1. Lo scorso 9 agosto è stata apposta, da parte della Ragioneria generale dello Stato, la bollinatura allo schema di decreto legislativo, approvato il 4 agosto precedente dal Consiglio dei Ministri, di riforma della giustizia penale, in attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, accompagnato dalla coeva Relazione illustrativa[1].
Tra le tante novità di sistema che tale schema di decreto legislativo determina, merita specifica attenzione l’adempimento della delega in materia di archiviazione e di definizione anticipata assolutoria del procedimento in fase preliminare.
In particolare, in riferimento all’art. 1, comma 9, lett. a), della legge delega, che indicava la necessità di «modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna», l’art. 22, comma 1, lett. e) dello schema di decreto riscrive l’art. 408 c.p.p., in forza del quale, nelle intenzioni del legislatore delegato, «quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca, il pubblico ministero presenta al giudice richiesta di archiviazione».
Contestualmente, l’art. 98, comma 1, lett. b), dello schema di decreto dispone l’abrogazione dell’art. 125 disp. att. c.p.p., eliminando così qualsiasi riferimento alla non sostenibilità dell’accusa in giudizio, quale requisito processuale della richiesta di archiviazione.
Coerentemente con tale nuova dimensione – per così dire – sostanziale dello sviluppo dibattimentale del processo, legittimo solo al cospetto di elementi raccolti che aprono alla prognosi di condanna, in adempimento dell’art. 1, comma 9, lett. m), della legge delega, l’art. 23, comma 1, lett. l) dello schema di decreto detta un nuovo comma 2 dell’art. 425 c.p.p., che prescrive al giudice dell’udienza preliminare di pronunziare la sentenza di non luogo a procedere «anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna», espungendo, al contempo, ogni richiamo normativo pregresso alla loro insufficienza, contraddittorietà o comunque inidoneità a sostenere l’accusa in giudizio.
Da ultimo, l’esigenza di armonizzazione, rispetto a tale nuova disciplina, del giudizio a citazione diretta davanti al Tribunale in composizione monocratica, ha determinato il legislatore delegato, in adempimento dell’art. 1, comma 12, lett. a) e d), della legge delega, ad introdurre nel codice di procedura penale, con l’art. 32, comma 1, lett. c) e d) dello schema di decreto, i nuovi artt. 544 bis e 544 ter, che disciplinano la nuova udienza predibattimentale in camera di consiglio davanti al Tribunale, per l’accertamento della costituzione delle parti, la trattazione delle questioni preliminari, la definizione del procedimento con l’accesso ad un rito alternativo, oltre che la possibile conclusione del procedimento con la pronunzia della sentenza di non luogo a procedere, ancora una volta, «quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna».
Come già ampiamente riconosciuto dai commenti che sono stati spesi sul punto a proposito del contenuto della legge delega[2], l’opzione riformatrice in esame vuole rispondere al problema dell’eccesso cronico del carico dibattimentale che affligge la giurisdizione penale: che vede una percentuale significativa di processi, che sono invece da evitare, concludersi con una sentenza di assoluzione.
Sulla scorta delle indicazioni tecniche circa quale debba essere la modalità per superare tale impasse[3], il legislatore, delegante e delegato, hanno inteso gravare il pubblico ministero e il giudice di un nuovo criterio sostanziale di controllo sull’esercizio dell’azione penale, meritevole di essere avallata e far transitare il procedimento alla fase del giudizio vero e proprio, solo in relazione a compendi investigativi concretamente idonei a determinare una decisione di condanna; e non più, molto più semplicemente, ad introdurre un processo comunque utile.
L’interrogativo da porsi, al cospetto di questa scelta riformatrice certamente apprezzabile (per certi versi rivoluzionaria), che il legislatore ha avuto la forza di assumere, è se essa sarà in grado, in concreto, di produrre quell’effetto defatigante del carico dibattimentale, che le precedenti – pur non sistemiche – innovazioni normative in materia avevano comunque provato a perseguire, ma senza risultato[4].
La risposta che il futuro potrà offrire a tale quesito, a bene vedere, non dipende più dalla politica, che le proprie determinazioni ha comunque assunto, ma dalla capacità dei protagonisti tecnici della giurisdizione, pubblici e privati, di metabolizzare l’importante mutamento di paradigma processuale del quale la riforma in esame si è fatta portatrice: che ha di fatto anticipato il baricentro dell’accertamento giudiziario della responsabilità dell’imputato, dalla fase del dibattimento vero e proprio, a quella, precedente, del controllo sulle risultanze delle indagini.
