1. I principi di complementarità e ne bis in idem nello Statuto della CPI: irrilevanza della qualificazione giuridica dei reati
Non era trascorso neppure un mese dall’inizio del conflitto armato tra Russia ed Ucraina (24 febbraio 2022) che, con proprio decreto ministeriale (22 marzo 2022), il Ministro della Giustizia istituiva una Commissione per l’adozione di un codice di crimini internazionali, la quale concludeva i lavori in soli tre mesi (31 maggio 2022)[1].
Con pari solerzia, il nuovo Governo in carica, già in data 12 gennaio 2023, ha istituito un Gruppo di Lavoro, sempre in seno al Ministero della Giustizia, per l’adozione di un tale codice, che prenderà le mosse dalla relazione finale e dell’articolato già redatti dalla precedente Commissione.
Colpisce, innanzitutto, l’urgenza e celerità che ha caratterizzato l’attività governativa per l’adozione di un codice di crimini internazionali, tenuto conto che sono passati oltre vent’anni dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma (1 luglio 2022) e che per il primo adeguamento legislativo sono occorsi ben dieci anni (legge 23 dicembre 2012, n. 237). Solo in parte tale urgenza potrebbe, peraltro, trovare la sua ragion d’essere nella possibilità di esercitare la propria giurisdizione sui crimini internazionali commessi nel corso del conflitto armato insorto tra Russia ed Ucraina. In effetti, anche a voler tacere sul pur possibile esercizio della giurisdizione universale (artt. 7 e 10 c.p.) e sulla copertura penale già esistente delle condotte criminose, di cui si dirà a breve, il neo adottato codice di crimini internazionali potrebbe trovare applicazione, per il principio di irretroattività della legge penale (art. 25 Cost.), solo per le condotte successive alla sua entrata in vigore. Da qui, anche il difetto dei presupposti di necessità ed urgenza per l’adozione di una regolamentazione della materia con lo strumento del decreto legge.
Al di là di tale aspetto, comunque, ciò che più lascia perplessi è la motivazione posta a fondamento della supposta necessità di una pronta adozione di tale codice. La relazione finale della citata Commissione prende, infatti, le mosse dalla constatazione che la stesura di un codice di crimini internazionali «trova la sua principale ragione e occasione nella opportunità di assicurare il compiuto adempimento degli obblighi internazionali assunti dall’Italia» con la ratifica dello Statuto di Roma istitutivo della CPI e che «compito della Commissione è ... di redigere il progetto di uno strumento legislativo inteso ad introdurre nell’ordinamento italiano le disposizioni necessarie per assicurare che i crimini descritti nello Statuto di Roma possano essere sottoposti alla giurisdizione italiana». Ed infatti, sempre secondo la Commissione: «se un obbligo diretto di adottare una legislazione nazionale in questo senso non è espresso nello Statuto di Roma, tale obbligo si ricava indirettamente ma chiaramente dall’articolo 17 dello Statuto in cui si enuncia il cosiddetto “principio di complementarità” della giurisdizione della Corte penale internazionale rispetto a quella nazionale degli Stati contraenti. Secondo questo principio la Corte non ha infatti giurisdizione quando un crimine internazionale è o è stato oggetto di un procedimento penale davanti alle autorità giudiziarie dello Stato che può esercitare la giurisdizione rispetto a tale crimine, salvo che la mancanza di un procedimento penale nazionale dipenda dall’assenza di volontà o dalla effettiva incapacità dello Stato di investigare e di procedere penalmente. Questo sarebbe appunto il caso in cui uno Stato non avesse introdotto i crimini previsti dallo Statuto nella propria legislazione penale nazionale. In assenza di una legislazione con questo contenuto l’Italia sarebbe quindi esposta a un giudizio della Corte dichiarativo dell’assenza di volontà o di incapacità di perseguire crimini internazionali...».
In sostanza, secondo la Commissione, il principio di complementarità imporrebbe all’Italia di adottare un nuovo codice di crimini “internazionali” - o quantomeno di inserire detti crimini nei codici penali già in vigore. In caso contrario, l’Italia non potrebbe esercitare la giurisdizione su tali condotte e, manifestando, quindi, mancanza di volontà (unwillingness) o incapacità (inability) nel perseguire tali crimini, si esporrebbe all’esercizio della giurisdizione da parte della CPI.
