1. L’agenzia del risentimento
L’agenzia del risentimento; del vittimismo; del dissidio civile.
È facendo lavorare a pieno regime questa singolare “agenzia” che il populismo di destra ha scelto di rilanciare – adattandola al tempo della pandemia – una rappresentazione tutta ideologica dei problemi reali connessi all’immigrazione e alla protezione internazionale e umanitaria.
“Imprese chiuse. Porti aperti”, si leggeva sui cartelli inalberati dagli esponenti dello schieramento di centrodestra dinanzi a Palazzo Chigi la sera del 3 dicembre di quest’anno.
E l’ex Ministro dell’interno, il senatore Matteo Salvini, dichiarava: «Nei giorni in cui ci sono mille morti di Covid la maggioranza parla di cancellare i decreti Salvini e riaprire i porti ai clandestini».
Il riferimento era al decreto legge n. 130 del 2020, in discussione alla Camera dei deputati, che reca, tra l’altro, disposizioni urgenti in materia di immigrazione e protezione internazionale e complementare. Decreto la cui necessità e urgenza è stata motivata con l’esigenza, ritenuta non più rinviabile, di intervenire su alcuni aspetti dei precedenti decreti sicurezza (dl 4 ottobre 2018, n. 113 e dl 14 giugno 2019, n. 539) al fine di tener conto dei principi costituzionali e internazionali vigenti e delle rilevanti difficoltà applicative della normativa in precedenza approvata.
Il testo del decreto legge – in fase di conversione – presenta significative luci e persistenti ombre, efficacemente illustrate nello scritto di Carlo De Chiara pubblicato su Questione giustizia[1].
Da un lato, scrive De Chiara, la previsione dell’istituto della «protezione speciale (convertibile) per tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare è (…) una scelta opportuna del legislatore d’urgenza nella prospettiva dell’adeguamento agli obblighi costituzionali e internazionali del nostro paese».
Dall’altro lato «la mancata cancellazione della previsione di revoca della cittadinanza (…) per coloro che, avendola acquisita per maggiore età, matrimonio o residenza prolungata, si siano in seguito macchiati di gravi reati» appare di dubbia costituzionalità laddove discrimina cittadini per nascita e cittadini per acquisizione ed è inoltre «poco lungimirante, proprio nell’ottica della sicurezza pubblica, perché le discriminazioni ingiustificate creano rifiuto, emarginazione, allentano il senso di appartenenza a una comunità e favoriscono, perciò, comportamenti antagonistici».
Infine, il decreto lascia irrisolto un problema enorme e spinoso, avallando, sia pure “implicitamente” e senza mai menzionarle, il ruolo delle autorità libiche operanti per la ricerca e il soccorso in mare, mantenendo il potere del Ministro dell’interno di limitare o vietare il transito o la sosta di navi di soccorso nel mare territoriale tutte le volte in cui queste ultime non si siano attenute alle indicazioni anche di quelle autorità (la cui legittimità è radicalmente contestata per il trattamento riservato ai migranti).
2. I decreti “insicurezza”
Su questi e altri problemi “difficili” posti dal fenomeno migratorio è certamente legittimo che le forze politiche si confrontino – analizzando alla luce dell’esperienza la validità delle soluzioni adottate in un recente passato – e all’occorrenza si dividano liberamente.
Ma le sortite in atto hanno un’altra natura e un altro scopo.
Rimodellando sulla crisi generata dall’epidemia l’armamentario culturale e ideologico del populismo di destra, quelle sortite suggeriscono artificiose rappresentazioni tanto dell’emergenza sanitaria quanto dell’immigrazione ed evocano assurde contrapposizioni.
Tra la “chiusura” delle attività imprenditoriali e l’“apertura” dei porti.
Tra cittadini che sarebbero arbitrariamente limitati nelle loro libertà di movimento, di iniziativa economica, di cura degli affetti familiari durante le festività e migranti liberi di muoversi nei mari e di approdare nel Paese.
Tra una maggioranza paralizzata dall’emergenza sanitaria e “vittima” inerme di una invasione e una minoranza di intruders, libera di scorrazzare e di attentare all’ identità e alle prerogative dei cittadini.
È facendo leva su questi quadri mentali che ci si propone di cancellare, o almeno di relegare sullo sfondo, la tragedia dell’immigrazione, e che si intende sottrarre a ogni forma di razionalità politica e giuridica il grumo di problemi reali connessi ai fenomeni migratori, occultando il bilancio fallimentare delle politiche sperimentate nel recente passato.
Nel marzo del 2019, nel congresso di Magistratura democratica, veniva ricordato che ai giudici sarebbe toccato di «gestire le nuove procedure in materia di diritto di asilo e l’emergenza sociale di una gran massa di immigrati che è illusorio rinviare nei Paesi di provenienza – come ha sperimentato il Ministro dell’Interno che pure questo aveva promesso agli elettori – ma che è pericoloso lasciare senza programmi di insegnamento della lingua, senza alcuna politica di integrazione, senza altra prospettiva che non sia la disperazione sociale»[2].
