1. La profezia di Theodore Roosevelt: i robber barons
Come i discorsi di altri presidenti americani, che nel passato hanno lasciato la carica in momenti cruciali per lo sviluppo politico ed economico degli Stati Uniti - e per estensione del mondo tutto- anche quello di fine mandato di Joe Biden è apparso altamente profetico.
Già nel 1910 Teddy Roosevelt aveva messo in guardia contro il serio rischio che «una piccola classe di uomini enormemente ricchi ed economicamente potenti, il cui obiettivo principale è mantenere e accrescere il loro potere» potesse distruggere la democrazia americana. Erano i tempi di quella che Mark Twain aveva definito la Gilded Age nel suo omonimo romanzo, scritto con Charles Dudley nel 1873.
Alla fine dell’800, infatti, i robber barons, oggi citati da Biden (si veda infra), avevano preso in scacco il sistema politico ed economico statunitense, determinando con i loro soldi le politiche legislative e giudiziarie del paese. Senza freni né limiti essi avevano dato luogo ad enormi monopoli nei settori petroliferi, delle infrastrutture, dell’acciaio e della finanza, diventando ricchi come mai si sarebbe fino ad allora immaginato, grazie allo sfruttamento senza ritegno dei lavoratori, all’eliminazione di ogni concorrenza e all’applicazione di prezzi esorbitanti sulle loro merci. I vari J. P. Morgan, John D. Rockefeller, Andrew Carnegie, Cornelius Vanderbilt, Jay Gould, E. H. Harriman ed Henry Clay Frick, fra gli altri, avevano a quei tempi trasformato l’economia americana da agricola e mercantile in economia della produzione di massa e il torno d’anni a cavaliere fra i secoli XIX e XX aveva segnato il boom delle ferrovie, dei telefoni, del cinema, dell’elettricità e delle automobili. Arricchendosi, però, oltremisura essi avevano altresì dato vita ad una società terribilmente disuguale in cui la stragrande maggioranza della gente viveva in miseria, lavorava - privata della possibilità di sindacalizzarsi - senza limiti di orario o di età (bambini anche sotto i 10 anni lavoravano, per esempio, senza sosta come manodopera sfruttata). Per questo in un articolo dell’agosto del 1870 dell’Atlantic Monthly essi si erano guadagnati l’appellativo di “robber barons”: baroni rapinatori.
Già sotto Teddy Roosevelt -e dopo di lui, durante la così detta Progressive Era, che arriva fino al 1920- erano stati fatti alcuni tentativi per porre un freno alla scalata dei nuovi padroni degli Stati Uniti ai danni di tutti gli altri, nonché della democrazia stessa (in buona misura - a leggere R. Ovetz, We the Elites[1]- portato peraltro della stessa struttura costituzionale, così come pensata nel 1787). T. Roosevelt, presidente dal 1901 al 1909, aveva per esempio cercato di applicare lo Sherman Act per spezzare i grandi monopoli; nel 1907, poi, il suo Congresso aveva emanato il Tillman Act (la prima normativa volta a vietare il contributo diretto delle corporation alle elezioni federali, che tuttavia doveva risultare facile da aggirare) e pochi anni dopo, nel 1913, era stato eluso l’ostacolo all’applicazione di una tassazione progressiva sui redditi, posto dalla Corte Suprema con il caso Pollock v. Farmers’ Loan & Trust Co. del 1895, attraverso l’approvazione del XVI emendamento alla Costituzione. Nel 1916 e nel 1922, inoltre, erano state introdotte tasse federali sulle successioni e sul capital gain.