2. Destinato a cambiare, anzitutto, è il compito del pubblico ministero.
Egli, infatti, sin dall’originaria scelta codicistica del 1988, è gravato dall’obbligo normativo, sancito dall’art. 358 c.p.p., dello svolgimento anche di «accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini».
Tuttavia, tale dovere, espressamente relegato dalla giurisprudenza di legittimità a mera asserzione normativa priva di qualsiasi forza precettiva sul piano processuale[5], è sempre stato riconosciuto come funzionale non a realizzare un rapporto di eguaglianza tra accusa e difesa, né a dare attuazione ai diritti di quest’ultima, bensì come strettamente correlato al «principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che non comporta, infatti, l’obbligo di esercitare l’azione ogni qualvolta il pubblico ministero sia stato raggiunto da una notizia di reato, ma va razionalmente contemperato con il fine di evitare l’instaurazione di un processo superfluo»[6].
Alla luce della nuova disciplina in esame, tuttavia, il dovere originario del pubblico ministero d’investigare in favor rei, pur rimasto privo di qualsiasi sanzione processuale, dovrebbe comunque assumere, sin dal momento della determinazione del perimetro delle investigazioni da compiersi, una portata maggiormente penetrante di quella sinora effettivamente praticata.
In tal senso militano importanti ragioni, di carattere sia teorico che più squisitamente operativo.
Infatti, sul piano teorico, la dimensione giurisdizionale del pubblico ministero – che, a ben vedere, costituisce (condivisibilmente) uno degli argomenti di maggior peso ponderale dell’opinione contraria alla separazione delle carriere – è destinata a trovare piena attuazione, nella misura in cui la pubblica accusa sia disponibile ad agire, prima (e oltre) che come parte processuale, quale soggetto di vera garanzia dell’osservanza della legge ed «espressione degli interessi obiettivi dell'ordinamento giuridico»[7].
Solo una disponibile adesione del pubblico ministero al dovere normativo in esame, dunque, giustifica il suo ruolo di autentico dominus dell’attività d’indagine.
Il pubblico ministero che applica con consapevolezza istituzionale l’art. 358 c.p.p., governa, dirige e seleziona l’attività rilevante della polizia giudiziaria, nel supremo interesse della giurisdizione di portare a processo solo i soggetti meritevoli di giudizio.
Il pubblico ministero che, invece, non ricerca seriamente gli elementi di prova a favore delle persone sottoposte ad indagini, opera quale mero soggetto passivo di sintesi giuridica delle acquisizioni – potenzialmente solo contra reum – della polizia giudiziaria[8].
In termini operativi, poi, la pubblica accusa non potrà più fare affidamento sull’utilità del dibattimento quale momento di potenziale completamento di acquisizioni istruttorie parziali, ma sarà comunque chiamata all’onere dimostrativo della probabilità della condanna, che sarà tanto più significativa, quanto più essa sarà suffragata da una seria – e infruttuosa – ricerca di elementi di prova a favore della persona sottoposta ad indagini.
3. Una nuova e più consistente responsabilità giurisdizionale, poi, è destinata a gravare sulla figura del giudice, il quale, nella sede dell’udienza preliminare e di cd. “filtro”, dovrà ergersi a vero e proprio decisore prognostico della responsabilità dell’imputato, non potendo più differire tale valutazione al successivo dibattimento, in nome dell’utilità accertativa di esso.
A questo nuovo compito, da rendere concretamente operativo sul piano del procedimento, a ben vedere, corrisponde un vero e proprio dovere, il cui adempimento (o meno) è destinato ad avere conseguenze sociali ed economiche particolarmente rilevanti.
Evitare lunghe e articolate istruzioni dibattimentali dall’esito probabilisticamente assolutorio, infatti, non risponde solo alla soddisfazione di un intuitivo interesse delle parti processuali, ma certamente anche a quello pubblico ad una corretta ed efficiente gestione delle risorse che sono assorbite dall’amministrazione della giustizia.
