Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Mai la rule of law

di Elisabetta Grande
professoressa ordinaria di diritto comparato, Università del Piemonte Orientale

1. Mai la rule of law, ossia il principio del governo della legge in senso ampio e non degli uomini, è stato messo in discussione negli Stati Uniti come sta accadendo oggi, con il secondo Trump.

La legge fondamentale, ossia la Costituzione, fin dalla nascita della «more perfect Union» – nel 1787-governa innanzitutto i rapporti fra i poteri dello Stato e in particolare fra il Congresso e il Presidente. Mentre a quest’ultimo assegna il monopolio della forza- il così detto potere della spada- al primo attribuisce non solo il compito di legiferare – il potere, cioè, della penna- ma anche quello di stabilire quanti, dove e come debbano essere allocati i fondi che l’esecutivo spenderà – ossia il potere della borsa.  Alle corti spetta poi l’incarico di far rispettare le leggi e, dopo la sentenza Marbury v. Madison del 1803, anche quello di dichiarare l’incostituzionalità – fra l’altro- delle leggi del Congresso, nonché dei regolamenti e dei comportamenti dell’esecutivo.

Si tratta del sistema dei così detti checks and balances, da sempre celebrato come un modello di democrazia capace di garantire che sia il popolo –tramite il Congresso e le sue leggi- a governare e non il Presidente, che dalle leggi rispettose della Costituzione sarebbe invece limitato.

Che Trump fosse allergico ai limiti provenienti dal sistema di pesi e contrappesi costituzionalmente previsto e che volesse ergersi al di sopra della legge, esautorando le prerogative del Congresso, era già risultato evidente durante il suo primo mandato. In questo secondo term, però, l’attacco alle fondamenta dell’equilibrio costituzionale previsto dai padri fondatori è stato pesantissimo e senza esclusione di colpi fin dal primo momento, ciò che ha immediatamente portato all’ordine del giorno il tema della crisi costituzionale e delle sue difficili soluzioni.  

 

2. Ad oggi non si contano più gli ordini esecutivi emanati da Donald Trump, con i quali egli ha fatto uso di un potere proprio del Congresso, quello della penna -teoricamente da lui rivendicabile solo in via di eccezione- evocando emergenze di ogni tipo e specie per giustificare la sua attività di legislatore (come l’emergenza del fentanyl per usurpare il potere di legiferare sui dazi affidato al Congresso dall’ articolo I, sez. 8, prima clausola). Attraverso il blocco impartito, in applicazione di suoi ordini esecutivi, dalla sua amministrazione all’erogazione di migliaia di miliardi di dollari allocati dal Congresso per spese sociali e aiuti internazionali, egli ha poi di fatto usurpato anche il potere di borsa. «L’esecutivo si è posto al di sopra del Congresso» perché il blocco dei fondi «scardina alla base la distinzione di ruoli che la Costituzione stabilisce per ciascun potere del nostro Stato» ha dichiarato il giudice Mc Connell Jr., quando per la seconda volta ha imposto lo sblocco del danaro destinato ai più deboli. Il suo precedente ordine dello stesso tenore non era infatti stato rispettato, così come non era stato rispettato quello di un altro giudice federale di distretto che aveva scongelato almeno una parte dei fondi attribuiti dal Congresso agli aiuti internazionali.