2. Cambio di rotta: F.D. Roosevelt e il capitalismo dal volto umano
Doveva però essere soprattutto a partire dagli anni ’30, sotto la presidenza del cugino di Teddy, Franklin Delano Roosevelt -a differenza del primo, espressione quest’ultimo del partito democratico- che quello che dispregiativamente fu poi chiamato big government entrò a pieno titolo e a pieno ritmo a far parte del sistema statunitense. Occorreva uscire dalla grande crisi del ’29 e le ricette di Herbert Hoover e di F.D. Roosevelt, che nel 1932 si contendevano la presidenza, si presentavano sul punto di segno opposto. Il primo avrebbe voluto ridurre l’ingerenza del governo di Washington al minimo, mentre per il secondo solo un massiccio intervento del governo federale avrebbe potuto salvare il paese. Vinse F.D. Roosevelt e il suo New Deal cambiò il capitalismo statunitense, apportandovi quei correttivi sociali che gli avrebbero conferito un volto umano. Con le pensioni di vecchiaia, i sussidi di disoccupazione, il salario minimo, l’aiuto alle mamme single e un nuovo e penetrante controllo sul business nascevano, infatti, le agenzie amministrative federali, deputate ad amministrare i programmi di servizio sociale e a dare applicazione – anche in maniera creativa- alle norme volte a regolamentare le imprese a tutela della collettività[2]. Il così detto Stato amministrativo, era talmente cresciuto che, se alla fin dell’800 si contavano meno di 100.000 dipendenti federali, già alla fine del 1939 le corrispondenti unità erano arrivate a 900.000. Lyndon Johnson, con il suo piano di Great Society e i suoi nuovi programmi di welfare, così come in parte anche Nixon, aumentarono il numero delle agenzie amministrative federali e dei dipendenti del così detto deep state. Questi ultimi, non selezionati politicamente (tranne che ai vertici) secondo lo spoil system, ma assunti stabilmente sulla base del merito per garantire continuità ai governi presidenziali, si attestarono poi sull’attuale cifra di più di due milioni.
3. L’avvertimento di Biden: una nuova Gilded Age…
Dopo l’elezione di Donald Trump è proprio questo apparato amministrativo - votato a un tempo a distribuire ciò che da Ronald Reagan in poi è rimasto dei programmi sociali di F.D. Roosevelt e di Lyndon Johnson, nonché a porre un freno ai profitti esagerati del business corporate ottenuti sacrificando i bisogni collettivi - a correre il serissimo rischio di essere smantellato. E’ questo, infatti, il piano della Heritage Foundation, che ha preso il nome di Project 2025 e che trova ottima illustrazione nel libro di Newt Gingrich -un tempo speaker della camera per i Repubblicani - Defeating Big Government Socialism: Saving America’s Future (2022), laddove il sottotitolo di un capitolo è significativamente: «Ribaltare Roosevelt».
Allo scopo è stato creato il DOGE, ossia il Dipartimento per l’efficienza del governo, che si è dato il compito di ridurre di 2 trilioni di dollari le spese dell’apparato amministrativo federale che oggi ammontano a più di 6 trilioni. Si tratta di un dipartimento inventato all’uopo, del tutto informale - perciò non necessitante, secondo il principio dei checks and balances alla base del sistema democratico statunitense, di approvazione dei suoi membri da parte del Senato - pur tuttavia estremamente incisivo nelle intenzioni dei suoi fondatori. I suoi co-direttori, Elon Musk e Vivek Ramaswamy (quest’ultimo da poco ritiratosi dal progetto), hanno reclutato nel mondo delle big tech gli addetti ad entrare - a due a due - all’interno delle agenzie amministrative federali. Gli “efficientatori” sono ricchi, capaci, intelligenti, veloci, competenti nei vari settori in cui si chiede loro di operare e lavoreranno gratuitamente per 80 ore a settimana per ridurre le spese del deep state, ossia dell’"enemy from within” (il nemico interno) nell’espressione più volte usata da Trump in campagna elettorale. L’obiettivo consiste nel cancellare non soltanto la stragrande maggioranza degli aiuti di Stato ai più deboli, ma soprattutto nell’eliminare qualsiasi capacità di mordere delle agenzie che hanno finora cercato di dare attuazione -anche con un certo grado di autonomia- a regolamentazioni volte a impedire gli eccessivi monopoli delle corporation e più in generale a porre dei limiti alle attività corporate pericolose o dannose per la collettività. Sono le agenzie come l’EPA (Environmental Protection Agency), la FTC (Federal Trade Commission), la FCC (Federal Communications Commission) – giusto per nominarne alcune- i cui vertici, già stati sostituiti da Trump, hanno - come nel caso della FTC - immediatamente invertito la rotta, timidamente intrapresa sotto Biden, volta a responsabilizzare le imprese per le attività sempre più invasive della sfera intima dei consumatori/cittadini, messe in atto a scopo di estrazione e profitto.
