1. L’ultima sessione di lavori della Corte Suprema statunitense, che si è chiusa lunedì 1 luglio, è stata densa di pronunce di grande rilevanza per il paese.
La SCOTUS si è, fra l’altro, pronunciata restringendo ancora una volta l’ambito di operatività e i poteri delle agenzie amministrative federali di origine Rooseveltiana; ha dichiarato costituzionale (secondo il disumano principio per cui o stai sveglio o finisci in galera) l’applicazione della sanzione penale ai senza tetto, che -non avendo altro luogo dove riposare- dormano per strada; ancora, ha annullato il divieto di acquisto dei bump stocks, quegli accessori -cioè- capaci di trasformare un fucile semi-automatico in uno automatico, con le conseguenze devastanti rese evidenti dal peggior massacro della storia americana, quello di Las Vegas nel 2017, a seguito del quale per l’appunto esso era stato previsto dall’amministrazione Trump.
La stragrande maggioranza delle decisioni – soprattutto quelle di maggior impatto- ha visto una Corte divisa su linee strettamente partitiche: fra di esse l’attesissima pronuncia sull’immunità di un ex presidente per i fatti posti in essere durante la sua carica, che è arrivata per ultima[1].
2. Difficile non essere d’accordo con chi pensa che quest’ultima decisione sia un passo ulteriore verso il conferimento di un potere così ampio al capo dell’esecutivo da farlo quasi diventare –nelle parole di uno dei tre giudici dissenzienti, Sonia Sotomayor- «un re al di sopra della legge».
Occorre mettere subito in chiaro quanto il presidente degli Stati Uniti abbia fin da subito goduto di una posizione privilegiata rispetto agli altri poteri dello Stato, nonostante la retorica dei checks and balances -ossia dei pesi e dei contrappesi- abbia dato l’impressione che egli fosse, al pari degli altri poteri, soggetto a controlli incrociati significativi.
Non eletto in via democratica, bensì attraverso un collegio elettorale in cui il combinato del differente peso attribuito al voto dei cittadini americani unito a un sistema maggioritario secco a circoscrizione unica a livello statale (ispirato al principio del così detto the winner takes all) rende possibile la vittoria di un candidato che abbia ottenuto meno voti del suo avversario (Trump è riuscito vittorioso con circa 3 milioni di voti in meno rispetto a Hillary Clinton!), il capo dell’esecutivo non trova sostanzialmente divieti o limiti nella Costituzione.
L’unico limite esplicito contemplato dall’art. II è il divieto di grazia in caso di impeachment.
Nel tempo i presidenti hanno spesso sconfinato nelle prerogative altrui e in particolare in quelle di “penna” e di “borsa” del Congresso, appropriandosene tutte le volte che hanno creduto fosse il caso.
Gli innumerevoli executive orders o l’uso dei fondi stanziati dal Congresso per scopi diversi da quelli da esso indicati (l’ultimo clamoroso caso è stato quello del muro con il Messico, ma è solo il più eclatante[2]) ne sono altrettanti esempi, così come le spese segrete che i presidenti hanno effettuato tutte le volte che lo hanno ritenuto necessario, a cominciare dai miliardi di dollari usati durante la seconda guerra mondiale per il progetto Manhattan per arrivare a quanto ogni anno viene destinato alla sorveglianza di massa (su cui ci ha edotto Edward Snowden).
Né a limitare gli sconfinamenti di potere del presidente americano stanno la possibilità di un suo impeachment o di un rovesciamento da parte del Congresso di un suo executive order o di una sua dichiarazione di emergenza nazionale, che fossero successivamente bloccati dal veto del presidente stesso[3]. In entrambi i casi la necessità per Costituzione che i due terzi del Senato si esprima contro il presidente è sempre stata la chiave della sua irresponsabilità politica e del suo super potere, giacché bastano 17 piccoli stati -ossia l’8 per cento della popolazione- cui corrispondono 34 seggi al Senato, per impedire che i checks and balances funzionino e che il presidente sia ricondotto all’interno dei binari istituzionali[4].