Come già ricordato, infatti, il legislatore, in passato, aveva inteso recuperare l’originaria «funzione di decongestione del sistema»[9] dell’udienza preliminare, intervenendo due volte sul tessuto normativo dell’art. 425 c.p.p., tentando di ampliarne la portata applicativa[10]. Tale spinta riformista, tuttavia, non aveva trovato risposta da parte del diritto vivente, che aveva mantenuto di fatto inalterato il proprio approccio ricostruttivo del “filtro” in esame, relegato a definire il giudizio, con la decisione di non luogo a procedere, solo in relazione a situazioni nelle quali si appalesasse la superfluità del giudizio, senza che potesse essere formulata alcuna valutazione circa il merito dell’accusa.
Da questo punto di vista, pertanto, sarà responsabilità della futura elaborazione giurisprudenziale, che verrà resa sulla nuova disciplina, assumere un atteggiamento meno “svilente”, rispetto a quello mostrato a proposito delle riforme del passato, che erano rimaste, di fatto, prive di effetti in concreto.
4. Al netto di tali considerazioni sulla funzione del dominus delle indagini preliminari e del giudice, peraltro, il mutamento di ruolo più significativo, che la nuova disciplina impone, attinge inevitabilmente la figura del difensore delle parti private. Egli, infatti, è chiamato a diventare, prima del dibattimento e con lo scopo di propiziarlo o di evitarlo (a seconda della posizione assunta nell’interesse della persona offesa o di quella sottoposta ad indagini) interlocutore attivo e dialogante, del pubblico ministero prima e del giudice poi; il suo scopo dovrà essere quello di far emergere quegli elementi di prova, a favore della parte assistita, in grado di determinare una decisione per la stessa favorevole, rispetto alla probabilità, ragionevole o meno, di una futura condanna.
Gli strumenti processuali per procurare tale risultato sono tutti nella disponibilità del difensore, che è chiamato dalla nuova disciplina ad un vero e proprio “salto di mentalità”, prima che ad un mutamento di tattica, che non lo determini più ad attendere il dibattimento quale momento primario del proprio protagonismo processuale a sorpresa, bensì ad anticiparlo durante le indagini, e soprattutto nella fase della loro chiusura.
L’indicazione della dottrina in tal senso è per certi versi consolidata e risalente, allorquando la stessa segnalava che proprio la previsione del dovere del pubblico ministero d’investigare a favore della persona sottoposta ad indagini «può essere ben intesa soltanto se collegata all’art. 367, che consente ai difensori di depositare memorie e richieste scritte al P.M.», nel senso che «gli accertamenti a favore della persona sottoposta ad indagini altri non siano che quelli dalla stessa persona richiesti direttamente o tramite il suo difensore»[11].
Se, dunque, è sempre esistito, nella dinamica del codice di rito, lo spazio d’intervento del difensore sin dalla fase investigativa, esso ha poi assunto una dimensione sistemica per effetto di due riforme normative, oramai ultra ventennali: prima quella apportata dalla legge 16.12.1999, n. 479, che ha introdotto il contraddittorio anticipato con il pubblico ministero in sede di chiusura delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 415 bis c.p.p. e contestualmente incrementato i poteri istruttori del giudice dell’udienza preliminare, introducendo i nuovi artt. 421 bis e 422 c.p.p.; e, di lì a poco, quella portata dalla successiva legge 07.12.2000, n. 397, di disciplina delle investigazioni difensive[12].
Muovendo dal richiamo della legge n. 479/1999, essa ha aperto alla possibilità per il difensore della persona sottoposta ad indagini d’interloquire con il pubblico ministero, ad investigazioni concluse e interamente disvelate, depositando memorie difensive, richiedendo il compimento di ulteriori atti d’indagine, l’interrogatorio o il rilascio di dichiarazioni da parte del proprio assistito.
Alla luce della nuova disciplina contenuta nello schema di decreto legislativo in esame, questo spazio difensivo, se correttamente e attivamente coltivato, dovrà diventare il luogo privilegiato per superare la dimensione di un fascicolo d’indagini composto di soli, granitici, «atti conoscitivi formati unilateralmente nel corso delle indagini»[13], per propiziare la rappresentazione, al pubblico ministero prima e al giudice poi, dell’irragionevolezza probabilistica della condanna.
Una determinazione difensiva in tal senso, che non attenda l’inevitabile dibattimento (che non è più tale), poi, può riempire di fecondo contenuto i poteri istruttori del giudice dell’udienza preliminare, che il comma 1 dell’art. 422 c.p.p. attribuisce proprio «ai fini della sentenza di non luogo a procedere». È evidente che il nuovo spatium deliberandi di tale epilogo decisorio, che attinge la prognosi probabilistica della responsabilità penale e non più dell’utilità del processo, se finisce per gravare il giudice di un vero e proprio potere-dovere di acquisire prove teleologicamente preordinate ad una decisione di proscioglimento, per impedire un’ingiustificata dilatazione dei tempi processuali, onera anzitutto la difesa di offrirgliene la possibilità.
