Fin dalla prima occasione, dal primo incontro ufficiale nel suo ufficio di Ministro della Giustizia della Repubblica del Kosovo, capivi immediatamente che dietro l’aspetto austero e l’espressione triste, si celava un destino tragico ed un’esistenza che sopravviveva a dispetto della tragedia che aveva posto fine ad ogni speranza vitale.
Il Ministro della Giustizia, Nekibe Kelmendi aveva dimostrato qualità fuori dal comune, sul piano professionale. Dopo la laurea all’Università di Prishtina aveva iniziato la carriera come Giudice, tra il 1968 ed il 1987. In verità, quel ventennio di professione giudiziale era stato sospeso per alcuni anni, nel corso del quale Ms. Kelmendi si era dedicata alla professione legale, prima donna albanese a diventare Avvocato. Smessa definitivamente la toga del Giudice, e ripresa quella di Avvocato, aveva partecipato alla fondazione della Lega Democratica del Kosovo (partito di ispirazione moderata, espressione della élite intellettuale e del ceto medio albanese nell’allora Provincia Autonoma del Kosovo, all’interno della Yugoslavia), fino a diventarne vicesegretaria. Numerosissime le sue partecipazioni, sia come professionista, sia come rappresentante politica, ad iniziative di livello interno ed internazionale, per la tutela dei diritti umani ed in particolare dei diritti della donna, nella partecipazione a commissioni legislative di riforma o nei lavori preparatori di sessioni internazionali.
Questa donna, che appariva severa nei suoi vestiti rigorosamente neri e che raramente sorrideva, lasciando trasparire i segni di una antica bellezza, esprimeva anche fisicamente quel senso della relatività della vita che è un tratto tipico delle popolazioni balcaniche.
D’altronde, come non comprendere la tragicità della sua esistenza? Le erano stati strappati brutalmente gli affetti più cari.
La notte tra il 24 ed il 25 marzo 1999, all’inizio dell’intervento militare Nato nella ex Yugoslavia per fermare il genocidio della popolazione albanese in Kosovo, la polizia serba in uniforme aveva fatto irruzione nella casa di Nekibe e Bajram Kelmendi, a Prishtina, ed aveva prelevato Bajram (il marito) ed i loro due figli, Kushtrim e Kastriot, che secondo la tradizione albanese vivevano ancora sotto lo stesso tetto, pur avendo una propria famiglia. Nelle parole usate da Nekibe per descrivere quei momenti, Kushtrim venne invitato dai poliziotti a “salutare i propri figli per l’ultima volta”. I corpi dei tre uomini vennero ritrovati a distanza di un paio di giorni nel luogo in cui erano stati giustiziati, all’inizio della strada che da Prishtina conduce a Fushë Kosovë, ove oggi sorge un memoriale soffocato dalle erbacce e dal piazzale di una pompa di benzina.
La consolazione di Nekibe era che, secondo la ricostruzione, i tre uomini non erano stati torturati prima di essere uccisi. E d’altronde, i tre non avevano segreti da nascondere né verità che solo la tortura potesse estorcere. L’esecuzione era stata una mera vendetta per l’attività professionale di Bajram che era Avvocato e membro della Commissione Kosovara per la tutela dei diritti e delle libertà dell’Uomo (una struttura non riconosciuta, per la tutela degli albanesi vittime delle angherie del regime di Slobodan Milošević). Da ultimo per la sua attività professionale era sorto a prominenza con la difesa in giudizio di un giornale in lingua albanese, il Koha Ditore, che aveva pubblicato una dichiarazione dell’UÇK, la fazione estremista (dichiarata illegale già nel 1997 nella ex-Yugoslavia), guidata all’epoca da Hashim Thaçi[1]. I decenni di professione si erano svolti nei binari della tradizione yugoslava, di un rapporto diretto con il giudiziario locale (che in Kosovo era composto indifferentemente da albanesi e serbi, in sostanziale armonia, almeno fino al 1992 ed alle leggi discriminatorie imposte dal leader di Belgrado per espellere gli albanesi da ogni amministrazione pubblica nella Provincia del Kosovo –anch’essa, a sua volta, già privata dell’autonomia che le era stata concessa da Tito). Un uomo del popolo (e d’altra parte, in Kosovo, come in Albania, come potrebbe essere diversamente?), amato dalla popolazione di Prishtina, atterrita dall’orrendo crimine perpetrato come vendetta dal regime serbo. Un Avvocato il cui sacrificio, per la tutela dei valori nei quali credeva, ricorda la funzione suprema della libera professione nella difesa dei diritti di tutti e della propria comunità. Di Bajram Kelmendi val la pena altresì di ricordare la partecipazione alla Commissione di riconciliazione e di affrancamento dalla Vendetta del Sangue. In tale ruolo, sotto la guida del Professore Anton Çetta e di don Lush Gjergji, egli contribuì alla estinzione delle faide di sangue che all’epoca imperversavano in Albania ed in Kosovo.
Forse, coloro che hanno ammazzato i figli di Bajram per evitare che secondo l’antico costume schipetaro (Kanun Lekë Dukagjini) portassero a compimento la vendetta di sangue contro chi aveva ammazzato il padre, non avevano compreso il messaggio di pace e riconciliazione che Bajram Kelmendi aveva espresso attraverso l’esercizio della professione.
Chi si interessa di giustizia internazionale può trovar strano che il Ministro dell’Informazione del regime serbo dell’epoca, Aleksandar Vučić, sia ora Presidente della Serbia mentre il cliente dell’Avvocato Kelmendi, Hashim Thaçi, poi divenuto Presidente del Kosovo, si trovi ora alla sbarra a l’Aja davanti ad un Tribunale internazionale speciale per rispondere di crimini di guerra e contro l’Umanità. Ma questa è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta.
[1] Su Thaçi, ora a processo all’Aja, si può leggere, in questa rivista: https://www.questionegiustizia.it/articolo/from-hero-to-zero