Se a ciò si aggiunge il potere unilaterale di guerra che nel tempo il presidente degli Stati Uniti si è auto attribuito al di fuori di qualsiasi dichiarazione da parte del Congresso, che pure per Costituzione condivide con lui quella prerogativa (si pensi da ultimo ai tanti interventi militari fra cui quelli in Afghanistan, Iraq o Libia), il ritratto di un capo dell’esecutivo di fatto onnipotente appare in tutta la sua evidenza. Anche perché la nomina squisitamente politica dei membri della Suprema Corte, cui l’ultimo periodo storico ci ha abituato, ha –almeno momentaneamente- provocato il crollo dell’ultima possibile barriera, quella giuridica, alla sua effettiva onnipotenza[5].
3. E’ in questo quadro che, lunedì 1 luglio, la Corte Suprema federale -con 6 voti a 3- ha ritenuto che un ex capo dell’esecutivo sia immune da ogni responsabilità penale per gli atti commessi nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali essenziali e sia presuntivamente immune per tutti quelli che rientrano nel perimetro esterno delle sue responsabilità presidenziali.
E’ una pronuncia che sembra muovere un passo ulteriore e definitivo verso il conferimento al presidente degli Stati Uniti di uno status di eccezionale intoccabilità, facendone per l’appunto un «re al di sopra della legge». A testimonianza dell’allarme e sconcerto prodotto dalla decisione della maggioranza stanno le dure parole che chiudono la dissenting opinion della Sotomayor: non, come sempre, «Rispettosamente dissento», ma «Con paura per la nostra democrazia, dissento».
Il caso da cui la decisione ha preso spunto è arcinoto e riguarda i famosi fatti del 6 gennaio per i quali Trump è stato accusato di cospirazione volta a frodare gli Stati Uniti, a deprivare i cittadini americani del diritto che venissero contati i voti da loro espressi, nonché a ostruire la procedura ufficiale di voto al Congresso. Di quest’ultimo reato Trump era stato anche imputato per averlo individualmente consumato o tentato.
Di fronte alle accuse gli avvocati avevano sollevato la questione dell’immunità di cui secondo loro egli avrebbe dovuto godere, in quanto presidente degli Stati Uniti nel momento in cui i comportamenti contestati erano stati posti in essere.
Al netto rigetto della loro richiesta da parte delle corti inferiori, tanto di primo quanto di secondo grado -sulla base del condiviso argomento secondo cui «al di là dell’immunità che lo avrebbe eventualmente potuto proteggere in quanto presidente», una volta tornato cittadino comune la protezione si sarebbe estinta poiché essere stati presidenti non conferisce «un lasciapassare a vita per rimanere fuori dalla prigione[6]» – a febbraio di quest’anno faceva seguito la decisione della Corte Suprema di decidere il caso.
4. La questione dell’immunità penale di un presidente, ancora in carica o meno, non si era mai esplicitamente posta nella storia americana.
La decisione odierna tocca il tema della possibilità di perseguire penalmente un presidente non più in carica per atti commessi durante la sua presidenza[7].
La soluzione che i 6 giudici conservatori della Corte individuano si articola sulla base di tre differenti situazioni, rispetto alle quali diversa è la risposta.
Il Chief Justice Roberts, che scrive l’opinione per la maggioranza, chiarisce innanzitutto che per gli atti commessi al di fuori del perimetro esterno delle sue responsabilità presidenziali, il presidente è certamente penalmente responsabile.
Dall’altra parte dello spettro stanno gli atti sicuramente rientranti nelle sue competenze istituzionali, fra cui il compito di decidere quali indagini deve condurre il suo dipartimento di giustizia (tema caldissimo ovviamente![8]), che sono coperti da immunità assoluta.
C’è poi un mondo di mezzo, che ricalca quanto già stabilito in relazione all’immunità di un ex presidente sotto il profilo della responsabilità civile, per i fatti commessi durante la sua presidenza.
Nel 1982, in Nixon v. Fitzgerald, la Corte Suprema aveva garantito a Nixon un’immunità per i danni da lui cagionati, che si estendeva non solo oltre il periodo della presidenza stessa, ma anche a condotte che non potevano essere definite ufficiali in senso stretto.
