Derek Chauvin, il poliziotto bianco accusato dell’omicidio di George Floyd, sul cui collo -il 25 maggio dell’anno scorso a Minneapolis- ha tenuto premuto il ginocchio per nove minuti e 26 secondi, fino a che il robusto uomo nero -sospettato di aver usato una banconota da 20 dollari falsa- non ha esalato l’ultimo respiro, è stato –com’è noto- infine condannato.
Si è trattato di una condanna al contempo attesa e sorprendente.
Attesa, perché l’indignazione suscitata dalle crude immagini della morte di George Floyd, catturate dal cellulare di una giovanissima ragazza che si trovava per caso nei paraggi, ha dato luogo alla più imponente protesta dai tempi di Rosa Parks contro il razzismo di sistema statunitense. Dopo la morte di Floyd -l’ennesima di un nero per mano (o ginocchio) di un poliziotto bianco- ventisei milioni di persone hanno per mesi messo a ferro e fuoco le strade degli Stati Uniti, ripetendo che le vite dei neri contano. Un verdetto di segno diverso avrebbe certamente provocato una rivolta civile di proporzioni notevoli, più massiccia di quella che nel 1992 aveva fatto seguito all’assoluzione dei poliziotti che avevano picchiato selvaggiamente Rodney King a Los Angeles e che aveva comportato una riapertura a livello federale del procedimento a loro carico. Il desiderio di scongiurare una simile evenienza ha fatto, perciò, sì che l’intero procedimento si svolgesse secondo dinamiche diverse rispetto al solito, rendendo molto probabile un verdetto che, invero, costituisce una rarità nel panorama statunitense. In questo senso la condanna di Derek Chauvin si presenta eccezionale e rischia paradossalmente di immolarlo sull’altare dei capri espiatori.
Proviamo allora ad andare con ordine per capire ciò che accade in un paese in cui la polizia ammazza circa 1000 persone ogni anno (uccide, cioè, tenendo conto della numerosità della popolazione, 100 volte di più dei bobbies inglesi e 40 volte di più rispetto alle forze di polizia tedesche)[1], colpendo oltre due volte di più i neri rispetto ai bianchi. In Minnesota poi, dove George Floyd ha trovato la morte, per un nero è addirittura 7 volte più probabile (https://www.nytimes.com/interactive/2020/06/03/us/minneapolis-police-use-of-force.html?) incontrare la violenza poliziesca di quanto non lo sia per un bianco. E’ importante sottolineare come si tratti di morti che nella maggioranza dei casi passano inosservate, perché non capita così sovente che qualcuno le filmi e ne dia diffusione e, per quanto siano vite spezzate che pesano moltissimo sulle comunità -spesso nere come si è detto- che ne risultano colpite, i loro autori non vengono di norma né perseguiti penalmente, né vengono condannati a risarcire i danni. E’ questo il risultato dell’atteggiamento assunto al riguardo nientepopodimeno che dalla stessa SCOTUS (Supreme Court of United States) che, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, ha conferito alla polizia statunitense quella che in molti hanno definito una vera e propria licenza di uccidere, rendendo in buona sostanza possibile cancellare ogni responsabilità in capo ai poliziotti, tanto sul piano civile che su quello penale, per l’uso da parte loro di una forza obiettivamente eccessiva (eccessive use of force).