Si diceva allora, e va ribadito oggi, che le “persone” non si cancellano semplicemente privandole, con un tratto di penna del legislatore, di ogni possibilità di riconoscimento; che in una società complessa la sicurezza degli uni – la maggioranza – non può essere garantita dalla restrizione degli altri – la minoranza – in un ghetto senza vie d’uscita; che in un mondo interconnesso il rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali non è un inutile orpello ma la base su cui ottenere ascolto e considerazione in ambito europeo e internazionale.
In una parola, era già chiaro che i cd. decreti sicurezza avrebbero generato solo maggiore insicurezza e disordine e si constatava che agli improbabili proclami elettorali (l’impegno al rimpatrio dei migranti irregolari in quindici giorni!) avevano fatto seguito norme discutibili e di problematica applicazione.
3. L’impegno della giurisdizione
Ora andranno valutate con attenzione le innovazioni introdotte e le correzioni apportate dalla legge di conversione del dl n. 130/2020 ai decreti varati dall’alleanza di governo Lega - Movimento Cinque Stelle.
Così come rimarrà centrale l’analisi delle politiche migratorie adottate in Europa e in particolare nel nostro Paese, nel quale l’immigrazione – trattata come una perenne emergenza e non come un fenomeno strutturale – non è mai stata oggetto di una politica attiva degli ingressi e di uno stabile “statuto” dei diritti e dei doveri degli immigrati.
Situazione, questa, che ha generato una cascata di effetti sociali dannosi «rinvenibili nell’elevato numero di ingressi irregolari, nel continuo ricrearsi di segmenti d’immigrazione irregolare occupata nel lavoro sommerso e a forte rischio di sfruttamento, nell’incorporazione/integrazione subalterna che ha fortemente limitato le opportunità di avanzamento sociale dei cittadini stranieri, nonché nella distanza che separa italiani e stranieri anche a causa del diffondersi di atteggiamenti ostili e discriminatori nei confronti di questi ultimi»[3].
Operando in questo ambiente – sempre più inquinato da campagne politiche miranti a suscitare emozioni e reazioni negative verso gli immigrati – i giudici, e non solo quelli di orientamento progressista, sono impegnati in un compito cruciale: garantire, nel quadro normativo e istituzionale dato, il maggior tasso possibile di effettività del diritto alla protezione internazionale, utilizzando con sapienza lo strumento del procedimento per tale riconoscimento.
Di un siffatto “impegno della giurisdizione” questo e-book offre una testimonianza ricca e preziosa.
Per adempiere a questo compito di ragione e di testimonianza sono stati messi a fuoco, nella riflessione a più voci, i principali snodi e le peculiarità del procedimento: il ruolo attivo dell’amministrazione (prima) e del giudice (poi) nell’istruzione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria, che si concreta nel potere-dovere di cooperazione ufficiosa istruttoria; il regime della prova dei presupposti che giustificano l’adozione di una delle misure previste dal sistema italiano del diritto d’asilo; l’acquisizione delle Country of origin information; la comparizione delle parti e l’audizione del ricorrente nel giudizio di merito; la valutazione di credibilità come strumento di valutazione della prova dichiarativa.
Tutti temi tecnici, nella cui trattazione sono però sempre incisivamente rappresentati i valori in gioco e cioè, per un verso, l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo e, per l’altro, l’opzione per regole di conoscenza, probatorie e di giudizio che tengano adeguatamente conto delle condizioni materiali, culturali e psicologiche del richiedente asilo e siano finalizzate a riequilibrare la sua condizione di debolezza.
Mentre la scena pubblica è, su questi temi, occupata da clamori politici e iniziative penali controverse, i giudici civili che si occupano degli stranieri e dei loro diritti continuano a tessere silenziosamente una resistente tela di civiltà, di umanità, di diritto e provvedono a rammendarla tutte le volte – e non sono poche – in cui essa viene lacerata.
Ed è da questo impegno quotidiano della giurisdizione che possono scaturire alcuni degli apporti più significativi e utili ad affrontare la questione dell’immigrazione e della protezione dei diritti dei migranti.
[1] C. De Chiara, Il diritto di asilo e il d.l. 130/2020: progressi e occasioni mancate, in Questione giustizia online, 9 dicembre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/il-diritto-di-asilo-e-il-d-l-130-2020-progressi-e-occasioni-mancate.
[2] N. Rossi, I giudici nella stagione del populismo, in Questione giustizia online, 1° marzo 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/i-giudici-nella-stagione-del-populismo_01-03-2019.php.
[3] M. Giovannetti, Editoriale del n. 3/2020 della Rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza.
Per la rubrica Controvento, anticipiamo l'editoriale di Nello Rossi all'e-book Il diritto alla protezione internazionale e l'impegno della giurisdizione, a cura di Maria Acierno, di imminente pubblicazione.