Orbene, tale lettura del principio di complementarità non può essere assolutamente condivisa. La relazione della Commissione sembra in effetti voler piegare - più corretto sarebbe dire stravolgere - la reale portata del principio di complementarità per farne discendere un obbligo in capo all’Italia di prevedere e sanzionare quali crimini “internazionali” tutte le condotte disciplinate nello Statuto della CPI. Piuttosto, ed in senso diametralmente opposto da quanto sostenuto nella citata relazione, è principio ormai consolidato ed indiscusso, sia in dottrina che nella giurisprudenza della CPI, che la qualificazione giuridica del reato (reato “comune”, sia esso ordinario o militare, o reato “internazionale”) è indifferente, contando piuttosto un pronto ed effettivo esercizio della giurisdizione nazionale per la punizione dei colpevoli delle condotte sottostanti[2].
La CPI, pur sorta sulle ceneri dei dismessi Tribunali Penali Internazionali ad hoc, istituiti in base a Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, rappresenta un’istituzione del tutto nuova e diversa nel panorama del diritto penale internazionale, trattandosi della prima Corte penale internazionale a carattere permanente, fondata su un trattato internazionale. Il principio di complementarità costituisce l’esempio più significativo e lampante di tale dirompente novità. Come noto, la giurisdizione dei Tribunali per l’Ex-Jugoslavia (ICTY) e per il Ruanda (ICTR) aveva un carattere di primazia (rispettivamente, artt. 9 ed 8 degli Statuti). Il funzionamento della CPI, pur partendo dalle pregresse esperienze dei due citati Tribunali Internazionali ad hoc (il concetto di unwillingness deriva dall’esperienza dell’ICTY e quello di inability dall’ICTR), ruota attorno al principio di complementarità (artt. 1 e 17 dello Statuto, nonché Paragrafi 6 10 del Preambolo), che costituisce un totale ribaltamento del meccanismo attributivo di giurisdizione, essendo le Corti nazionali ad avere la giurisdizione in via primaria e residuando alla CPI una giurisdizione solo complementare.
Per effetto del principio di complementarità - in linea, peraltro, con i principi di diritto internazionale aut dedere aut iudicare (per il diritto internazionale umanitario) e del previo esaurimento dei rimedi interni (per il diritto internazionale dei diritti umani) - la CPI finisce per assolvere una funzione di prevenzione e garanzia più che di repressione, quale istituzione di salvaguardia che opera solo allorché le Corti nazionali (giudici naturali per lingua, distanza, tempi, riduzione dei costi, vicinanza della prova) non abbiano proceduto per unwillingness/inability ovvero abbiano proceduto con c.d. processi farsa condotti con l’intento di proteggere una persona (sham proceedings).
A colorare ulteriormente il principio di complementarità sovviene, infatti, anche il correlato principio del ne bis in idem. Sul punto, è opportuno ricordare che gli artt. 9(2) ICTR e 10 (2) ICTY prevedevano un’eccezione al ne bis in idem nel caso di qualificazione di una condotta come ordinary crime da parte delle Corti nazionali. Nello Statuto della CPI, all’art. 20(3), per contro, non si prevede alcuna eccezione espressa al ne bis in idem per il caso di qualificazione delle condotte come ordinary crimes, facendosi, invece, leva sul ben diverso concetto di sham proceedings[3]. Si tratta di un silenzio voluto e significativo che recepisce la ferma ed espressa opposizione di taluni Stati manifestata nel corso delle trattative diplomatiche per l’approvazione dello Statuto di Roma. Ed in effetti il timore di tali Stati era proprio quello di una eccessiva ingerenza della CPI nelle prerogative legislative nazionali[4].
La questione della rilevanza della qualificazione giuridica delle condotte previste e punite dallo Statuto di Roma è stata, quindi, risolta univocamente, con giurisprudenza ormai consolidata, dalla stessa CPI, la quale, in più occasioni, ha avuto modo di precisare che il principio di complementarità non richiede affatto che lo Stato adotti gli stessi reati e le stesse qualificazioni giuridiche presenti nello Statuto, essendo sufficiente la criminalizzazione, anche come reati “comuni” e non quali crimini “internazionali”, delle condotte ivi previste.
