Negli ultimi giorni di giugno le testate giornalistiche di mezzo mondo hanno dato notizia che nei confronti del presidente della Repubblica del Kosovo è stato depositato un indictment (richiesta di rinvio a giudizio) presso le Specialized Chambers, un tribunale internazionale costituito con legge della Repubblica balcanica ma con sede a L’Aja. Su tale organismo giudiziario, così come sulle ragioni della sua costituzione, avevo avuto modo di scrivere due articoli su questa rivista online, rispettivamente nel 2015 e nel 2014.
Allo stato, non è dato sapere l’esatto contenuto delle accuse, dato che la procedura prevede la valutazione dell’indictment ai fini dell’eventuale conferma da parte di un pre-trial judge, in una fase interlocutoria e camerale che può richiedere diversi mesi (il termine per la revisione è di sei mesi, che nel caso concreto decorrono dalla fine di aprile).
In base ai dati disponibili si possono tuttavia fare alcune considerazioni e ragionevoli previsioni.
1) L’indagine è basata sull’esito del c.d. Marty’s report (qui), disposto dal Consiglio d’Europa a seguito della pubblicazione del libro della Procuratrice presso l’ICTY, Carla Del Ponte che ipotizzava da parte del KLA (Kosovo Liberation Army - la formazione della resistenza kosovara) la commissione di organ harvesting, con estrazione di reni da prigionieri serbi detenuti in Albania nelle ultime fasi del conflitto, o anche in epoca successiva, per la successiva vendita sul mercato dei trapianti illeciti.
Il rapporto elaborato dal CoE era andato oltre l’ipotesi iniziale ed aveva incluso nella ricerca quanto avvenuto in Kosovo immediatamente dopo la firma tra la NATO e la Federazione Serba del Military Technical Agreement che aveva posto la parola fine alle ostilità in Serbia, di cui il Kosovo all’epoca faceva parte. Nel rapporto si sosteneva che dopo l’armistizio (9 giugno 1999), ed a seguito dell’uscita dal Paese delle forze di polizia e militari serbe, in Kosovo per qualche mese si era scatenata la violenza, per l’incapacità delle forze internazionali di controllare il territorio.
Le azioni violente avevano avuto tre targets distinti.
Innanzi tutto, una lotta per il potere all’interno dello stesso KLA aveva portato alla eliminazione fisica degli avversari da parte della fazione denominata Drenica group, guidata da Thaçi.
In secondo luogo, vi erano state numerose ritorsioni nei confronti degli albanesi che, dopo la adozione da parte di Belgrado delle misure discriminatorie anti-albanesi nel 1992, avevano sostenuto o non si erano opposti al regime di Milošević[1].
Infine, e soprattutto, vi erano state violenze nei confronti di serbi e di rappresentanti della comunità RAE (acronimo sotto il quale si riuniscono i rappresentanti della etnia gitana locale: Roma, Ashkali, Egyptians), per rappresaglia per le violenze ed i torti subiti dal regime serbo e/o per imporne l’allontanamento dal territorio, destinato a diventare esclusivamente albanese.
Aveva poi avuto inizio l’indagine internazionale da parte di una procura costituita ad hoc, e sostenuta da EU e US. Al termine delle indagini, nel 2014, l’ipotesi iniziale (espianto e vendita di organi per sostenere la guerriglia armata contro la Serbia) era risultata non corroborata, mentre le violenze post conflitto avevano trovato, nelle parole del procuratore americano, elementi sufficienti da giustificare la redazione di un indictment.
Poiché nel Marty’s report la leadership del Drenica group era identificata in Hashim Thaçi, Kadri Veseli e Shaip Muja, era lecito aspettarsi che costoro sarebbero stati i destinatari dell’atto d’accusa.
Da quell’epoca (2014) sono passati altri cinque anni, nel corso dei quali è stata costituita la Corte internazionale e sono stati sentiti oltre cento testimoni che avevano fatto parte del KLA.
