Questa non vuole essere una recensione, ma un invito verso un libro che mi ha toccato. Perché, se il sapere non è conoscere, sapere può stimolare intuizioni in grado di avvicinarci alla conoscenza. Questo mi sembra il motivo per cui Sarah Smarsh ha impiegato anni in ricerca e scritto il libro intitolato alla sua “terra del cuore”. E cosa voglia comunicarci lo dice bene il sottotitolo «Al cuore della povertà nel Paese più ricco del mondo».
La sua è (fondamentalmente) una storia di donne che vivono nella piatta e infinita campagna del Kansas, dove esistono solo fattorie e poche grandi industrie riservate al lavoro maschile. Donne povere in un mondo povero, donne destinate a restare povere nonostante una vita di lotta e di fatica, generazione dopo generazione.
L’Autrice è riuscita a tirarsi fuori dal destino che ha segnato le donne della sua famiglia con storie che ella ha pazientemente ricostruito attraverso ricordi personali, documenti e testimonianze. Perché niente in quelle vite è banale e, con un tratto che riconosciamo in moltissimi scrittori americani, quando le si raccontano occorre essere documentati, precisi e onesti.
Dicevo che le varie essenze della “vera” povertà non si possono comprendere se non le si sperimenta. Anche chi ai poveri si avvicina e ne condivide la fatica e parti della vita rimane sempre “spettatore”. Uno spettatore che torna in una casa pulita per un pranzo caldo e buono e che ha un lavoro che può coltivare senza dannarsi l’anima per conciliare i pezzi della propria vita. Non è così per chi nasce povero e resta povero in un Paese ricco, soprattutto se è una donna: «… un conto è servire ai tavoli, un altro è dover subire le molestie sessuali di un datore di lavoro quando non si è nella condizioni di opporsi e rischiare di perdere una serata d mance»; e ancora: «La povertà complica la maternità e la maternità complica la povertà. Il più indigente nucleo familiare, negli Stati Uniti, è costituito da una madre single con i propri figli».
Chi è povero svolge lavori umili, e il suo corpo è spesso in pericolo e la cosa peggiore è che non può curarsi come avrebbe diritto: «Una vita ricca di pericoli e povera di cure lascia un segno non soltanto nel corpo, ma anche nella mente. Sotto la superficie l’amigdala – il complesso cerebrale deputato a gestire la paura – si ingrossa e rimane tale, in un riflesso fisico allo stato di allerta perpetua che si sviluppa per cause di forza maggiore in condizioni di stress cronico».
E questa condizione di tensione e di stress cronico diventa parente di violenza. Una violenza domestica che quasi tutte le donne della famiglia hanno conosciuto («nella famiglia di mia madre questa paura era ormai parte della tradizione»), al pari di tante parenti e amiche. Allo stesso tempo essa genera una condizione permanente e sotterranea di rancore e «una vita condizionata da quel genere di rancore è dolorosa. E anche pericolosa». Il rancore nasce da una pluralità di fattori. La sensazione di “essere in gabbia”: per quanto si fatichi e ci si impegni, non si vede via d’uscita. Crescere in famiglie “disfunzionali” segna la personalità in modo profondo e tutti gli esempi delle persone adulte attorno non fanno che accrescere il senso di frustrazione. E poi il senso di vergogna e di colpa collegato allo stigma sociale: «All’origine di quella vergogna, però, non c’era un peccato mio. C’era il disprezzo che il nostro Paese nutre per chiunque abbia bisogno di un aiuto economico, un disprezzo espresso perfino nelle sue leggi. La prova più lampante dello sdegno americano verso chi soffre sta forse proprio nel suo atteggiamento verso i sussidi statali, che i politici e l’opinione pubblica considerano talmente disdicevoli da spingere la mia famiglia, che avrebbe avuto tutti i requisiti per ottenerli, a non chiederli mai».
«Negli Stati Uniti umiliare i poveri rappresenta una forma molto originale di bigottismo che non riguarda soltanto chi, o cosa, si è – il colore della pelle. Il genere verso cui si prova attrazione, il fatto stesso di avere un utero. Ha piuttosto a che fare con il fallimento delle proprie azioni – cioè il mancato successo economico in relazione al capitalismo – e con ciò che questo fallimento implica nella percezione del proprio valore in una teorica meritocrazia».
Difficoltà economiche, vergogna e sopportazione, timore di non essere ascoltati, convinzione che le istituzioni pubbliche sanno solo prendere e non aiutare, mancanza di denaro anche per ciò che sarebbe essenziale: questo il mix che spinge le persone povere a non rivendicare i propri diritti e a non agire per ottenere giustizia.
E, poi, la povertà genera precarietà. Nel corso del suo lavoro l’Autrice racconta le innumerevoli volte in cui membri della sua famiglia hanno dovuto cambiare luogo di abitazione, ora per cercare di uscire da una situazione insostenibile, ora nella speranza di trovare condizioni migliori. Continui trasferimenti tra fattorie, piccole abitazioni di periferia, roulottes, una condizione che per i ragazzi ha comportato innumerevoli cambiamenti di scuola, costretti ogni volta a ricominciare da capo, magari a metà anno scolastico, per poi spostarsi di nuovo pochi mesi dopo.
Ma chi è povero sa anche, quasi per istinto, che aiutarsi è un dovere. Condividere il poco che si ha con chi è rimasto solo, o ha perso tutto, o ha dovuto fuggire da un marito violento o sfaccendato, sapendo che altrettanta attenzione riceverai quando sarai tu ad avere bisogno. È, questa una lezione che viene da lontano, «come avevano imparato tutti quegli europei trasferitisi a ovest per costruirsi la casa dal niente nel bel mezzo della prateria: o si lavora insieme o si crepa di fame da soli». E quando il nonno muore e la fattoria di famiglia dev’essere venduta con i suoi attrezzi, coloro che li acquistavano «avevano fatto salire i prezzi invece di giocare al ribasso, cosa assai rara, e avevano pagato intenzionalmente più del valore di mercato. Sapevano che (il nonno) avrebbe fatto lo stesso ad altre svendite… sapevano bene quanto valeva la vita di un uomo».
Questi pochi spunti non rendono conto di un testo che pagina dopo pagina ci porta in un mondo lontano, fatto di vita dura, di testardaggine, di violenza e solidarietà e, poco a poco, ci coinvolge e ci emoziona fino a farci “sentire” la povertà nei suoi numerosi risvolti. Una povertà narrata con precisione e spirito critico da chi l’ha vissuta e ne conserva tutto il peso, gli odori, i segni (compreso il rifiuto di maternità che percorre tutto il testo) anche dopo aver saputo, con grande intelligenza e pervicacia, cambiare il proprio destino e non dimenticare.