Non solo, ma a ben vedere non è neppure necessaria la criminalizzazione, pur quali reati comuni, delle medesime identiche condotte, atteso che è tollerato, in quanto ineludibile, un certo margin of appreciation nella descrizione delle condotte da parte dei legislatori nazionali, essendo quindi sufficiente che si tratti di condotte “sostanzialmente” identiche.
In particolare, nel caso Gaddafi, la CPI, partendo anche dai «travaux préparatoires and the expressed intent of the drafters to exclude the ordinary crimes exception provided in the ICTY and ICTR Statutes», ha chiarito che né il principio di complementarità né quello del ne bis in idem impongono allo Stato di adottare «the same legal characterisation of the criminal conduct» e che «the assessment of the subject matter of the domestic proceedings must focus on the alleged conduct and not on its legal characterisation». Ed in effetti, prosegue la Corte, «[t]he question of whether domestic investigations are carried out with a view to prosecuting 'international crimes' is not determinative of an admissibility challenge» posto che «a domestic investigation or prosecution for 'ordinary crimes', to the extent that the case covers the same conduct, shall be considered sufficient[5]». L’uso della parola conduct - e non già crime - nell’art. 20 (3) dello Statuto di Roma rende, del resto, chiara ed inequivoca, già ad una prima esegesi letterale, l’irrilevanza della qualificazione giuridica dei reati in base alla legge nazionale.
Per fare alcuni esempi, non esaustivi, poco conta se l’autorità giudiziaria nazionale, ordinaria o militare che sia, proceda per “sequestro di persona” piuttosto che per “riduzione in schiavitù”, “lesioni personali” piuttosto che “tortura”, “omicidio plurimo pluriaggravato” piuttosto che “genocidio”, rilevando solamente che sostanzialmente la stessa “condotta” sottostante al crimine internazionale venga effettivamente ed adeguatamente punita, e che il procedimento non sia stato attivato con l’intento di proteggere l’imputato.
In conclusione, la CPI, per effetto dei principi di complementarità e ne bis in idem, a seguito di una valutazione bi-fasica (two-fold test), potrà attivare la propria giurisdizione solo in mancanza di un procedimento nazionale (inaction[6]) ovvero nel caso in cui il procedimento nazionale, riguardante sostanzialmente la stessa condotta (same person/(substantially) same conduct test), pur qualificata quale reato comune e non quale reato internazionale, si sia risolto in un processo farsa, promosso con l’intento di proteggere la persona[7].
2. La repressione delle condotte previste nello Statuto della CPI nel sistema penale italiano
Non è certamente questa la sede per ripercorrere analiticamente lo stato dell’adeguamento del sistema penalistico italiano allo Statuto di Roma, tuttavia è necessario tracciarne almeno le linee essenziali.
All’adattamento primario (legge 12 luglio 1999, n. 232) dello Statuto di Roma, sono seguiti diversi interventi normativi, sia pure non organici, che hanno provveduto ad un parziale adattamento secondario (legge 31 gennaio 2002, n. 6; legge 23 dicembre 2012, n. 237; legge 14 luglio 2017, n. 110; D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21). Allo stato, quindi, le disposizioni dei codici penali, comune e militare, prevedono e puniscono se non tutte senz’altro la gran maggioranza delle condotte previste nello Statuto della CPI e sicuramente quelle “più gravi” sulle quali solo ha competenza la CPI.
Resta fuori solo il crimine di aggressione che pur se ora previsto nell’art. 8 bis dello Statuto di Roma, risulta comunque a tutt’oggi di assai problematica perseguibilità innanzi alla stessa CPI, anche (ed a tacer d’altro) a fronte della clausola di opt-out (art. 15 bis (4)) ed alla non applicabilità agli Stati non parti (art. 15 bis (5)).
Il genocidio è stato, invece, introdotto nell’ordinamento italiano già con la legge 9 ottobre 1967, n. 962, per cui esso risulta senz’altro perseguibile in Italia. L’art. 604 bis c.p., introdotto con D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, ha peraltro anche previsto il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa.
Per i crimini contro l’umanità, si potrà ricorrere alle fattispecie previste dal codice penale comune, tra le quali figurano, a mero titolo esemplificativo, omicidio (art. 575), riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600 c.p.), tortura (art. 613 bis c.p.), arresto illegale (art. 606 c.p.), violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), mutilazioni genitali (art. 583 bis c.p.).