Sarebbe stato sufficiente che le stesse fossero rientrate nel «perimetro esterno» («outer perimeter») della sua responsabilità istituzionale per dar luogo all’immunità.
«Considerata la speciale natura delle funzioni e del ruolo costituzionale del presidente», aveva scritto Lewis F. Powell Jr per una maggioranza di 5 a 4, «pensiamo opportuno riconoscere un’immunità assoluta al presidente in relazione a una sua responsabilità per danni» ogni qualvolta questi derivino da una sua condotta ufficiale, definita però in senso ampio.
La decisione chiariva come l’immunità riguardasse solo il piano civile e non quello penale. Sottolineando il punto, nella sua opinione concorrente il Chief Justice Earl Warren, ribadiva: «L’immunità è limitata alla responsabilità civile».
Oggi, invece, quegli atti del mondo di mezzo -le condotte, cioè, che rientrano nel perimetro delle attività ufficiali del presidente, ma non ne sono al cuore- sono stati dichiarati coperti da immunità anche penale. A differenza di quel che accade sul piano civile, essa non è però assoluta: per quegli atti c’è infatti solo una presunzione di immunità, che il procuratore dovrà rovesciare in corte se vorrà ottenere una condanna.
E’ questa la ragione per la quale la corte di primo grado dovrà ora esaminare uno per uno i comportamenti che rientrano nelle accuse rivolte a Trump per i fatti del 6 gennaio e decidere quali di questi fanno parte del perimetro esterno dei suoi compiti ufficiali e quali no. Si tratta di un’attività che determinerà un notevole allungamento dei tempi del processo, già bloccato per mesi dalla lentezza con cui la Suprema Corte ha espresso la sua opinione (fra i tanti affrontati, il caso dell’immunità – si è già detto- è stato deciso per ultimo, nell’ultimo giorno della sessione della SCOTUS), dopo che a dicembre scorso aveva anche rifiutato di accelerare le procedure, rigettando la richiesta in tal senso del procuratore Smith.
5. Si prospettano tempi lunghissimi dunque, che quasi certamente posticiperanno a dopo le elezioni il dibattimento, ciò che consentirà a Trump, se eletto, di ordinare l’archiviazione dell’accusa o di auto concedersi la grazia.
D’altronde uno dei capi d’accusa del processo a Trump, da cui la decisione sull’immunità ha preso le mosse, potrebbe essere già caduto a seguito della pronuncia della Corte Suprema di venerdì 28 giugno, che ha ritenuto - sia pure non in un caso che riguardava Trump- che i procuratori federali avessero usato impropriamente la norma di legge relativa all’accusa di ostruzione di una procedura ufficiale per i fatti del 6 gennaio.
Per quanto affronti una questione di portata generalissima e sia destinata perciò a stabilire per il futuro i limiti (o forse l’assenza di limiti) delle attività di qualsiasi presidente statunitense, la pronuncia della SCOTUS sull’immunità penale di un ex presidente per gli atti compiuti durante la sua presidenza sembra allora, altresì, fortemente legata alla situazione contingente.
L’accusa, mossa dal mondo repubblicano all’amministrazione Biden di strumentalizzare il diritto a fini politici (di «weaponizing», ossia letteralmente di “armare”, il suo dipartimento di giustizia) per attaccare il loro candidato alle prossime presidenziali, pare infatti aver fatto breccia nelle menti dei 6 giudici conservatori della Corte[9].
Tutti di nomina repubblicana -di cui 5 addirittura giuristi interni alle amministrazioni Reagan e Bush secondo, quando l’ideologia conservatrice perorava l’ampliamento dei poteri presidenziali, soprattutto a fini di sicurezza nazionale a seguito dell’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001[10] - i giudici conservatori della SCOTUS hanno oggi soprattutto tutelato Trump di fronte a una situazione particolarissima e inedita, in cui il piano politico e quello giuridico si sono mescolati come non mai.