Sul piano civile, già nel 1967 la Corte Suprema aveva introdotto un importante correttivo alla normativa federale (nota come Section 1983), che dal 1871 consentiva ai cittadini americani di intentare azione contro i poliziotti che avessero usato mezzi di coercizione eccessivi rispetto alla violenza da respingere o alla resistenza da vincere. Qualora in buona fede avessero creduto di agire nella legalità, infatti, le forze dell’ordine avrebbero potuto chiedere e ottenere la così detta “immunità qualificata”. Fu con il caso Harlow v. Fitzgerald del 1982, però, che il requisito della buona fede – introdotto in verità per evitare le liti frivole- venne maggiormente specificato e che l’immunità garantita alle forze dell’ordine fu estesa al punto da vanificare ogni loro responsabilità per danni. Da allora la richiesta di qualified immunity da parte della polizia viene accolta -e il caso chiuso senza che una giuria venga investita della questione dell’irragionevolezza della forza usata- se la corte accerta che gli agenti non avrebbero potuto essere consapevoli di violare un precedente “chiaramente stabilito” (“a clearly established law”), in quanto non è rinvenibile un caso giudiziario in cui una condotta simile sia già stata dichiarata illegale. E’ la minuziosissima tecnica del distinguishing che, su indicazione delle successive decisioni della Corte Suprema federale, i giudici sono tenuti ad applicare per accertare la similitudine del fatto che hanno di fronte con i casi precedenti, che ha trasformato l’immunità qualificata in uno scudo impenetrabile a protezione della polizia.
Esemplifica quanto si viene dicendo il caso di Johnny Leija, ucciso -a 34 anni- il 24 marzo 2011 a Madill, Oklahoma. Johnny, malato di polmonite, agitato e confuso, si aggirava per il corridoio dell’ospedale in cui era ricoverato. A seguito di una richiesta di aiuto da parte dello staff dell’ospedale per potergli iniettare un calmante, tre poliziotti giunsero sul posto e, dopo avergli sparato più volte con un taser, lo ammanettarono, lo immobilizzarono al suolo e ne provocarono la morte.
La questione penale -per le ragioni che si diranno- fu subito archiviata, così alla madre di Johnny, Erma Aldaba, non rimase altro che chiedere i danni. Nonostante le corti federali di primo e secondo grado avessero negato l’immunità ai poliziotti, la Corte Suprema, adita da questi ultimi, chiese però alla corte di appello di rivedere il suo diniego e di applicare correttamente il «clearly established law» standard. Nel prendere atto che i casi citati dalla parte attrice – riguardanti azioni nei confronti di persone mentalmente in difficoltà e disarmate, in cui la violenza della polizia era stata, ai fini della concessione dell’immunità, precedentemente giudicata illegale - differivano rispetto al caso di Leija, la corte del decimo circuito rovesciò la sua previa decisione e dichiarò che i poliziotti non avevano avuto modo di realizzare che stavano violando il diritto. Malgrado, infatti, a partire dal 2001 i giudici, nel decidere sull’immunità, avessero in più di un caso chiarito che l’uso del taser contro una persona disarmata in stato confusionale rappresenta esercizio di una forza illegale, in ciascuno di essi la situazione fattuale rispetto al caso di Leija si presentava troppo diversa, scrisse il giudice Gregory Phillips. I casi riguardavano persone che non erano ricoverate in ospedale «per ragioni mediche», né ipotesi in cui vi era il personale ospedaliero che «in piedi osservava» l’incidente. Per quanto, dunque, la forza letale usata avrebbe potuto considerarsi eccessiva e i diritti costituzionali di Johnny Lejia ritenersi violati, agli agenti fu accordata l’immunità e nessuno rispose della sua morte. «Penso che qualcosa non vada in questa decisione… contro i cops non ce la faremo proprio mai» commentò la madre a fronte della sua sconfitta giudiziaria.[2]
D’altronde, nel 2018, James Browning, un giudice di distretto federale del New Mexico concesse, sia pure malvolentieri, l’immunità a un poliziotto, il quale aveva colpito un uomo disarmato gettandolo a terra mentre a casa sua imprecava contro la polizia. La forza usata poteva considerarsi eccessiva, dichiarò il giudice, ma non risultavano precedenti in cui nelle stesse circostanze fosse stata dichiarata tale, perché i fatti del caso che aveva di fronte a sé differivano dai precedenti in ragione non solo della distanza fra i poliziotti e coloro che erano stati colpiti in congiunture analoghe, ma anche per via delle imprecazioni proferite, che non erano le stesse! Perfino il luogo in cui era avvenuto l’incidente rilevava ai fini dell’esistenza di un precedente «clearly established», egli notò, poiché un caso analogo, in cui la forza ai fini del giudizio sull’immunità era stata dichiarata eccessiva, era avvenuto in un parcheggio (del grande magazzino Target) e non in una casa di abitazione. Nonostante il giudice Browning avesse criticato l’approccio della SCOTUS alla questione della immunità qualificata per la polizia, giacché «una corte può praticamente sempre fabbricare un distinguo fattuale», si ritenne vincolato alle decisioni della stessa e si pronunciò a favore del poliziotto.
