Siamo magistrati. Nessuno meglio di noi sa che, per commentare e valutare una sentenza, occorre attenderne le motivazioni: aurea regola tomistica che non mettiamo in discussione.
L’approfondito comunicato stampa della Corte costituzionale relativo alla decisione sull’ergastolo ostativo, tuttavia, merita un commento a caldo, anche per sottrarre la materia alle speculazioni di un dibattito mediatico drogato da slogan semplicistici e da allarmismi infondati, già in circolo in queste ore.
Balza agli occhi che siamo di fronte a una conquista di civiltà in grado di restituire dignità al compito valutativo proprio della magistratura di sorveglianza e di responsabilizzare il sistema penitenziario nella costruzione di percorsi trattamentali veri e differenziati per tutti i condannati, esattamente come impone l’articolo 27 della Costituzione.
D’ora in avanti, ai fini della concessione dei permessi premio ai condannati per delitti di cui all’art. 4 bis, comma 1 dell’Ordinamento penitenziario, la collaborazione non costituirà più l’unica prova legale dell’assenza di pericolosità, potendo il magistrato di sorveglianza indagare sulle ragioni dell’assenza di collaborazione senza doverne inferire – per legge e in via automatica – la persistente pericolosità sociale e l’assenza di progressi trattamentali.
Ai soli fini del permesso premio – dal tenore del comunicato si evince che non vi è stata pronuncia di illegittimità consequenziale in riferimento alle misure alternative – torna nelle mani dell’autorità giudiziaria (e dei saperi che dinanzi a questa confluiscono) il bilanciamento tra rieducazione e pericolosità, da compiere sulla base dei rigorosi parametri previsti dall’Ordinamento penitenziario e puntualmente indicati nel comunicato stampa. Occorrerà quindi riscontrare da un lato la prova piena di partecipazione al percorso rieducativo dall’altro escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Nessun automatismo quindi nella concessione dei benefici ma una valutazione concreta caso per caso, che, come si legge nel comunicato della Corte, deve basarsi sulle relazioni degli istituti di pena e sulle informazioni e pareri della Procura antimafia o antiterrorismo e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.
Nessun regalo ai boss e nessun lassismo nel contrasto del fenomeno mafioso: quello che la Corte afferma, viceversa, è che anche il più grave dei fenomeni criminali non può essere combattuto con gli strumenti di un diritto che anche la Corte di Strasburgo ha definito inumano e degradante (Viola c. Italia, 13 giugno 2019).
Nell’offrire al pubblico la lettura del comunicato, rubiamo una battuta al film Martin Eden: «Chi lavora per costruire la libertà lavora meglio di chi lavora per costruire le prigioni». Ci rendiamo conto che si tratta, di questi tempi, di un’affermazione «controvento»; sappiamo, però, che costruire la libertà non significa fare elargizioni, ma impegnarsi in percorsi lunghi e faticosi. Lo sanno, in primo luogo, i condannati per i reati di cui all’art. 4 bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario (a dire il vero non solo mafiosi), che quella libertà dovranno meritarsela tutta, e fino in fondo. Un cammino difficile, doveroso e necessario come quello percorso da Salvatore di cui ci narra Elvio Fassone nel suo “fine pena: ora”.