A questo punto, è davvero difficile avventurarsi nella recensione di un film come Io Capitano, per la regia di Matteo Garrone, di cui sembra proprio che sia già stato detto tutto, e che ormai da tanti è già stato visto nelle sale cinematografiche. Reduce dalla vittoria dei premi per la migliore regia e per il migliore attore esordiente alla Mostra del Cinema di Venezia, ora anche candidato all’Oscar in rappresentanza della cinematografia italiana, Io Capitano è stato variamente recensito, per lo più in termini elogiativi, anzi entusiastici, ovviamente non solo fondati sul valore filmico dell’opera, ma per il coraggio e l’intensità con cui si rappresenta il fenomeno epocale della migrazione dall’Africa verso l’Europa[1]; anche se non sono mancate le opinioni che invece attribuiscono alla pellicola di Garrone la colpa di numerose cadute nello stereotipo nel rappresentare un mondo diverso, quale quello da cui si parte per migrare, sostanzialmente per non essere stato in grado di sostituire davvero la propria visione di occidentale con quella di chi da quella realtà proviene[2].
Meglio allora evitare di restare impigliati nelle logiche di schieramento, e cercare di affrontare l’interrogativo che, per chi il cinema lo ama, ma non lo studia a fondo, e tantomeno lo fa, è l’unico a cui può azzardare una risposta: perché questo film è capace di segnare così nel profondo? Come si può riuscire a regalare allo spettatore uno sguardo diverso su quelle stesse realtà che credeva di avere ormai analizzato e catalogato razionalmente?
Per tentare di realizzare l’obbiettivo, forse conviene partire proprio dalle parole del regista, che definisce l’immigrazione come «l’Odissea del presente» i cui protagonisti, i migranti, «sono i portatori dell’epica contemporanea»: perché questo innanzitutto dobbiamo a Matteo Garrone, di averci offerto una visione potente e sovvertitrice del fenomeno che ormai rappresenta un argomento decisivo nella stessa costruzione delle sorti politiche delle democrazie occidentali, restituendogli la dimensione vitale e dinamica che da sempre muove l’umanità a cercare condizioni di vita migliori. Rifuggendo non solo dalla chiusura terrorizzata della paura dell’invasione, ma anche dal pietismo retorico che schiaccia i migranti tutti nella camicia di Nesso del bisogno disperato, della minaccia concreta di una assenza di futuro che sola può giustificare l’assunzione di rischi e pericoli tanto estremi, tali da produrre i numeri drammatici dei tanti morti lasciati sul cammino per la salvezza.
Seydou e Moussa, i due cugini che da Dakar decidono di intraprendere un viaggio verso la costa nord-africana e poi di lì imbarcarsi per il continente europeo, vogliono partire non per sottrarsi a guerre, carestie, disastri climatici: il fatto è che la globalizzazione è arrivata anche in Senegal, e a loro inocula l’ambizione di diventare famosi in occidente, producendo canzoni rap. Un sogno comune a tanti giovanissimi occidentali, e più in generale, una spinta che ha a che fare con lo spirito universale della giovinezza, quella stessa che naturalmente muove tanti dei nostri figli alla condizione di expat, molto spesso anche in questo caso malgrado le angosce (ben diversamente motivate) e la contrarietà delle madri che li vedono partire.
Ed è essenzialmente per spirito di avventura e di sfida ad un destino già scritto che i due ragazzi partono alla volta della loro meta, percorrendo un’odissea della cui ferocia e disumanità il film di Garrone si fa testimone e cantore, sicuramente addolcendone i passaggi più crudi e devastanti, di cui peraltro tante cronache hanno già dato l’impietoso resoconto, ma senza trasfigurare la vicenda, come pure è stato detto, in una fiaba. Il canto epico di Io Capitano conosce sì, come si addice al genere, alcuni inserti onirici, di grande qualità estetica e molto commoventi, ma resta aderente al reale, alla vita, alle vite dei suoi protagonisti. Basti considerare che proprio l’impresa di Seydou, imbarcato e messo a forza alla guida del battello destinato a compiere l’ultima tappa del viaggio, obbligato a condurre al traguardo le speranze comuni delle tante diverse storie di vita, riproduce una vicenda vera, quella di Fofana, che a 15 anni fu messo al timone di una barca con 250 migranti, senza averne mai condotta nessuna, e che una volta arrivato a terra fu identificato come il trafficante di uomini (uno di quelli a cui si pretende dare la caccia per «l’intero globo terracqueo»…) e detenuto in carcere per molti mesi.