Nel febbraio del 2020 la corte di appello federale di Cincinnati, Ohio, accordò l’immunità a un agente che aveva sparato e ferito alla spalla un ragazzino di 14 anni, dopo che quest’ultimo aveva lasciato cadere l’arma ad aria compressa che impugnava ed aveva alzato le mani. Non era, infatti, un valido precedente capace di dare il necessario avvertimento al poliziotto, quello in cui un suo collega aveva sparato a un uomo che stava abbassando l’arma, giacché nel caso in questione il ragazzo, a differenza dell’uomo nella situazione pregressa, aveva prima estratto la pistola dalla fondina che portava in vita.
Gli esempi possono continuare all’infinito, ma la sostanza non cambia: una qualunque –inevitabile- diversità nelle circostanze di fatto in cui si svolge il caso che il giudice si trova a giudicare rispetto ai precedenti, lo obbliga – da Harlow v. Fitzgerald in poi- a dichiarare non integrata quella condizione della clearly established law, che -se riscontata- gli permetterebbe invece di lasciare a una giuria la possibilità di condannare la polizia a risarcire i danni conseguenza dell’azione violenta e irragionevole posta in essere.
Poco dopo Harlow v. Fitzgerald, un’altra decisione della Corte Suprema statunitense -Graham v. Connor del 1989- intervenne in materia di uso eccessivo della forza, questa volta per chiarire secondo quali parametri una giuria deve valutare l’irragionevolezza della coercizione utilizzata. Il criterio per misurare la ragionevolezza del comportamento della polizia, affermò all’unanimità la Corte, non può non prendere in considerazione la particolare tensione in cui gli agenti si trovano ad operare. «Il calcolo della ragionevolezza deve includere il dato che la polizia è spesso costretta a decidere quanta forza è necessaria nella mera frazione di un secondo (split-second judgment), in circostanze che sono tese, incerte e in rapida evoluzione», scrisse Chief Justice William H. Rehnquist a nome di tutti. E ancora: «Non qualsiasi spintone o colpo» è improprio «anche se più tardi, nella quiete della camera del giudice, essi possono sembrare tali». La ragionevolezza va dunque misurata sul parametro del poliziotto medio -non dell’uomo medio- e irragionevole è solo quella forza che un altro poliziotto (ragionevole) considererebbe tale. Benché Graham v. Connor fosse una pronuncia relativa a un caso civile[3], lo standard stabilito dalla SCOTUS divenne da allora il metro su cui parametrare la scriminante dell’uso legittimo di qualunque forza- anche letale- da parte della polizia, in tutti i casi penali -sia statali che federali. A quel criterio si sono uniformati, infatti, tanto i parlamenti (quando si sono espressi), quanto le giurisprudenze statali.
