leggere le carte processuali”, non si può escludere che Ilaria Salis effettivamente abbia aggredito qualcuno, rasato e decorato di svastiche o meno, con un manganello telescopico, che in ungherese scopriamo chiamarsi “Vipera”, da cui il titolo del libro. L’articolo - fra l’altro- sembra essere a Budapest di gran moda, naturalmente a fini di önvédelem (autodifesa) visto che in un sito ungherese specializzato (www.z-shop.eu) risulta “out of stock” per la maggior parte dei modelli, ma con ampi accessori disponibili e un DVD formativo per chi fosse alle prime esperienze.
Vipera non contiene novità circa quanto già sappiamo – o potremmo sapere da altre fonti – circa lo stato di diritto in Ungheria e i suoi “macroelementi” come le garanzie di indipendenza del sistema giudiziario, l’autonomia del potere requirente rispetto all’esecutivo, la proporzionalità delle pene. Ma lo stato di diritto - lo sappiamo - è entità sfuggente, e i “macroelementi” appena citati spesso sono quelli che i cittadini ordinari fanno più fatica a valutare e che non si incrociano con la loro esistenza quotidiana. Esiste, infatti, una dimensione di norma trascurata, che ci è sempre piaciuto chiamare “l’ultimo metro dello stato di diritto”. E’ una dimensione che si esprime al di fuori del processo e dei suoi preliminari, senza il coinvolgimento di giudici e pubblici ministeri, nella prassi quotidiana e minuta delle varie forze di polizia, e di tutti coloro che in qualche modo partecipano al monopolio statale della forza, nel momento in cui questi entrano in contatto con i singoli individui, cittadini o “stranieri”, potendo esercitare un qualche potere, magari solo attraverso la possibilità di una segnalazione o denuncia che inserirebbe la persona in un procedimento formalizzato obbligandola a difendersi ed esporsi. Si tratta di un mare magnum di elementi mutevoli, ma che illuminano in che misura, in un dato luogo ed epoca, chi vesta un’uniforme si sente vincolato a regole, o invece titolare di un “potere libero”, da utilizzare a tutela di quella che ritiene essere la gerarchia dei valori dello stato come personalmente percepita o come indicata dai propri superiori del momento. Le ricadute concrete sull’operare delle istituzioni possono essere molto significative, basti pensare all’enorme numero di micro-reati che non sono contestati “chiudendo un occhio” sulla base di valutazioni completamente extragiuridiche, collegate alle forme del contatto tra il singolo e le forze dell’ordine.
Un elemento importante dello stato di diritto nella sua dimensione street level è il linguaggio (verbale e non) e le sue variazioni in funzione della dignità che l’operatore di polizia riconosce alla persona, che ci rivelano in che misura quest’ultima è effettivamente percepita come portatrice di una propria incomprimibile dignità, anche in sistemi di harsh justice[2]. Ovviamente, questa dimensione relazionale minuta moltiplica la propria rilevanza come indicatore della salute dello “stato di diritto” nel contesto del carcere e delle altre restrizioni della libertà personale.