Per i crimini di guerra essi trovano compiuta previsione e sanzione nel c.p.m.g. (artt. 9, 165-230 c.p.m.g.), che, nel corso degli anni, è stato oggetto di diversi interventi normativi (legge 13 ottobre 1994, n. 589; legge 31 gennaio 2002, n. 6; legge 21 luglio 2016, n. 145). In particolare, l’art. 185 c.p.m.g. punisce la violenza di militari italiani contro privati nemici; gli artt. 186-188 c.p.m.g. puniscono saccheggio, razzie, devastazioni commesse in territori occupati; gli artt. 192-193 c.p.m.g. puniscono maltrattamenti contro infermi, feriti e naufraghi nemici; gli artt. 209-211 c.p.m.g. puniscono sevizie, maltrattamenti e vilipendio di prigionieri[8].
Da un punto di vista di diritto sostanziale, quindi, il sistema penalistico italiano già predispone un’adeguata cornice penale - nei limiti di quel margine di appreciation che appartiene ai legislatori nazionali e che permette di rispettare le peculiarità dei diversi ordinamenti nazionali - per perseguire efficacemente le condotte previste nello Statuto della CPI.
Né potrebbe seriamente sostenersi che alla qualifica dei reati quali comuni anziché internazionali potrebbero conseguire dei limiti procedurali (termine di prescrizione; perseguibilità a querela di parte) che renderebbero incerto un pronto corso della giustizia. In effetti, basti rilevare al riguardo che la giurisdizione della CPI è limitata «to the most serious crimes of concern to the international community as a whole» (art. 5 dello Statuto di Roma). Il che evidentemente taglia fuori tutti quei reati comuni di minore gravità perseguibili a querela di parte (i reati militari, invece, sono tutti procedibili d’ufficio) e con termini di prescrizione più ristretti.
La trasposizione di tutte le medesime ed identiche condotte previste nello Statuto di Roma in seno ad un codice di crimini internazionali per qualificarle quali crimini internazionali, è operazione che, oltre che di dubbia utilità, per le ragioni già esposte, anche di difficile attuazione, atteso che lo Statuto della CPI adotta a volte una propria tecnica normativa (con una descrizione assai ampia ed indeterminata del fatto ed un ricorso alla casistica), di talché non tutte le condotte ivi previste potrebbero essere trasfuse sic et simpliciter nell’ordinamento italiano senza violare al contempo il principio di legalità e determinatezza della legge penale (art. 25 Cost.).
Piuttosto, ed in termini più generali, un auspicabile intervento legislativo, sul piano del diritto sostanziale, potrebbe essere quello di rivedere la nozione di tempo di guerra (e di pace), alla quale è legata l’applicazione della legge penale, sia comune che militare di guerra (artt. 310 c.p. e 3, 20 c.p.m.g.). In effetti, i tempi sono ormai maturi per poter passare da una nozione formalistica-legale di tempo di guerra fondato sulla dichiarazione di stato di guerra (in tal senso infatti proprio gli artt. 310 c.p. e 3 e 213 c.p.m.g.), che ricalca la concezione espressa nei trattati internazionali vigenti all’epoca dei codici penali, comune del 1930 e militare del 1941 (art. 1 della III Convenzione dell’Aja del 1907), ad una nozione sostanziale-fattuale di tempo di guerra basato sulla sussistenza di un conflitto armato, come ora previsto dai trattati internazionali di diritto internazionale umanitario (art. 2 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e Protocolli Addizionali del 1977) e dallo stesso Statuto della CPI (art. 8). E’ pur vero, infatti, che con legge 31 gennaio 2002, n. 6, l’art. 165 c.p.m.g. è stato emendato prevedendo l’applicazione dei crimini di guerra di cui al Titolo IV del c.p.m.g. «in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra» - e ciò anche nel caso delle operazioni militari all’estero, per effetto del combinato disposto di tale norma con l’art. 19 della legge 21 luglio 2016 n. 145. Tale estensione, tuttavia, è limitata a tali soli reati e non riguarda più in generale l’applicazione della legge penale, comune e militare di guerra, non essendo stati modificati anche gli artt. 310 c.p. e 3 c.p.m.g. Un intervento normativo che condizionasse, invece, l’applicazione della legge penale comune e militare di guerra all’esistenza di un conflitto armato piuttosto che alla dichiarazione dello stato di guerra, oltre che più rispondente ai trattati internazionali in vigore, servirebbe anche ad apprestare una maggiore e più incisiva tutela alle popolazioni civili straniere e agli stessi militari italiani impegnati in operazioni di supporto alla pace all’estero (peace-support operations, sia che si tratti di peace-keeping operations che di peace-enforcement operations)[9].