Tale potere-dovere, infatti, tanto sarà praticabile, quanto più il difensore avrà messo il giudice nelle condizioni di conoscere le ragioni, di fatto e di diritto, dei possibili scenari difensivi alternativi, razionalmente percorribili.
In altri termini, solo se la difesa delle parti private saprà rendersi protagonista di un efficace e serrato contraddittorio anticipato, rispetto alle acquisizioni investigative unilateralmente raccolte dal pubblico ministero in fase d’indagini, il giudice del vaglio preliminare sull’esercizio dell’azione penale potrà essere messo nelle condizioni di apprezzare concretamente la ragionevolezza della previsione di condanna dell’imputato; che resterebbe, altrimenti, dall’esito – negativo – per certi versi scontato, rispetto al quadro probatorio a carico raccolto dalla sola pubblica accusa in fase d’indagini.
Da questo punto di vista, nuova vitalità operativa dovrà coinvolgere l’utilizzo delle indagini difensive, che lo schema di decreto legislativo ulteriormente valorizza come strumento di acquisizione probatoria significativo, prevedendo, a garanzia normativa della sua genuinità, la regola della riproduzione fonografica dei contributi dichiarativi delle persone informate sui fatti[14].
Alle indagini difensive, così rafforzate nel loro valore e nella loro garanzia di veridicità, dovrà dunque essere riconosciuta, anche sul piano sostanziale, piena dignità probatorio-investigativa. In fin dei conti – è stato correttamente osservato –, se «è vero che il difensore non ha il dovere di cooperare alla ricerca della verità e che al professionista è riconosciuto il diritto di ricercare soltanto gli elementi utili alla tutela del proprio assistito», è altrettanto innegabile che «il difensore ha gli stessi diritti e doveri del Pubblico Ministero per quanto riguarda le modalità di documentazione» delle proprie indagini difensive, posto che «l'interesse dell'Avvocatura, del resto, non può che essere quello di rendere la prova dichiarativa assunta dal difensore affidabile al pari di quella raccolta dall'accusa»[15].
Nel nuovo quadro normativo in esame, pertanto, le indagini difensive non risulteranno più prioritariamente funzionali a creare le condizioni per l’esercizio del diritto alla prova dibattimentale, ai sensi degli artt. 190 e 468 c.p.p.[16]; bensì, dovranno anzitutto favorire, in capo al giudice, la decisione circa la necessità o meno del giudizio di merito, rispetto alla probabilità ragionevole di condanna, leggibile nel complesso degli atti a sua disposizione.
Infatti, come ha riconosciuto sin dalle origini la giurisprudenza di legittimità, la disciplina delle indagini difensive, «nel prevedere un'amplissima possibilità per i difensori delle parti private di assumere prove, delinea per le stesse un'equiparazione, quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a quelle raccolte dalla pubblica accusa, sia nella fase delle indagini e dell'udienza preliminare»[17], prim’ancora che per il dibattimento.
Se l’esito delle indagini e dell’udienza preliminare sono destinati all’epilogo liberatorio, in caso d’irragionevole probabilità di futura condanna, appare evidente che ogni elemento utile, raccolto per far valere tale tesi, merita di essere condiviso in tale fase e di non essere riservato al successivo dibattimento, divenuto invero evitabile.
La disciplina normativa del fascicolo del difensore di cui all’art. 391 octies c.p.p., da questo punto di vista, si presta perfettamente allo scopo, posto che «dal combinato disposto dell'art. 327 bis c.p.p., comma 2, art. 442 c.p.p., comma 1 bis, art. 419 c.p.p., comma 3, art. 421 c.p.p., comma 3, e art. 391 octies c.p.p., discende che le indagini difensive possono essere svolte in qualsiasi stato e grado del procedimento, possono costituire oggetto di indagini suppletive e possono essere prodotte in limine o nel corso dell'udienza preliminare, senza che sussista alcun obbligo di un preventivo avviso alla controparte o di deposito»[18].
In altri termini, la difesa dell’imputato è oggettivamente nelle condizioni di raccogliere, in una fase antecedente al contraddittorio dibattimentale, elementi utili a contrastare la – unilaterale – ricostruzione accusatoria, edificata dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari.