Il congelamento del denaro allocato dal Congresso («impounding»), esplicitamente proibito da una legge del 1974 – l’Impoundment Control Act-  dopo che Nixon aveva bloccato il denaro che il Congresso aveva stanziato per la costruzione di autostrade e per affrontare l’inquinamento, era d’altronde stato ampiamente annunciato in campagna elettorale ed è parte del più ampio programma del presidente di smantellamento dell’intero apparato amministrativo federale. Già quattro anni fa Russell Vought, allora come oggi a capo dell’Ufficio della gestione e del bilancio e mente del famigerato Project 2025, aveva scritto che l’Impounding Control Act è «un albatro intorno al collo del presidente», il quale «avrebbe dovuto essere lasciato libero di considerare come meglio spendere il danaro federale». In forza della dottrina chiamata «unitary executive theory», propugnata dal progetto, il presidente deve infatti poter disporre di un apparato esecutivo agile, tutto ai suoi ordini e deve avere meno limiti possibile. In quest’ottica l’argomento della riduzione della spesa pubblica è stato messo al servizio della eliminazione di tutto l’apparato federale, così come lo si conosce dai tempi di F.D. Roosevelt, attraverso non soltanto il congelamento di migliaia di miliardi da parte dell’amministrazione Trump, ma anche mediante i piani di volontarie dimissioni (il così detto programma “Fork in the Road” di Musk), i massicci ed illegali licenziamenti di migliaia e migliaia di impiegati federali, lo svuotamento o addirittura l’eliminazione delle agenzie federali indipendenti –che come tali non potevano più sopravvivere- e perfino di interi dipartimenti (si pensi al Dipartimento della pubblica istruzione la cui cancellazione è stata avviata da poco). Il tutto con l’aiuto dell’ormai famigerato DOGE, il dipartimento dell’efficienza, al cui comando sta Elon Musk, non eletto da alcuno, né confermato dal Senato -come vorrebbero le regole costituzionali dei pesi e dei contrappesi per permettere al Congresso un controllo sull’esecutivo- né soprattutto obbligato -come qualsiasi altro membro del governo- ad abbandonare il controllo diretto sul suo patrimonio per evitare ovvi conflitti di interesse. 

 

3. Ognuna di queste mosse di Trump e della sua amministrazione non poteva non comportare l’intervento di chi, nel quadro costituzionale, ha il dovere di limitare gli abusi del presidente, soprattutto laddove il Congresso non reagisca all’invasione del suo campo di azione ma anzi, in relazione per esempio alla sua prerogativa della borsa, deleghi addirittura al presidente il corrispondente potere, come è di recente avvenuto con l’approvazione da parte del parlamento statunitense dell’ultima legge di bilancio

Ci si riferisce ovviamente al necessario intervento del terzo attore istituzionale: le corti di giustizia, alle quali è demandato un compito che però, paradossalmente, in base alle stesse regole del sistema esse non hanno la forza di portare a termine.

Le tante mosse dell’amministrazione di Trump sono, infatti, state immediatamente contrattaccate da altrettante azioni giudiziarie, che in molti casi hanno dato luogo a decisioni che ne hanno imposto una marcia indietro. Il rispetto, però delle pronunce è spesso mancato, come nei casi su richiamati: la maggioranza dei fondi illegittimamente bloccati restano per esempio congelati, così come la maggioranza dei lavoratori illegittimamente licenziati non sono tornati al lavoro. L’inottemperanza alle decisioni è stata, tuttavia, sempre giustificata con l’invocazione di ragioni pratiche o giuridiche che -per quanto poco plausibili- hanno permesso di evitare l’aperta violazione degli ordini ricevuti. Ciò perlomeno fino all’ultimo caso, non ancora conclusosi, della deportazione senza processo di centinaia di venezuelani nelle violente prigioni salvadoregne, sulla base di una legge del 1798 che dà al presidente -durante un’invasione o in tempo di guerra-il potere di espellere in via sommaria i cittadini dello stato ostile che abbiano più di 14 anni, in quanto nemici. A seguito dell’ordine imposto all’amministrazione Trump dal giudice di distretto federale James Boaseberg, del District of Columbia, di non far partire gli aerei con i migranti e se già in volo di farli subito rientrare –poiché gli pareva quantomeno dubbio che Trump potesse effettivamente far ricorso a una legge finora usata solo in tempo di guerra- l’amministrazione non solo non vi ha ottemperato ma, alla richiesta di fornire dettagli relativi agli orari di partenza e di atterraggio degli aerei, ha risposto con un atteggiamento sfacciatamente e dichiaratamente omissivo. 

E’ stato questo il momento in cui la sfida alla rule of law, spesso minacciata dall’amministrazione Trump, ma mai esplicitamente rivendicata in corte, si è per la prima volta manifestata apertamente di fronte a un giudice. 