3. Art. 103 Cost. e riparto di giurisdizione, ordinaria e militare
Passando dal profilo sostanziale al profilo processuale, perplessità di non poco momento sorgono, infine, anche in merito alle proposte avanzate nella relazione finale della già citata Commissione, in punto di riparto di giurisdizione, ordinaria e militare.
Prendendo atto del mancato raggiungimento di una posizione comune su tale questione, la Commissione sottoponeva all’attenzione dell’allora Ministro della Giustizia tre distinte proposte.
In sintesi, con la proposta n. 1) si sostiene che «la scelta di attribuire al giudice ordinario la giurisdizione per tutti i crimini internazionali non incide sul dettato costituzionale (art. 103 comma 3 Cost.), come confermato dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale sottolinea la discrezionalità del legislatore nell’inquadrare determinate fattispecie fra i reati militari o quelli ordinari “purché osservi il canone della ragionevolezza” (tra altre, ord. n. 402 del 2008)». Con la proposta n. 2) si affida “la giurisdizione militare per i crimini previsti dal Codice quando siano commessi da militari”. Con la proposta n. 3), «la giurisdizione per i crimini internazionali previsti dal Codice è attribuita al giudice ordinario. Per i crimini di guerra, di cui al titolo II, capo 3 dell’articolato, commessi da appartenenti alle Forze armate italiane, la competenza è attribuita al giudice militare» e «Resta ferma, inoltre, l’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario per i crimini di guerra commessi da uno straniero; per i crimini contro l’umanità e il genocidio, anche se commessi da appartenenti alle Forze armate italiane; nonché in caso di connessione tra procedimenti per crimini di guerra di competenza del giudice militare e procedimenti per crimini di guerra o crimini contro l’umanità o genocidio di competenza del giudice ordinario».
Orbene, tutte e tre tali proposte, sia pure in diverso grado, prevedono uno sbilanciamento del riparto di giurisdizione a favore dell’autorità giudiziaria ordinaria, a detrimento di quella militare. Non solo, ma nessuna di tali proposte sembra porsi in linea con il quadro costituzionale e legislativo esistente, svilendo, peraltro, anche la pluriennale esperienza dei Tribunali militari nel condurre processi per crimini di guerra[10].
L’art. 103 Cost. costituisce il perno centrale dal quale occorre necessariamente - ed inderogabilmente, senza una modifica costituzionale - prendere le mosse per ogni discussione sul tema. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 48 del 1959, ha, infatti, ricordato in proposito che l’art. 103 Cost. «nel regolare la competenza dei tribunali militari in tempo di pace e di guerra…si pone come disciplina permanente e organica della materia».
L’art. 103 Cost., in primo luogo, stabilisce che «i tribunali militari hanno la giurisdizione in tempo di guerra stabilita dalla legge», in tal modo da un lato ribadendo la necessità di una giurisdizione militare da esercitare primariamente in tempo di guerra e dall’altro attribuendo a tale giurisdizione un ambito soggettivo ed oggettivo indefinito e quindi potenzialmente amplissimo, rimesso alla discrezionalità del legislatore. La giurisdizione militare in tempo di guerra sotto il profilo soggettivo infatti ricomprende reati militari da “chiunque” commessi (art. 232 n. 1) c.p.m.g.), sia da militari che da civili, e sotto l’aspetto oggettivo abbraccia, oltre che i reati militari da chiunque commessi, anche i reati comuni commessi dai militari (art. 232 n. 2) c.p.m.g).
L’art. 103 Cost., inoltre, prevede un ulteriore ambito di giurisdizione militare, secondario e residuale, per il tempo di pace, disponendo che i Tribunali militari «In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate». Si prevede, quindi, per il tempo di pace, una limitazione di ordine sia soggettivo (i soli militari, non quindi anche i civili) che oggettivo (i soli reati militari, non già anche i reati comuni).