L’avvertimento, dunque, contro un ritorno alla Gilded Age e ai robber barons, così come il richiamo alla profezia di Teddy Roosevelt, contenuto nel discorso di fine mandato di Biden, non avrebbe potuto risultare più appropriato.
«… nel mio discorso di addio di stasera, voglio mettere in guardia il paese su alcune cose che mi preoccupano molto. E questo è un pericolo - ed è la pericolosa concentrazione del potere nelle mani di pochissime persone ultra-ricche, e le pericolose conseguenze se il loro abuso di potere non viene fermato. Oggi, in America si sta formando un’oligarchia di ricchezza estrema, potere e influenza che minaccia letteralmente tutta la nostra democrazia, i nostri diritti e le nostre libertà fondamentali e una possibilità equa per tutti di avere successo. Vediamo le conseguenze in tutta l'America. E l'abbiamo già visto prima.
Più di un secolo fa, il popolo americano si è alzato contro i baroni ladri dell'epoca e ha smantellato i trust. Non hanno punito i ricchi. Hanno semplicemente fatto sì che i ricchi giocassero secondo le regole che tutti gli altri dovevano seguire. I lavoratori vogliono i diritti per guadagnarsi la loro giusta parte. Sapete, sono stati inclusi nell'affare, e questo ci ha aiutato a metterci sulla strada per costruire la classe media più grande e prospera che il mondo abbia mai visto. Dobbiamo farlo di nuovo», ha detto Joe Biden prima di andarsene.
4. …o qualcosa di peggio?
Il governo degli ultra ricchi, pronti a dare attuazione al progetto di ritorno alla Gilded Age, è già in carica o quasi. Pensiamo, fra i tanti, a un ministro del tesoro come Scott Bessent, responsabile di un fondo speculativo (peraltro in difficoltà); o a un capo del dipartimento dell’energia come Chris Wright, amministratore delegato di una delle principali compagnie di fracking (Liberty Energy); al tech miliardario e venture capitalist Doug Burgum in veste di segretario degli interni o a Howard Lutnick, amministratore delegato e presidente della società di servizi finanziari Cantor Fitzgerald, nel ruolo di segretario del commercio. Alcune nomine di Trump, poi, sono strettamente legate al Project 2025, come quelle di Russell Vought, John Ratcliff e Brendan Carr: il primo scelto per guidare l’Ufficio per la gestione e il bilancio, il secondo e il terzo per dirigere rispettivamente la CIA e la FCC.
