Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Esercitare o non esercitare l’azione penale contro Trump? Questo il dilemma di Merrick Garland

di Elisabetta Grande
professoressa ordinaria di diritto comparato, Università del Piemonte Orientale

Il 19 dicembre 2022 il comitato della Camera dei rappresentanti incaricato di investigare sull’assalto di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 conclude i propri lavori con la raccomandazione all’Attorney General, Merrick Garland, di esercitare l’azione penale contro l’ex presidente Donald Trump. Dopo più di un anno di indagini e vari mesi di udienze pubbliche -in cui i 9 membri del comitato, formato anche da due repubblicani (Liz Cheney e Adam Kinzinger), hanno presentato per televisione all’intero paese i passaggi salienti della loro attività investigativa- la richiesta rivolta al dipartimento di giustizia ipotizza per Trump 4 capi di imputazione: aver ostacolato un procedimento ufficiale, aver cospirato per frodare gli Stati Uniti e per fare false affermazioni e infine aver istigato, aiutato o agevolato un’insurrezione («obstructing an official proceeding; conspiracy to defraud the United States; conspiracy to make a false statement; and inciting, assisting or aiding or comforting an insurrection»).

Si tratta in verità di una raccomandazione dal valore puramente politico e simbolico, giacché il comitato della House of Representatives non ha alcun potere di imporre le proprie determinazioni all’organo dell’accusa federale, il quale dovrà prima attendere le decisioni che prenderà lo Special Counsel, Jack Smith, nominato dal dipartimento della giustizia proprio per investigare sulla partecipazione di Trump ai fatti del 6 gennaio. Qualora Mr Smith dovesse risolversi nel senso di esercitare l’azione penale contro Trump, per i reati ipotizzati dal comitato oppure per altre fattispecie criminose, spetterebbe a Merrick Garland l’ultima parola. La richiesta di rinvio a giudizio verrebbe allora portata di fronte a un grand jury che, qualora convinto della fondatezza delle accuse, emanerebbe un indictment, ossia un formale atto di accusa contro l’ex presidente. A quel punto avrebbe luogo un processo davvero speciale e spettacolare, per la peculiarità del caso –mai verificatosi prima-  di un ex presidente sottoposto a procedimento penale e quindi innanzitutto arraigned, ossia posto di fronte alla richiesta di dichiararsi colpevole o innocente, per di più per un fatto commesso durante la presidenza. Qual è mai poi la somma che un giudice potrebbe ritenere capace di garantire la presenza a dibattimento di un miliardario, precedentemente inquilino della Casa Bianca, al fine di concedergli la libertà su cauzione (il bail)?  Mai prima d’ora un giudice ha, inoltre, dovuto chiedere a un ex presidente di consegnare il proprio passaporto. Senza contare quanto foriero di sicure controversie si presenterebbe il voir dire, ossia il procedimento di scelta dei 12 giurati (più le riserve) in un processo così politico, quale quello che in quel caso avrebbe luogo, giacché quasi impossibile si rivelerebbe trovare uomini e donne senza pregiudizi sugli eventi da giudicare. Il dibattimento potrebbe, d’altronde, rivelarsi un boomerang per l’accusa, non solo per le serie difficoltà di provare il dolo dell’ex presidente. Anche perché -a differenza del comitato parlamentare- a processo l’accusa dovrebbe affrontare il contraddittorio e confrontarsi con i legali di Trump, con i testi da loro portati e con le mille regole e strategie processuali capaci di eliminare gli elementi di prova per le più varie ragioni inammissibili. Per quanto non trasmissibile per televisione (a differenza dell’eventuale processo a livello statale a suo carico in Georgia) certamente Trump troverebbe, poi, il modo di fare del dibattimento in aula un palcoscenico per la sua vanità e per alimentare -nel contesto statunitense di estrema polarizzazione politica- la propria popolarità presso i suoi sostenitori, che nel 2020 -si ricordi- sono stati la bellezza di 74 milioni di persone.

Non solo l’apertura di un processo nei suoi confronti, ma perfino la sua eventuale condanna non gli impedirebbe, infatti, né di correre –come ha già annunciato che farà- quale candidato presidenziale nel 2024, né di assumere la relativa carica qualora dovesse risultare vincitore.  

La Costituzione statunitense - alla Sezione 1, clausola 5 dell’Articolo II - prevede, infatti, solo tre requisiti necessari per la candidatura alla carica di presidente: la cittadinanza americana per nascita, la residenza negli Stati Uniti da almeno 14 anni e l’età minima di 35 anni («No Person except a natural born Citizen, or a Citizen of the United States, at the time of the Adoption of this Constitution, shall be eligible to the Office of President; neither shall any Person be eligible to that Office who shall not have attained to the Age of thirty five Years, and been fourteen Years a Resident within the United States»).