E’ per via del criterio della ragionevolezza della forza, così come enunciato in Graham v. Connor, che già a monte i prosecutors non esercitano l’azione penale, le grand juries non rinviano a giudizio o ancora le giurie, nelle rare eventualità in cui i casi giungono fino a loro, non condannano. Se altri poliziotti testimoniano, infatti, che trovandosi nelle stesse condizioni dei colleghi si sarebbero comportati nello stesso modo, la forza utilizzata non potrà essere considerata eccessiva e l’agente sarà scriminato. Difficile che il blue wall -la nota cortina di omertà e solidarietà fra agenti di polizia- non eserciti la sua influenza: con ciò il cerchio si chiude e i poliziotti restano di regola impuniti. Dati, poi, gli stereotipi che da sempre nella società americana costruiscono i neri come soggetti pericolosi -e più sono grandi e grossi più nell’immaginario collettivo sono tali- il colore scuro della pelle del fermato inevitabilmente finisce per giustificare una reazione più violenta da parte della polizia. La proverbiale straordinaria forza degli uomini neri, cui si aggiunge la possibilità di un «delirio eccitato»[4], rappresentano, così, valide ragioni agli occhi del poliziotto medio per esercitare una forza letale contro chi sia nero, disarmato e magari costretto per minuti al suolo sotto il peso di un ginocchio. Diventa allora ragionevole uccidere il fermato e l’omicida è scriminato per un uso legittimo della forza.
Si spiega allora perché la stragrande maggioranza delle morti per mano della polizia non trovi risposta penale. Nei casi più eclatanti -catturati magari dai video dei cellulari- cui viene data ampia diffusione mediatica, la città transa la lite civile, risarcendo somme ingenti alla famiglia a scopo pacificatorio dell’intera comunità colpita. Raramente, però, una giuria penale è investita del caso e ancora più raramente essa giunge a condannare. Gli episodi di Michael Brown, il ragazzo nero ucciso a Ferguson, Missouri il 9 agosto del 2014 dopo una discussione con la polizia alla quale urlava «ho le mani in alto, non sparare»; o di Eric Garner, il robusto signore nero nello stesso anno atterrato e ucciso dalla polizia di New York mentre disarmato vendeva delle sigarette di contrabbando; o di Tamir Rice, il bambino nero di 12 anni ucciso da una pattuglia nel 2015 mentre giocava in un parco di Cleveland con una pistola giocattolo; o di Philando Castile, il trentaduenne nero ucciso nel 2016 in Minnesota al volante della sua macchina dopo aver dichiarato di possedere legalmente un’arma da fuoco; o ancora di Saheed Vassell, un nero trentaquattrenne ammazzato nel 2018 a Brooklyn perché mentalmente disturbato si aggirava con un tubo di metallo scambiato per una pistola, sono solo alcuni fra i moltissimi esempi di forza letale della polizia rimasta impunita. Assurti all’onore delle cronache, i primi quattro casi furono portati di fronte al grand jury, che nei primi tre non rinviò a giudizio; l’ultimo caso superò il vaglio del grand jury, ma la giuria infine non condannò. In tutte quelle ipotesi le famiglie ottennero in via transattiva risarcimenti milionari. Per la morte di Vassell invece, la cui vicenda ricevette meno notorietà mediatica a livello nazionale e internazionale, le cose andarono diversamente: secondo il tipico copione della maggioranza degli episodi di violenza poliziesca meno pubblicizzati, il prosecutor archiviò subito il caso e la famiglia ancora adesso non ha ricevuto alcun indennizzo o risarcimento.
Il principio enunciato in Graham v. Connor -secondo cui è ragionevole la quantità di forza necessaria a respingere una violenza, così come valutata da un poliziotto che prende la sua decisione nel giro di una frazione di secondo- sta d’altronde alla base delle linee guida su cui gli agenti americani vengono regolarmente addestrati. Ciò crea negli stessi l’impressione che una reazione estrema sia sempre possibile, anzi doverosa, giacchè –è questo che viene loro insegnato- in qualunque circostanza è sempre in gioco la sopravvivenza propria o altrui. «Una generazione di agenti di polizia si è formata sul significato pratico di quel principio e ha passato decenni ad applicarlo in ogni caso in cui ha dovuto decidere la quantità di forza da usare. Quella decisione è quindi entrata a far parte del DNA delle forze dell’ordine e spesso non ci si rende neppure conto di quanto essa determini nei fatti i loro comportamenti», ha spiegato una rivista di polizia dopo la morte di Michael Brown a Ferguson[5]. D’altra parte se è vero che la polizia americana ammazza 40 volte di più di quella tedesca, è altrettanto vero che rispetto ai colleghi tedeschi gli agenti statunitensi sono anche ammazzati 40 volte di più, in un paese in cui il numero delle armi possedute supera di parecchio i suoi abitanti, bambini e anziani compresi[6].