2) Nell’accusa si fa menzione di quasi cento omicidi, ascritti a vario titolo a Thaçi, Veseli ed altri appartenenti al gruppo armato (in tutto una decina). Dedotte le vittime di ritorsioni nei confronti dei ‘traditori’ albanesi e le eliminazioni di rivali politici, si può ragionevolmente presumere che gli episodi di ‘pulizia etnica post conflitto’ (serbi e RAE) si riferiscano a quanto avvenuto nella capitale Prishtina ovvero nei paraggi, alla cessazione delle ostilità.
All’epoca il gruppo di Drenica riuscì ad occupare il potere con rapidità ed autorevolezza legittimate (oltre che dalla violenza) dall’appoggio americano al leader della fazione, Thaçi appunto, che aveva rappresentato il KLA ai falliti colloqui di pace di Rambouillet. Il giovane futuro Presidente, visto come l’unico interlocutore in grado di tenere unita la costellazione della guerriglia albanese e quindi in condizione di assicurare il controllo del territorio, ebbe l’appoggio dell’amministrazione Clinton ed in particolare del Segretario di Stato Madeleine Albright –non solo per ragioni di realpolitik, sostengono i maligni.
Nel vuoto di potere e di controllo creatosi tra la ritirata delle forze serbe ed il consolidamento della presenza internazionale (NATO e UN) furono perpetrate nefandezze che vengono ora ascritte principalmente alla fazione capeggiata da Thaçi, giunta in città dalla campagna con l’esplicita ambizione e l’appetito di chi proclama the winner takes it all.
3) In relazione ai conflitti nella ex Yugoslavia ed in particolare in Kosovo, la Storia ha già scritto da che parte stia la Ragione e dove il Torto. Premesso che tutti i crimini di guerra vanno perseguiti e puniti, da qualunque parte commessi, giacché non è lecito sostenere che i crimini dell’uno giustifichino le rappresaglie e le vendette dell’altro (two wrongs do not make one right), non si possono mettere sullo stesso piano le azioni che hanno provocato la crisi umanitaria che portò all’intervento militare della Nato (con i bombardamenti iniziati alla fine di marzo 1999 e durati oltre due mesi e mezzo) ed i fatti oggetto dell’imputazione. L’operazione repressiva serba in Kosovo (Operation Horseshoe), oltre che ingiustificata, fu estremamente più violenta, duratura e diretta esplicitamente contro obbiettivi civili. Il rapporto tra i morti albanesi e quelli serbi (causati questi ultimi principalmente dai bombardamenti americani, non dall’azione di guerriglia del KLA) è di cinque a uno. Altrettanto dicasi per i dispersi nel conflitto. Non si deve dimenticare che fu pianificato ed attuato l’esodo di tutta la popolazione albanese dal Kosovo verso Macedonia, Albania, Serbia e Montenegro.
Per quelle atrocità, solo modeste e circoscritte responsabilità sono state affermate dall’ICTY.
Morto Milošević poco prima della pronuncia della sentenza di primo grado, appena sette tra i rappresentanti delle istituzioni, dell’esercito e della polizia serba sono stati condannati per quanto avvenuto ai danni della popolazione albanese inerme, e solo per alcuni degli episodi avvenuti, alcuni dei quali, da soli (es. massacro di Vučitrn) annoverano oltre cento vittime. Per questa ragione, non appare affatto fuori luogo il commento dell’ex ambasciatore US William Walker che diresse all’epoca la Missione OSCE in Kosovo e che diede testimonianza di quanto avveniva, favorendo l’intervento aereo della NATO. Intervistato recentemente, egli ha manifestato perplessità sul meccanismo giudiziario nel suo complesso, dichiarandosi preoccupato che l’investigazione abbia avuto ad oggetto solo crimini asseritamente commessi dai Kosovari Albanesi aggiungendo che, «sì crimini sono stati commessi da entrambe le parti, ma certamente la assoluta maggioranza di essi fu commessa sotto la guida di Belgrado».