La scelta narrativa di interrompere il film proprio al momento dell’avvistamento della terra di destinazione, e della salvezza rappresentata dall’intervento della Guardia costiera, con l’urlo orgoglioso e felice di Seydou, Capitano nonostante la fatica la paura l’incognita del futuro, non è neutra, almeno così non sembra. Per chi conosce il reticolo di regole legislative attraverso il quale dovrà riuscire a penetrare la vicenda personale dei due ragazzi, per riuscire ad ottenere l’accoglienza che cercano, è inevitabile pensare che la grandezza epica del loro gesto non troverà alcun riconoscimento nelle aule giudiziarie dove si dovrà decidere della loro sorte: che al più potranno contare sulla loro giovane età, ma la cui condizione di “migranti per scelta”, agli occhi del Legislatore, non fa che penalizzare e mortificare le loro ambizioni. Vietato sperare, per chi nasce incolpevolmente in una certa parte del mondo: vietato coltivare un futuro, nonostante la giovinezza, le energie da spendere e la forza di inseguire le proprie speranze.
Ma che sia fuori dal racconto il triste realismo delle procedure di richiesta di asilo fa parte della stessa politicità del film: che in definitiva ci insegna che un’epopea non si arresta, tantomeno nelle aule di giustizia, con i divieti scritti nelle leggi, e nemmeno con le operazioni di blocco navale, ammesso che mai sia realistico ipotizzarle. Che questo sforzo illusorio sarà solo (e non è una differenza da poco, sia chiaro) capace di creare tante più vittime, di sacrificare tante più vite, tanti altri Seydou e Moussa meno fortunati, ma come loro tante donne e tanti uomini, ognuno con la sua storia e le sue ragioni, individualmente considerate ma capaci di concorrere alla scrittura dello stesso poema epico che si sta compiendo sotto il nostro sguardo – tristemente vacuo – di occidentali privilegiati.
L’ultimo fotogramma della carta geografica del continente africano su cui è tracciato il percorso dal Senegal alla Libia, attraverso Mali e Niger, compiuto dai due protagonisti prima di arrivare al traguardo, lascia allo spettatore la visione finale e complessiva della grandiosità dell’impresa che, come i tanti altri che li hanno preceduti ed i tanti che verranno, hanno saputo realizzare nonostante i pericoli, le violenze, la loro stessa inesperienza ed impreparazione: come quelle cartine sui sussidiari che scatenavano la nostra immaginazione di bambini delineando il percorso delle grandi esplorazioni che hanno fatto la storia dell’umanità, raggiungendo obbiettivi prima solo sperati, immaginati, agognati. La vicenda si chiude lasciando la traccia, incancellabile per lo spettatore, della sua stessa dimensione epica ed universale. Merito a Garrone, ed al suo film indimenticabile, di averla saputa rappresentare negli occhi di due ragazzi.
[1] Io capitano è un film quasi impossibile, di Annalisa Camilli, L’Essenziale, 6 settembre 2023, https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/annalisa-camilli/2023/09/06/io-capitano-film-garrone
[2] Venezia, Garrone inciampa nei luoghi comuni sull’Africa, di Simona Cella, Nigrizia, 8 settembre 2023, https://www.nigrizia.it/notizia/venezia-garrone-inciampa-nei-luoghi-comuni-sullafrica