In forza della nuova disciplina, il difensore si troverà al cospetto di un giudice, che dovrà impedire il processo ogniqualvolta non apparirà ragionevole la prospettiva della condanna; dunque, è nella disponibilità del primo il dovere di rendersi protagonista attivo della fase preliminare, prima e piuttosto che del successivo processo.
Per fare ciò, tuttavia, la difesa dovrà, sul piano operativo, superare quella condizione (o forsanche quel pregiudizio), che la dottrina definisce come «il rischio, ben s’intende, di un’anticipata discovery»[19], che, suggerendo un atteggiamento attendista, vede differito e concentrato lo spazio virtuoso dell’azione dell’avvocato alla sola fase posteriore del dibattimento.
In definitiva, più che dall’atteggiamento del giudice e del pubblico ministero, la capacità di successo della novità normativa in esame dipenderà dalla disponibilità del difensore a saper ripensare il proprio ruolo.
Un difensore, si badi, che non solo dovrà essere all’altezza di tale percorso di rideterminazione dei luoghi processuali nei quali è essenziale un suo comportamento proattivo – quello che è già stato definito nei termini di un vero e proprio “salto di mentalità” –, ma che dovrà tenere sempre ben presente come, ad una funzione così importante per il corretto dipanarsi del procedimento penale, corrispondono, sul piano istituzionale e della condivisione della cultura della giurisdizione, doveri e responsabilità pubblicistiche non dissimili da quelli degli altri protagonisti di essa.
[1] Entrambi i documenti sono rinvenibili all’indirizzo web https:// www.gnewsonline.it/riforma-penale-ecco-i-testi-bollinati/
[2] Sul punto, in una prospettiva di sintesi, ci si permette di rinviare a F. PINELLI, Gli spazi angusti dell’udienza preliminare nel diritto vivente e il mutamento di paradigma del suo epilogo imposto dalla legge Cartabia, in Questione Giustizia, https:// www.questionegiustizia.it/articolo/gli-spazi-angusti-dell-udienza-preliminare.
[3] In occasione dell’ultima inaugurazione dell’Anno giudiziario, il primo Presidente della Corte di Cassazione aveva espressamente evidenziato la sussistenza di «un problema sia di valutazione prognostica sulla sostenibilità dell’accusa a dibattimento da parte del pubblico ministero (art. 125 disp. att. cod. proc. pen.) che di effettività dei controlli giurisdizionali da parte del giudice per le indagini preliminari», che imponeva» l’opportunità di incrementare e rendere più penetranti i poteri definitori attribuiti al GUP in sede di udienza preliminare, ampliando la discrezionalità allo stesso attribuita dal codice di rito, onde ulteriormente ridurre le ipotesi di assoluzione al dibattimento per infondatezza dell’accusa»; così P. CURZIO, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, in https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/ Cassazione_Sintes_2022.pdf, p. 277. La Commissione di studio ministeriale incaricata di formulare le proposte di riforma sul punto, con altrettanta chiarezza aveva indicato la necessità di superare «il criterio dell’astratta utilità dell’accertamento dibattimentale», prevedendo che «il pubblico ministero sarà chiamato a esercitare l’azione penale solo quando gli elementi raccolti risultino – sulla base di una sorta di “diagnosi prognostica” – tali di poter condurre alla condanna dell’imputato secondo la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tanto in un eventuale giudizio abbreviato, quanto nel dibattimento»; così MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, COMMISSIONE DI STUDIO PER ELABORARE PROPOSTE DI RIFORMA IN MATERIA DI PROCESSO E SISTEMA SANZIONATORIO PENALE, Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435 (24 maggio 2021), in https:// www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/commissione_LATTANZI relazione_ finale_24mag21.pdf, 20-21.
[4] Ci si riferisce, in particolare, all’art. 1 della legge 08.04.1993, n. 105, che aveva eliminato la parola «evidente» dalla lettera dell’art. 425 c.p.p., «nell’intento dichiarato di ampliare l’ambito delle valutazioni del giudice dell’udienza preliminare» (così A. NAPPI, Guida al Codice di Procedura Penale, Milano, 2000, 353); e, poi, al successivo – e più energico – intervento correttivo del Parlamento attraverso la legge 16.12.1999, n. 479, che ha investito il giudice dell’udienza preliminare di ulteriori e inediti poteri istruttori ai sensi degli artt. 421 bis e 422 c.p.p. e aveva riscritto l’art. 425 c.p.p., introducendo, tra le ragioni che legittimavano la pronunzia della sentenza di non luogo a procedere, i criteri previsti dall’art. 530 c.p.p., al comma 2°, della insufficienza o contraddittorietà della prova.