Sappiamo che per la cultura giuridica italiana una prospettiva del genere non è familiare, perché distante dalla dimensione positivista e tecnica che rappresenta l’identità professionale tipica del giurista anche accademico. Naturalmente, l’“ultimo metro dello stato di diritto” non è semplice da conoscere e comprendere. Va vissuto, e una volta vissuto occorre avere la capacità di razionalizzare e comunicare l’esperienza, distinguendo quanto riguarda solo il proprio caso, e quanto è invece parte di un’esperienza comune a un gruppo o a una comunità. Questo richiede anzitutto uno sguardo a posteriori distaccato e oggettivo rispetto alla propria vicenda individuale, ma al contempo empatico rispetto alle vicende di chi si ha avuto accanto. Ed è qui il principale punto di forza di Vipera, che ci fornisce una vivace «etnografia carceraria comparata» basata su un lungo periodo - decisamente non pianificato - di «osservazione partecipante», di «esperimento di esperienza[3]». I frammenti di esperienza, suoi e delle sue compagne di detenzione, che Ilaria Salis ci trasmette sono molto interessanti. Certamente vi sono dati di contesto comuni tra l’Ungheria e altri paesi europei, in primis l’Italia, e il principale tra questi è costituito dal sovraffollamento degli istituti di pena, sul quale l’Ungheria è intervenuta con un’espansione dell’edilizia carceraria ma che rimane molto elevato. Vipera sembra, tuttavia, mostrarci come la “democrazia illiberale” di Budapest vada in direzione comunque “ostinata e contraria” in termini di riconoscimento dei detenuti come portatori di dignità e diritti. Chi si sente “avversario” di Ilaria Salis potrà certamente sostenere che la sua descrizione è inattendibile e biased, ma anche questa posizione dovrebbe prendere atto che l’“ultimo metro”, come rappresentato nel racconto, è perfettamente coerente con l’intera “filiera” dello stato di diritto à la Orbán. Anche in Ungheria il populismo ha, infatti, investito molto nella dimensione punitiva del controllo sociale, con un’espansione del ricorso allo strumento penalistico e una preminenza delle finalità di vigilanza e controllo nella pianificazione dei trattamenti carcerari[4], con messaggi che è difficile pensare non abbiano sortito effetti anche sull’atteggiamento del personale degli istituti di pena rispetto ai detenuti.
Nella narrazione della sua vicenda carceraria, Ilaria Salis sottolinea poi una specificità del sistema penitenziario ungherese, rappresentato dalla relativa scarsità di detenuti di cittadinanza straniera, e dalla massiccia presenza di membri della minoranza rom, sorta di “stranieri interni” la cui condizione di marginalità sociale, segregazione e stigmatizzazione rimane uno dei nodi irrisolti della società postsocialista. Anche qui, sembra difficile isolare il problema dei rapporti tra sistema di giustizia penale e mondo rom dall’orientamento politico generale prevalente in Ungheria[5]. Giusto per dare un segno del clima dominante e delle sue ramificazioni nel mondo del diritto, si può ricordare che Béla Pokol, giudice costituzionale in carica sino al 2023 nominato su proposta di Fidesz, ha pubblicamente sostenuto che gli “Zingari” avrebbero un QI mediamente più basso, per «ragioni biologiche» collegate alle loro origini indiane[6].
La copertina di Vipera presenta un’immagine stilizzata di Ilaria Salis che spicca il volo con le braccia alzate dopo aver spezzato quelle catene che, una volta mostrate all’opinione pubblica, hanno permesso di catalizzare la visibilità che l’ha resa famosa facendola diventare – come si usa dire – personaggio “divisivo”, permettendole di ottenere non solo la piena libertà, ma anche la possibilità di influire su quelle istituzioni politiche nelle quali prima non riponeva molta fiducia, preferendo il “movimento”. Certo, dopo la lettura di Vipera le catene appaiono solo uno degli aspetti problematici della vicenda di Ilaria Salis, e a nostro parere forse neanche il più importante. Chi conosce le ombre dell’“ultimo metro degli stati di diritto” sa infatti che prassi del genere esistono anche in altri paesi che consideriamo stabilmente dentro la rule of law, magari in versione harsh.
La scelta di usare la propria immagine appare però perfettamente razionale sullo sfondo di quanto scritto in Vipera. Ilaria Salis riteneva che la machinery of justice ungherese cercasse la sua condanna sulla spinta di pressioni politiche. Impossibile avere certezze in tal senso, ma certo l’attacco allo stato di diritto portato in questi ultimi anni sembra giustificare la sua diffidenza e la decisione di spostare la partita su un terreno che le era più congeniale: non quello delle aule di giustizia ma della ricerca di un sostegno politico veloce e mediatico, sulla quale - come ci racconta - l’ambasciata italiana aveva molte perplessità, ritenendola controproducente. La Salis si è assunta un rischio ma era - crediamo - perfettamente consapevole che nessuna parola scritta avrebbe avuto la stessa potenza, visto che, ogni giorno sempre di più, per mobilizzarci, scandalizzarci, “indignarci” abbiamo bisogno della “foto simbolo”. Ilaria Salis l’ha compreso e dalla sua cella si è resa conto che solo vedendo una ragazza con l’aspetto “normale” in catene, qualcosa “si sarebbe mosso”.