Nessun altro requisito può essere aggiunto a quei tre, neppure per legge del Congresso: è quanto deciso dalla Suprema Corte nel 1969, quando Adam Clayton Powell Jr. vinse la sua causa contro un Congresso che lo voleva escludere dal seggio parlamentare conquistato nelle elezioni, perché ritenuto responsabile di aver distratto fondi del Congresso a suo vantaggio e falsificato i relativi resoconti. «Il Congresso non ha il potere di alterare le qualificazioni stabilite dal testo della Costituzione» ebbe a dire la SCOTUS nel caso Powell v. McCormack. Per gli stessi motivi nessuna restrizione può essere quindi posta alla candidatura di Trump, neppure nel caso in cui egli sia rinviato a giudizio o perfino condannato.

Certo vi è la sezione 3 del XIV emendamento che squalifica dalla possibilità di ricoprire una carica federale chiunque «having previously taken an oath … to support the Constitution of the United States, shall have engaged in insurrection or rebellion against the same, or given aid or comfort to the enemies thereof», laddove uno dei reati ipotizzati dal comitato parlamentare sui fatti del 6 gennaio è proprio quello di insurrezione contro gli Stati Uniti. Non soltanto, però, occorrerebbe una legge che desse attuazione a quella sezione (che non è self-executing), assai difficilmente approvabile oggi dalla nuova camera a maggioranza repubblicana, nonostante nel febbraio 2021 sia stato presentato da un rappresentante democratico un disegno di legge in tal senso (l’House Bill 1405). Controverso è, inoltre, il vero significato del termine «insurrezione» nel testo costituzionale e Trump avrebbe buone carte da spendere per dimostrarsi ad esso estraneo, anche laddove fosse condannato per il reato suggerito dal comitato.

Dal carcere -qualora in custodia cautelare o condannato in via definitiva- Trump potrebbe, poi, certamente condurre una campagna elettorale. Gli esempi di candidati al Congresso o alla presidenza mentre incarcerati, quali quello di Matthew Lyon -che nel 1798 corse per il primo e fu eletto nonostante fosse in prigione per una condanna di sedizione per aver manifestato contro l’amministrazione federalista di Adams- o del fondatore del partito socialista statunitense Eugene Debs -che nel 1920 dalla prigione condusse la sua, infruttuosa, campagna per la presidenza- lo dimostrano. 

Si potrebbe forse ipotizzare l’applicazione del XXV emendamento per il caso in cui, risultato vittorioso, Trump dovesse permanere il cella, in quanto condannato anche in Georgia per il tentativo di manipolare i risultati elettorali. Pur potendosi auto graziare a livello federale, egli infatti non potrebbe invece farlo per una eventuale condanna a livello statale.  Il XXV emendamento permette al vice presidente, insieme alla maggioranza del governo, di sospendere il presidente dal suo incarico se essi concludono che egli è incapace di far fronte ai suoi doveri. E’ un emendamento pensato per le ipotesi di malattia, ma che ben potrebbe essere interpretato estensivamente per rimuovere un presidente recluso. Trump avrebbe buon gioco tuttavia ad opporsi alla propria rimozione sostenendo che, non essendoci alcun impedimento formale costituzionale al proposito, l’ufficio ovale potrebbe essere spostato in carcere. Sul punto dovrebbe allora decidere il Congresso, che solo a maggioranza qualificata di due terzi potrebbe sospenderlo dall’incarico: una prospettiva assai inverosimile!

In ultimo, quand’anche un altro repubblicano – Ron De Santis per esempio- dovesse diventare presidente degli Stati Uniti nel 2024, a livello federale egli potrebbe sempre concedere la grazia a Trump e tutto il lavoro fatto, con i relativi i rischi di perdere la propria difficile battaglia legale con conseguente pubblica umiliazione, da parte dell’Attorney General risulterebbero grandemente inutili.

Sono questi gli elementi che Merrick Garland si trova a dover soppesare a fronte delle raccomandazioni di esercizio dell’azione penale -per loro prive di svantaggi- dei 9 membri del comitato della camera dei rappresentanti. Un compito non facile, laddove le considerazioni giuridiche si mescolano a quelle politiche e il desiderio pur forte di mettere in moto l’apparato penal-processuale contro Trump appare altrettanto fortemente contenuto dalle sue possibili conseguenze negative. Buon anno, dunque, e buone riflessioni all’Attorney General!

09/01/2023
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