 

4. Ma cosa potrebbe succedere laddove Trump e la sua amministrazione si imputassero nel rifiuto di obbedire ai giudici?

Gli strumenti a disposizione di questi ultimi sono assai spuntati. La prima arma di cui dispongono i giudici è dichiarare che Trump o la sua amministrazione hanno commesso un criminal contempt of court, reato che comporta una pena pecuniaria o una pena detentiva. Trump però - ha detto la Corte Suprema la scorsa estate- è immune da sanzione penale per i reati commessi nell’esercizio delle sue funzioni e può comunque sempre graziare chi sia stato condannato per quel reato compreso se stesso. La seconda arma è un civil contempt of court, che comporta la sanzione civile della detenzione fintanto che non si ottemperi all’ordine. Chi fa eseguire la sanzione è però lo U.S. Marshall’s Service, che dipende dal Dipartimento di giustizia, cui Trump può sempre ordinare di non condurre in prigione colui o colei che abbia violato l’ordine della corte. L’ultima spiaggia è rappresentata dall’impeachment di Trump o di chi della sua amministrazione fa parte: possibilità che -data l’attuale composizione del Congresso- è oggi certamente da escludere.

Né, sotto il profilo della responsabilità civile per i danni causati alle tante vittime dei suoi comportamenti illeciti, Trump e la sua l’amministrazione potrebbero seriamente temere dei contraccolpi giudiziari, data l’immunità sovrana di cui godono. 

 

5. E’ a fronte di questo quadro che quelle che potevano apparire semplici boutades cominciano oggi ad assumere i contorni di serie minacce per l’ordine costituzionale statunitense, acquistando il tono inquietante di un serio programma di sovversione del sistema costituzionale. Si pensi alla dichiarazione di Trump, secondo cui «chi salva l’America, non può violare la legge»; o alla sua affermazione ai giornalisti, dopo l’ordine di un giudice federale californiano di riassumere migliaia di lavoratori illegittimamente licenziati, che così facendo quel giudice «si è sostituito al presidente degli Stati Uniti, che è stato eletto con quasi 80 milioni di voti»; oppure alla dichiarazione di J.D. Vance su X che «i giudici non possono controllare il legittimo potere dell’esecutivo»; o ancora alle parole di Aaron Reitz che, scelto per guidare l‘ufficio della Legal Policy, nella sua audizione di conferma al Senato ha sostenuto: «Non esiste una regola rigida e definitiva su se, in ogni caso, un pubblico ufficiale sia vincolato dalla decisione di una corte. Ci sono alcune situazioni in cui lui o lei potrebbe essere legalmente vincolato, e altre in cui potrebbe non esserlo». Si pensi ancora che a seguito della richiesta del giudice Boasberg di dimostrare che l’amministrazione non avesse violato il suo ordine, il così detto zar delle frontiere - Tom Homan - ha asserito che i voli di deportazione continueranno perché «non mi importa di ciò che i giudici pensano»; o che - fomentato da Trump che lo ha definito un «pazzo radicale di sinistra» - per quello stesso giudice un deputato repubblicano ha presentato (sia pure sicuramente senza speranza di successo) domanda di impeachment, giacché avrebbe osato cercare di impedire al presidente di perseguire quegli obiettivi di deportazione promessi in campagna elettorale.  

Negli Stati Uniti si affaccia, insomma, un nuovo assetto istituzionale in cui un presidente legibus solutus può - fuori da ogni controllo fondato sui checks and balances - far strame a suo piacimento dei diritti e delle garanzie posti finora a protezione degli individui. In questa direzione muove pericolosamente anche l’ultimo memorandum di Trump che, facendo seguito a sanzioni già applicate agli avvocati che nel passato hanno rappresentato i suoi avversari politici, sprona i dipartimenti di giustizia e della sicurezza interna a «perseguire gli studi legali e gli avvocati che intraprendono liti frivole, irragionevoli e vessatorie contro gli Stati Uniti». Si tratta della ricetta perfetta per bloccare in nuce l’intervento delle corti e il loro controllo sull’esecutivo, giacché –intimiditi- gli avvocati non oseranno più intentare azioni contro di lui o la sua amministrazione. Un nuovo capitolo della storia sembra, dunque, stia per aprirsi per quella che è stata celebrata come la democrazia costituzionale più antica del mondo e non c’è sicuramente di che gioire.  

26/03/2025
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