E’ questo il quadro in cui occorre valutare la condanna di Derek Chauvin per la morte di George Floyd. Una morte certamente evitabile agli occhi di chi non vive nel clima ossessionato e violento in cui è addestrata la polizia statunitense, ma che in circostanze altre sarebbe stata relegata al piano delle tante per le quali, ben che vada, si arriva a un verdetto di assoluzione da parte della giuria. Le condizioni straordinarie in cui il processo di Chauvin si è svolto, dovute a una mobilitazione senza pari del movimento Black Lives Matter, non hanno infatti soltanto subito convinto il prosecutor, l’Attorney General del Minnesota Keith Ellison, a esercitare -con il benestare del grand jury- l’azione penale. Esse hanno anche determinato –a dibattimento- il crollo di quel muro di protezione della categoria di appartenenza, il blue wall, che di norma conduce all’assoluzione dei rari imputati: i colleghi di Chauvin hanno infatti, in via del tutto eccezionale, testimoniato contro di lui.
E’ dunque la giustizia o l’ingiustizia ad avere infine prevalso? Se la morte di George Floyd è aberrante, lo è altrettanto un sistema i cui frutti sono i tanti Derek Chauvin che produce, convinti in fondo di svolgere al meglio il proprio pericoloso compito di tutela della sicurezza collettiva quando ammazzano brutalmente i loro presunti avversari. E’ la cultura di guerra nella quale sono immersi, che trova sostegno in un sistema giuridico che copre ogni loro brutalità, a muovere i tanti Chauvin statunitensi e a convincerli di essere nel giusto. Un’isolata condanna in controtendenza oggi servirà, allora, solo a immolare sull’altare di una finta inversione di rotta chi non era stato avvisato che l’inutile sacrificio sarebbe toccato proprio a lui.
Solo seri cambiamenti legislativi e giurisprudenziali, innanzitutto, ma anche -e conseguentemente- nel tipo di formazione delle forze dell’ordine, potrebbero davvero evitare le assurde e quotidiane morti per mano della polizia statunitense. Nel frattempo, se non si vogliono ridurre i fondi ad essi destinati -come il movimento Black Lives Matter chiede- occorrerebbe se non altro smettere di dispiegare massicciamente gli agenti di polizia nelle zone in cui vive la parte nera ed economicamente più debole della popolazione, per reprimere i reati di droga (spesso di lieve entità) o i comportamenti indisciplinati a scuola. Se ciò non avverrà la condanna di Derek Chauvin -con la sua detenzione in solitary confinement perché non si suicidi- non rappresenterà che una triste farsa di giustizia.
[1] Cfr. Franklin E. Zimring, Can Foreign Experience Inform U.S. Policy on Killings of and by Police?, 10 Harvard Law & Policy Review 43, 2016.
[2] Cfr. anche in relazione ai casi successivi, il Rapporto della Reuters, Special Report: For Cops Who Kill, Special Supreme Court Protection, 29 maggio 2020 al sito: https://www.reuters.com/investigates/special-report/usa-police-immunity-scotus/
[3] Di richiesta di danni –non ottenuti- da parte di un uomo affetto da diabete, scambiato per un ladruncolo, e perciò ammanettato e colpito più volte per farlo entrare nel veicolo della polizia fino a procurargli lesioni alla testa e la rottura di un piede.
[4] Termine medico controverso, ma fatto proprio dai manuali delle forze dell’ordine statunitensi, che fornirebbe una capacità reattiva fuori dal comune a chi abbia assunto sostanze psicotrope.
[5] Mark Clark, Understanding Graham v. Connor, 27 ottobre 27, 2014, disponibile al sito: https://www.policemag.com/341717/understanding-graham-v-connor