[5] In tal senso, Cassazione penale sez. III - 13/07/2018, n. 47013; analogamente, Cassazione penale sez. II - 20/11/2012, n. 10061; Cassazione penale sez. III - 23/06/2010, n. 34615.
[6] Così, Corte Costituzionale - 26/03/1997, n. 96. In termini analoghi, in dottrina, D. SIRACUSANO-A. GALATI-G. TRANCHINA- E. ZAPPALA’, Diritto processuale penale, Milano, 2018, 478.
[7] Così, Consiglio di Stato sez. V, 11/04/1996, n. 403.
[8] Rispetto a questa interpretazione di ruolo, evidentemente, sono comprensibili le riserve di chi è contrario all’unità, sul piano ordinamentale giudiziario, delle figure del giudice e del pubblico ministero.
[9] Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e delle norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni, in G.U., Serie Generale n. 250 del 24.10.1988, Suppl. Ordinario n. 93, 188.
[10] I riferimenti normativi sono rinvenibili alla precedente nota n. 4.
[11] Così A. NAPPI, Guida al Codice di Procedura Penale, cit., 73.
[12] Pare opportuno osservare come, già prima della disciplina organica di tale materia, la Corte Costituzionale avesse espressamente rilevato, a proposito della portata della previsione di cui all’art. 358 c.p.p., «che il principio di parità tra accusa e difesa trova piuttosto esplicazione nei diversi meccanismi previsti nelle varie fasi del procedimento per dare piena attuazione al diritto di difesa, tra cui le investigazioni difensive disciplinate dall’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, espressamente finalizzate all’esercizio del diritto alla prova (e alla controprova), e i poteri di acquisizione probatoria del giudice nel caso di inerzia o negligenza delle parti» (così, Corte Costituzionale - 26/03/1997, n. 96, cit.).
[13] Così, M. DANIELE, La riforma della giustizia penale e il modello perduto, in Cass. Pen., 2021, 3072.
[14] Il riferimento è al dettato dell’art. 18, comma 1, lett. e), dello schema di decreto, che ha modificato la previsione dell’art. 391 ter c.p.p., inserendo i nuovi commi 3 bis, per il quale «le informazioni di cui al comma 3 sono documentate anche mediante riproduzione fonografica, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione» e 3 ter, per il quale «le dichiarazioni della persona minorenne, inferma di mente o in condizioni di particolare vulnerabilità sono documentate integralmente, a pena di inutilizzabilità, con mezzi di riproduzione audiovisiva o fonografica, salvo che si verifichi una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione e sussistano particolari ragioni di urgenza che non consentano di rinviare l’atto».
[15] Così, Cassazione penale sez. un. - 27/06/2006, n. 32009, nell’affermare la tipicità penalistica, ai sensi dell’art. 479 c.p., della condotta del difensore che documenta, verbalizza in modo incompleto o non fedele e poi utilizza processualmente, le informazioni delle persone in grado di riferire circostanze utili alla attività investigativa.
[16] Significativo, da questo punto di vista, il fatto che, in coerenza con la disciplina del procedimento penale che transita per l’udienza preliminare, nel giudizio a citazione diretta davanti al Tribunale monocratico, il nuovo art. 555, comma 1, c.p.p., preveda, quale giorno di decorrenza a ritroso del termine per la presentazione della lista dei testimoni e dei consulenti tecnici, non la data di fissazione dell’udienza predibattimentale in camera di consiglio, indicata nel decreto di citazione a giudizio ex art. 552 c.p.p., bensì quella di rinvio davanti al giudice del successivo, eventuale dibattimento.
[17] Così, Cassazione penale sez. II - 30/01/2002, n. 13552.
[18] Così, Cassazione penale sez. V - 10/04/2006, n. 23706, che indica, peraltro, la necessità di fare «salvo il diritto per le controparti di esercitare il contraddittorio sulle prove non oggetto di preventiva discovery». Nello stesso senso, pur per implicito, si è espressa Corte Costituzionale - 24/06/2005, n. 145.
[19] Così, D. SIRACUSANO-A. GALATI-G. TRANCHINA- E. ZAPPALA’, Diritto processuale penale, cit. 535.