Il dettato costituzionale è quindi esplicito. La giurisdizione militare esiste innanzitutto e primariamente per il tempo di guerra operando, in tale fase, nella sua massima estensione. La giurisdizione per il tempo di guerra costituisce, quindi, il nocciolo duro ed insopprimibile della giurisdizione militare, il suo tratto più autentico e distintivo, il suo “core business”. Di talché lo svuotamento sostanziale di ogni attribuzione ai Tribunali militari, in tempo di guerra, sui crimini di guerra - ma anche sul genocidio ed i crimini contro l’umanità - commessi nel corso di un conflitto armato si porrebbe in aperto contrasto con l’art. 103 Cost.
Non potrebbe in alcun modo rispondere, infatti, ad un «canone di ragionevolezza» (Corte Cost. nn. 298/1995 e 402/2008) una scelta legislativa che mantenesse in vigore i Tribunali militari solo per esercitare la giurisdizione residuale ed accessoria, per il tempo di pace, sottraendo loro la giurisdizione primaria e preponderante, per il tempo di guerra.
Tutte le proposte previste nella relazione si mostrano, quindi, per tale verso, non aderenti al dettato costituzionale dell’art. 103 Cost[11].
Né del resto vi sarebbe ragione alcuna per prevedere anche un diverso regime di connessione tra procedimenti da quello già previsto e disciplinato nel codice di rito (art. 13, comma secondo, c.p.p.). Una previsione sulla connessione tra reati che determinasse un’attrazione dei crimini internazionali di competenza dei Tribunali militari alla giurisdizione ordinaria anche, ad esempio, in caso di mera connessione probatoria, comporterebbe, infatti, un sostanziale svuotamento della giurisdizione militare ed una elusione dell’art. 103 Cost, con conseguente rischio di dichiarazione di incostituzionalità del relativo disposto normativo.
Piuttosto, qualsivoglia iniziativa legislativa che intenda rispettare il dettame costituzionale, deve mantenere fermo un riparto di giurisdizione equilibrato, e quindi “ragionevole”, attribuendo - e vale come una proposta alternativa rispetto a quelle formulate dalla Commissione - all’autorità giudiziaria ordinaria i crimini internazionali di aggressione, genocidio e crimini contro l’umanità commessi dai civili ed all’autorità giudiziaria militare i crimini internazionali di aggressione, genocidio, crimini contro l’umanità commessi dai militari, nonché i crimini di guerra commessi sia da militari che da civili.
4. Conclusioni
Il recente conflitto insorto tra Russia ed Ucraina può e deve certamente costituire un’importante occasione di monito e pungolo per il legislatore a mantenere alto il livello di attenzione sulla materia dei crimini interazionali, anche eventualmente procedendo ad una regolamentazione più ordinata ed organica.
In tale materia, tuttavia, è bene ribadirlo, non esistono diktat imposti dall’alto od azioni legislative necessitate e vincolate dallo Statuto di Roma. In altri termini, parafrasando una terminologia giornalistica particolarmente in voga, non ce lo chiede l’UE o Bruxelles e non ce lo chiede neppure lo Statuto della CPI o l’Aja. Il pur opportuno intervento legislativo può e deve, quindi, essere attuato con il pieno e paritetico coinvolgimento dei Ministeri interessati (Giustizia, Difesa, Esteri) e nell’esercizio della più ampia discrezionalità legislativa, all’esito di una democratica discussione parlamentare.
E, soprattutto, ogni legislazione in materia - a Costituzione invariata - dovrà necessariamente procedere nel rispetto della già descritta cornice costituzionale, sia in punto di diritto sostanziale, con particolare riferimento al rispetto del principio di legalità e determinatezza della legge penale (art. 25 Cost.), che in punto di diritto processuale, con riguardo al riparto di giurisdizione tra autorità giudiziaria, ordinaria e militare (art. 103 Cost.). Perché sì, al rispetto dei precetti costituzionali è pur sempre tenuto anche il legislatore ordinario. Ce lo chiede la Costituzione.
[1] Il testo della relazione della Commissione è anche reperibile sul sito di Questione Giustizia, al seguente link: La Relazione della Commissione sui crimini internazionali (questionegiustizia.it).