4) Ciò che avvenne all’indomani dell’armistizio non è mai stato digerito da buona parte della stessa comunità albanese. Il power grab da parte del gruppo di Drenica, con l’occupazione violenta del potere e l’usurpazione del territorio di una parte della stessa Prishtina è stato vissuto come una umiliazione dei "cittadini" (sheherli) ad opera dei "contadini" (katundar), senza contare tuttavia che i primi, generalmente seguaci della via "ghandiana" sostenuta dall’intellettuale Ibrahim Rugova mai sarebbero riusciti a riconquistare l’autonomia perduta nel 1989 e tanto meno a guadagnare l’indipendenza. E tuttavia, nonostante la soddisfazione manifestata da qualcuno per gli sviluppi giudiziari, nessun Albanese, né in Kosovo né in Albania, può accettare che l’imputazione a carico di Thaçi comporti una revisione storica della narrazione del conflitto con condanna del KLA nel suo complesso e riabilitazione del ruolo della Serbia in Kosovo. Tanto più che anche recentemente il Presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (ministro dell’informazione nel Governo Milošević all’epoca dei fatti di cui stiamo parlando) ha avuto la sfrontatezza di usare toni negazionisti, accusando Walker di essere un manipolatore ed un «imbroglione globale».
5) Non è difficile prevedere che il compito più difficile che i giudici della Specialized Court dovranno affrontare sarà quello della qualificazione giuridica delle fattispecie. Molte sono le ragioni di incertezza, a cominciare dalla sussistenza di una command responsibility, tanto in relazione alla responsabilità di Thaçi aver impartito gli ordini quanto in relazione all’eventuale mancato controllo da parte sua sui subordinati. Sul punto, il rapporto Marty descrive il KLA come una costellazione priva di un capo indiscusso e riconosciuto, e privo altresì di struttura gerarchica. Il rapporto inoltre descrive il ruolo di Thaçi come quello di (autoproclamatosi) referente politico più che militare.
Sarà poi interessante verificare, nella prospettazione della accusa, come si possa soddisfare lo standard (comune a tutte le ipotesi di crimes against the humanity e previsto dall’art.13 della legge istitutiva della Corte) del «widespread or systematic attack directed against any civilian population, with knowledge of the attack», in relazione al limitato numero di episodi, avvenuti in epoca successiva alla cessazione delle ostilità. Tanto più che molti degli omicidi erano diretti contro collaborazionisti o contro nemici politici, per motivi particolari, e non nel quadro di un generale attacco contro la popolazione civile (serba o albanese).
6) Qualunque sia la sorte dell’accusa, è chiaro che essa costituisce una pietra tombale sulla carriera politica di Thaçi ed una macchia sulla pretesa di rappresentarsi come il padre morale del Kosovo.
Tanto più che, se è incontestabile la audacia e la astuzia politica di Thaçi, assieme alla spregiudicatezza (qualità che gli hanno fatto guadagnare il nom de guerre “Gjarpëri” - Serpente) non va dimenticato che egli è da decenni accusato di essere a capo di un cartello di interessi, non tutti leciti, se non addirittura di aver basato le proprie fortune sul crimine organizzato (lo stesso Marty’s report ne fa menzione).
In conclusione, è auspicabile che anche grazie alla vicenda giudiziaria ed alle preannunciate dimissioni in caso di conferma dell’indictment, le istituzioni kosovare riescano ad emanciparsi da questo campione di una classe politica legata ad un’epoca che è stata gloriosa ma che ha avuto anche pagine oscure.
[1] A titolo di esempio, dei tre giudici di etnia albanese della Corte distrettuale di Pristina che avevano accettato l’asservimento al regime serbo, ‘tradendo’ il resto della popolazione albanese, due erano stati ‘liquidati’ entro la fine di giugno 1999 mentre il terzo aveva pensato bene di rifugiarsi in Germania.