Quella di oggi, però, non è come un tempo la concentrazione del potere nelle mani di pochi uomini miliardari o ultramiliardari. Rischia di essere assai peggio, ossia di consistere nell’abbandono dello Stato nelle mani delle corporation, di cui quegli uomini sono espressione e che, a differenza della fine dell’ottocento e degli inizi del novecento, sono oggi immortali e antropomorfizzate. Negli Stati Uniti, a partire dai primi del ’900, le corti di giustizia statali, poi i legislatori e infine la Corte suprema federale hanno conferito, infatti, alle corporation lo status di ente non artificiale, bensì naturale, ciò che ha significato liberarle dall’obbligo di estinguersi una volta che avessero raggiunto l’obiettivo per cui erano state costituite[3]. Le persone fisiche, tramite le loro istituzioni hanno, insomma, dotato le persone giuridiche - enti senza anima né cuore, il cui solo obiettivo è il profitto e la cui unica prospettiva la trimestrale di cassa - di quel crisma dell’immortalità che a loro stessi manca; con ciò che ne è conseguito in termini di accumulo infinito di ricchezza e quindi di potere da parte delle stesse. Casi noti come Hobby Lobby[4] o come Citizen United[5], hanno poi attribuito loro non solo il diritto di proprietà che hanno sempre avuto, ma addirittura di professare il proprio credo religioso e di esprimere liberamente il proprio pensiero. Giacché però le corporation parlano con i soldi, in quest’ultimo caso ciò ha significato ridare loro il diritto, cancellato nel 1907 con il Tillman Act, di partecipare con danaro infinito alle campagne elettorali.
5. La profezia di Dwight Eisenhower: i complessi industriali
L’altra inquietante profezia, quella di Dwight Eisenhower, ha così da allora potuto avverarsi appieno. «Negli ambienti del governo, ci dobbiamo guardare dall’influenza ingiustificata, che sia cercata o non cercata, da parte del complesso militare-industriale. Esiste il potenziale per l'ascesa disastrosa di un potere mal diretto e persisterà», aveva avvertito il presidente repubblicano lasciando la carica, nel 1961.
Accanto al complesso militare industriale, tanti altri complessi industriali esistevano o sono poi nati e cresciuti: quello penitenziario, per esempio, o quello tecnologico e poi -sopra ogni altro- quello finanziario e grazie alla decisione Citizen United, la cattura del politico da parte di quel potere economico si è finalmente realizzata senza filtri. Come tutte le volte che a un fenomeno sotterraneo si dà legittimazione formale, le cateratte si sono infatti aperte, dando luogo a quella inondazione di danaro sui politici di cui sono oggi testimonianza i 16 miliardi spesi nell’ultima campagna elettorale, il 50% dei quali è provenuto dal solo 1% dei donatori.
Lo stesso Joe Biden - che mette in guardia contro i poteri forti, che faranno un passo avanti nel corrompere politica e democrazia quando le corporation otterranno perfino la libertà di fare ciò che ritengono più profittevole per loro senza freni istituzionali - è però paradossalmente proprio il prodotto della cattura politica da parte del complesso industriale pronosticata da Eisenhower.
«Se si vuole capire come Joe Biden è divenuto Joe Biden, occorre capire come il Delaware è diventato il Delaware» scriveva Tim Murphy nel 2019[6]. È in quello Stato infatti che, nel 1972, Biden è eletto per la prima volta senatore al Congresso federale. Detto anche Company State, il Delaware è conosciuto come il Lussemburgo statunitense per il trattamento di favore che riserva alle corporation, che lì hanno stabilito in massa la propria sede legale e la cui influenza sulla politica locale e nazionale, attraverso i propri eletti al Congresso, è sempre stata fortissima. Dominato ai tempi dell’ascesa politica di Biden dal gigante della chimica DuPont (al punto che Ralph Nader e il suo gruppo, in un loro famoso libro/inchiesta, sostenevano che, se DuPont avesse voluto, avrebbe potuto vendere l’intero Stato alla General Motors[7]), nei decenni successivi il centro di gravità politico ed economico del Delaware passa dal mondo della chimica a quello finanziario e bancario, cui Biden è strettamente legato anche dal punto di vista del necessario sostegno economico durante le sue campagne elettorali. La più importante compagnia di carte di credito, la MBNA, si sostituisce alla DuPont nel controllo economico dello Stato e di conseguenza in quello politico. È noto come, attraverso l’invito ai propri impiegati a donare a chi di dovere[8], la finanziaria elargisse grosse quantità di dollari ai candidati politici alle elezioni federali. Di regola si trattava di candidati repubblicani (gli impiegati della MBNA hanno per esempio enormemente contribuito alla campagna di George W. Bush nel 2000); Joe Biden – che con Charles Cawley, fondatore e poi amministratore delegato di MBNA, intrattiene stretti legami - è l’eccezione.