[2] In dottrina, sin da subito, già Otto TRIFFTERER (ed.), Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court, Baden-Baden: Nomos Verlagsgesellschaft, 1999, pp. 432-433. Per la giurisprudenza della CPI rilevano i casi che verranno discussi a breve: Katanga, Ruto e Muthaura, Gaddafi, Lubanga.
[3] J.T. HOLMES, Complementarity: National Courts versus the ICC, in A. CASSESE, P. GAETA, J. JONES, The Rome Statute of the International Criminal Court, Vol. I, Oxford University Press, 2002, pp. 678, 679; B. BROOMHALL, International justice and the International Criminal Court: between sovereignty and the rule of law, Oxford University press, 2003, pag. 101.
[4] L’art. 42 del Draft Statute della International Law Commission (ILC) aveva in effetti inizialmente ripreso il testo già presente negli Statuti ICTY ed ICTR, con la relativa eccezione per il caso dell’ordinary crime. Successivamente, per espressa opposizione delle delegazione degli Stati, il riferimento all’ordinary crime venne soppresso. Sul punto, J. T. HOLMES, The Principle of Complementarity, in Lee (ed.), The International Criminal Court: The Making Of The Rome Statute Issues, Negotiations, Results, Transnational Publishers, 1999, p. 56.
[5] Prosecutor v. Saif Al-Islam Gaddafi and Abdullah Al-Senussi (Case No. ICC-01/11-01/11-466-Red), ICC Pre-Trial Chamber I, Decision on the admissibility of the case against Abdullah Al-Senussi, 11 October 2013, para. 85-88. Vedasi anche Lubanga (Prosecutor v. Thomas Lubanga Dyilo, ICC – 01/04-01/06, 09 March 2006, par. 31).
[6] Su questo punto vedasi quanto statuito dalla CPI, Appeal Chamber, nel caso Katanga: «in case of inaction, the question of unwillingness or inability does not arise; inaction on the part of a state having jurisdiction [...] renders a case admissible before the ICC, subject to Article 17 (1) d) of the Statute». (Prosecutor v. Germain Katanga and Mathieu Ngudjolo Chui, ICC – 01/04-01/07-1497, 25 September 2009).
[7] Per il “two-fold test” vedasi, oltre al già citato caso Katanga, anche i casi Ruto e Muthaura (Prosecutor v. Ruto et all, ICC – 01/09 -01/11 – 101, 30 May 2011, par. 48 – Prosecutor v Muthaura et all, ICC – 01/ 09 – 02 / 11 – 96, 30 May 2011, par. 44) e Gaddafi (Prosecutor v. Saif Al-Islam Gaddaffi, ICC – 01/11 – 01/11 – 344- Red, 31 May 2013, par. 89). Per il “same person/(substantially) same conduct test” vedasi il caso Lubanga (Prosecutor v. Thomas Lubanga Dyilo, ICC – 01/04-01/06, 09 March 2006, par. 31) ed il citato caso Gaddafi.
[8] Per una più puntuale analisi sul tema dei crimini di guerra vedasi G. CASALENA, La giurisdizione penale militare nei conflitti armati tra vincoli costituzionali e prospettive di riforma, Temi Romana, Dicembre 2022, n. 4
[9] In senso analogo ancora G. CASALENA, cit, pp. 24-25.
[10] Sull’esperienza dei processi per crimini di guerra tedeschi in Italia vedasi Marco DE PAOLIS, Paolo PEZZINO, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013, Roma, Viella, 2016. Processi, peraltro, condotti in linea con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come statuito dalla CEDU, nel caso Sommer (sentenza del 13 marzo 2010).
[11] La legge 20 dicembre 2012, n. 237 (Adeguamento allo Statuto della CPI), all’art. 23 prevede, del resto, il mantenimento del riparto di giurisdizione, ordinaria e militare, secondo il sistema vigente: «1. Per i fini di cui alla presente legge si applicano le disposizioni vigenti in materia di riparto tra la giurisdizione ordinaria e la giurisdizione penale militare. 2. Per i fatti rientranti nella giurisdizione penale militare, le funzioni degli uffici giudiziari previste dalla presente legge sono esercitate dai corrispondenti uffici giudiziari militari».