Una volta svelato, come quei giudici hanno fatto nella loro pronuncia, l’indissolubile legame fra il presidente e il dipartimento di giustizia, è apparso infatti loro ovvio che se l’Attorney Generale, Merrick Garland, ha aspettato 20 mesi prima di nominare un procuratore speciale per effettuare le indagini contro Trump, ciò è stato determinato da un calcolo politico di Joe Biden e del partito democratico.
Al possibile uso politico del diritto da parte dell’amministrazione Biden, i giudici della Corte hanno dunque risposto con una decisione che appare altrettanto politicamente motivata.
E’ questo il diabolico circolo vizioso da cui la democrazia costituzionale più antica del mondo non sembra riuscire a liberarsi: un circolo vizioso che oggi ha condotto all’incoronazione di un presidente degli Stati Uniti legibus solutus, o quasi.
La tremenda inquietudine per un siffatto risultato sta tutta, e ancora una volta, nelle frasi che provengono dalla dissenting opinion di Sonia Sotomayor: «Le conseguenze di lunga durata della decisione odierna» scrive la giudice «sono drammatiche. La corte di fatto crea una zona di vuoto giuridico intorno alla figura del Presidente, rovesciando lo status quo che è esistito fin dalla nascita degli Stati Uniti (…) Il Presidente degli Stati Uniti è la persona più potente di questo paese, e probabilmente del mondo. Secondo l’opinione della maggioranza, egli è oggi esente da responsabilità penale quando fa uso dei suoi poteri ufficiali. Ordina al Navy’s Seal Team 6 di assassinare un suo rivale politico? Immune. Organizza un colpo di stato militare per mantenere il potere? Immune. Prende una mazzetta in cambio di una grazia? Immune, immune, immune».
[1] https://www.supremecourt.gov/opinions/23pdf/23-939_e2pg.pdf
[2] Sul caso mi permetto di rinviare al mio: Trump, il muro contro il Messico e l’inquietante decisione della Corte Suprema, al sito: https://archivio.micromega.net/trump-il-muro-con-il-messico-e-linquietante-decisione-della-corte-suprema/
[3] Sul funzionamento dei checks and balances in relazione agli executives orders mi permetto di rinviare al mio: Gli executive orders nell’epoca del trumpismo, al sito: https://www.questionegiustizia.it/articolo/gli-executive-orders-nell-epoca-del-trumpismo_06-02-2017.php
[4] Su questi temi cfr. a fondo, Robert Ovetz, We the Elites: Why the US Constitution Serves the Few, Pluto Press, 2022, e bibliografia ivi riportata.
[5] Sul punto mi permetto di rinviare al mio: La corte Suprema alla prova della politica, in MicroMega, 1.2022, La fine del secolo americano?, p.176 ss.
[6] Così Tanya Chutkan, giudice federale di primo grado nella sua decisione del 1 dicembre 2023, la cui decisione è confermata in appello, nel febbraio del 2024, da un collegio d’appello unanime (https://static01.nyt.com/newsgraphics/documenttools/68ec07f627291201/6b857e6a-full.pdf).
[7] Per la diversa questione, negativamente risolta dai più - salvo casi eccezionalissimi- già prima della decisione di cui si discute qui, relativa alla perseguibilità di un presidente ancora in carica, mi permetto di rinviare al mio Trump e la sfida al diritto. Impeach or perish!, al sito: https://www.questionegiustizia.it/articolo/trump-e-la-sfida-al-diritto-impeach-or-perish_15-01-2020.php
[8] Su cui si vedano le acute riflessioni sul New York Times di Laurence H. Tribe, The Trump Decision Reveals Deep Rot in the System, al sito : https://www.nytimes.com/2024/07/01/opinion/supreme-court-trump-immunity.html
[9] Sul punto, mi permetto di rinviare al mio: Trump è colpevole, ma la democrazia negli Stati Uniti è a rischio, al sito https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/06/03/trump-e-colpevole-ma-la-democrazia-negli-stati-uniti-e-a-rischio/
[10] E’ necessaria un’ampia immunità per i suoi atti ufficiali, ha scritto il Chief Justice Roberts, se si vuole proteggere «un esecutivo che sia energico, indipendente».