6. Joe Biden: una profezia di cui porta la responsabilità
Il presidente uscente non ha mai mancato di dimostrare riconoscenza a chi nel tempo gli ha permesso di essere eletto. L’aiuto corporate in campagna elettorale è stato per esempio ripagato con l’appoggio incondizionato da parte sua alla cancellazione, nel 1999, di quel Glass-Steagall Act che, nel 1933, dopo la Grande depressione, aveva separato – a beneficio dei risparmiatori – le banche commerciali da quelle di investimento (e la crisi del 2008 ha poi reso palese come a subire le drammatiche conseguenze di quell’intervento riformatore siano stati i più deboli). O, ancora, ha trovato ricompensa nel suo sostegno a quelle politiche legislative (guerra alla droga, Crime Bill del 1994, ecc.) che, nelle parole di Loïc Wacquant, a partire dagli anni ’80, hanno trasformato lo stato sociale americano in stato penitenziario[9], a tutto vantaggio delle grandi corporation del prison industrial complex[10]. La cattura di Biden, proprio da parte di quel complesso militare industriale contro cui Eisenhower si era scagliato, si è poi resa evidente nella composizione della sua amministrazione presidenziale, laddove esponenti di spicco di quel mondo d’affari hanno assunto il ruolo di ministri, sottosegretari o direttrici dell’Intelligence nazionale[11].
Ha dunque ragione il presidente uscente ad ammonire gli americani e il mondo intero dei pericoli che si corrono a lasciare in mano non soltanto a uomini potenti, ma addirittura a corporation senza scrupoli – di cui quegli uomini sono espressione- il governo e la democrazia americana. Proprio perché senza cuore né anima, le corporation –la cui cifra è fare profitti sulle sofferenze umane- e i fondi di investimento che le controllano potranno, infatti, infliggere agli esseri in carne ed ossa che governano afflizioni inaudite.
Prepariamoci al peggio, dunque, ma evitiamo di pensare che chi oggi ammonisce contro un tal pericolo non abbia a sua volta pesanti responsabilità.
[1] Robert Ovetz, We the Elites: Why the US Constitution Serves the Few, 2022.
[2] Secondo Glaeser e Schleifer, Harvard Law Review, The Rise of the Regulatory State, June 2003: «When Landis wrote in 1938, he could confidently conclude that 'the administrative' has replaced 'the judiciary' as the principal form of social control of business».
[3] Sul punto cfr. Morton J. Horwitz, La trasformazione del diritto americano 1870-1960, 2004, cap. III.
[4] Burwell v. Hobby Lobby Stores, Inc., 573 U.S. 682 (2014).
[5] Citizen United v. FEC, 558 U.S. 310 (2010).
[6] Tim Murphy, The House of Cards. How Joe Biden Helped build A Financial System That’s Great for Delaware Banks and Terrible for the Rest of Us, in Mother Jones, novembre-dicembre 2019.
[7] James Phelan, Robert Pozen, The Company State. Ralph Nader’s Study Group Report on DuPont in Delaware, Grossman, 1973.
[8] Cui la MBNA chiedeva addirittura riscontro tramite l’invio delle fotocopie degli assegni firmati, così Tim Murphy, art. cit.
[9] Loïc Wacquant, Class Race and Hyperincarceration in Revanchist America, Deadalus, vol. 40, n. 3, 2010.
[10] Sul punto mi permetto di rinviare al mio, Il terzo strike. La prigione in America, 2007, seconda parte.
[11] Su tutto questo mi permetto di rinviare per approfondimenti al mio Joe Biden: tutto cambia affinché tutto resti (dis)uguale?, in MicroMega, 1/2021, p.171 ss.