Molti in Ungheria non hanno apprezzato le prese di posizione sulla vicenda di Ilaria Salis successive alla diffusione delle immagini e si sono uniti a nostri concittadini nel ridurre la Salis a demone e caricatura. Abbiamo letto che il portavoce del governo ungherese, dopo la presentazione del libro in un noto programma televisivo, pubblicava su X un fotomontaggio con la Salis dietro le sbarre, con l’inequivoco messaggio «dovresti essere qui e non in TV».
E sempre l’impietoso algoritmo di Google al momento di chiudere questa recensione ci offre un redazionale del Secolo d’Italia del 7 marzo che si commenta da solo: «L’ex pornostar Eva Henger contro Ilaria Salis. Da ungherese dico: doveva marcire in galera, non stare in Parlamento».
É certo una nota di colore, ma è anche il punto di emersione di un problema serio, che Ilaria Salis - colpevole o meno che sia - ci racconta bene, ossia la potenza del nazionalismo nella società ungherese, e del suo abile sfruttamento nella retorica di Orbán.
Il problema va detto, non nasce con il caso Salis. Nel 2020 Orbán e la ministra della giustizia dell’epoca, Judit Varga, evocarono ad esempio l’esistenza di una sorta di “business delle prigioni”, rappresentato dai ricorsi per il risarcimento dei danni collegati alle condizioni di detenzione che, secondo il governo, avrebbero rappresentato un’offesa al “comune senso di giustizia” e un’interferenza negli affari interni dell’Ungheria alimentata da avversari esterni (of course sostenuti da Soros)[7]. Su questo sfondo, sarebbe interessante vedere le reazioni a una traduzione ungherese di Vipera, libro che non è un attacco all’Ungheria ma che semplicemente apre una finestra sul suo sistema carcerario.
Come noto, si afferma che «il grado di civiltà di una società può essere giudicato entrando nelle sue prigioni», frase normalmente attribuita a Dostoevskij. Considerato che di recente è stato accertato che in realtà non l’ha mai scritta[8], qualcuno potrebbe invitarci a ripensare l’idea di fondo ritenendo che Vipera non ci dica nulla sul grado di civilizzazione dell’Ungheria (di cui gli ungheresi vanno giustamente orgogliosi), come simmetricamente le carceri italiane non sono (per fortuna) l’unico metro di giudizio della “civiltà” del nostro paese.
Un esperimento di vita carceraria raccontato con lucidità, come quello di Ilaria Salis è, tuttavia, più modestamente utile a comprendere il “grado di tenuta” dello stato di diritto, che in Ungheria - come in Italia -sembra esser oggi assai “volatile”, con molti che ritengono poterne fare a meno se un paese è ordinato, pulito e “civile”. Come tutti concordano essere l’Ungheria.
[1] J. Nergelius, Ungern en de facto diktatur, in Europaportalen, 31 marzo 2021.
[2] Vogliamo richiamare qui il titolo del libro di J. Whitman, Harsh Justice: Criminal Punishment and the Widening Divide between America and Europe, New York, Oxford University Press, 2005.
[3] L. Piasere, L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 33 ss.
[4] K. Kerezsi, J. Szabó, From Need-Based to Control-Based Rehabilitation: The Hungarian Case, in M. Vanstone, E. Priestley (eds.), The Palgrave Handbook of Global Rehabilitation in Criminal Justice, Springer, 2022, pp. 237 ss.
[5] A. Kazarján, E. Kirs, Discrimination against Roma People in the Hungarian Criminal Justice System, in Helsinki Committee Budapest, 2020.
[6] B. Rorke, Racism in Hungary: Top Ex-Judge Claims National IQ Level Lowered by Indian Origins of the Roma, in European Roma Rights Center, 16 September 2024.
[7] E. Inotai, Democracy Digest: Hungary’s ‘Jail Business’ Gambit, in Balkan Insight, March 6, 2020.
[8] I. Vinitsky, Beyond a Reasonable Doubt: A Dostoyevsky Quote Revisited, in Los Angeles Review of Books, June 22, 2020.