Googlando le parole “yellow house”, il motore di ricerca di Mountain View restituisce una moltitudine eterogenea di spunti: lo studioso d’arte troverà riferimenti ad un celebre quadro di Van Gogh, l’appassionato di musica all’album di un gruppo musicale statunitense mentre abbondano links a hotels o ristoranti sparsi in giro per il mondo.
Ma chi sia interessato alle vicende balcaniche ed in particolare a quelle che si connotano per il rilievo penale internazionale, non avrà difficoltà a restringere la ricerca al così detto ‘Yellow House case’, una delle vicende più truci ed inquietanti dell’intero conflitto che ha sconvolto l’ex Yugoslavia nella decade dei Novanta.
In estrema sintesi, le allegazioni si riferirebbero ad un traffico di organi (reni) organizzato dal KLA (Kosovo Liberation Army), la formazione paramilitare dell’etnia albanese che tra il 1998 ed il 1999 ha condotto in Kosovo la guerra contro la Serbia e che, anche grazie all’aiuto della Nato, è risultata vittoriosa.
In particolare, le accuse parlano di esecuzioni extragiudiziali di prigionieri Serbi e Rom, detenuti illegalmente dal KLA in Albania, al fine di estrarre dai cadaveri organi da rivendere sul mercato illecito dei trapianti.
E’ importante sottolineare che i fatti si sarebbero verificati immediatamente dopo la fine del conflitto (9 Giugno 1999; firma tra la Nato ed il Governo Serbo del Military Thecnical Agreement) ai danni di prigionieri deportati dalle forze vincitrici fuori dal territorio Kosovaro.
Per il carattere delle accuse, che coinvolgevano la stessa leadership della formazione paramilitare, la vicenda ha avuto rilievo internazionale ed ha costituito terreno fertile per ogni sorta di manipolazione propagandistica.
All’inizio della settimana appena passata, la conclusione delle indagini internazionali condotte sotto la guida di un procuratore americano dalla Missione dell’Unione Europea in Kosovo, ha portato ad escludere la sussistenza di elementi probatori sufficienti a formulare una imputazione per le accuse predette.
Alcuni aspetti della investigazione sono particolarmente interessanti.
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La vicenda è passata dal livello dei ‘rumors’ che circondano ogni narrazione di conflitto (analoghe atrocità erano state attribuite dai Serbi ai Bosniaci per giustificare il massacro di Srebrenica) alla notorietà internazionale a seguito della pubblicazione nel 2008 del libro ‘La caccia: io ed i criminali di guerra’ in cui Ms. Carla Del Ponte, lasciato l’incarico di Capo Procuratore del Tribunale Internazionale per i Crimini in Ex-Yugoslavia, raccontava la propria esperienza in office.
In relazione al conflitto in Kosovo, la dr.ssa Dal Ponte riferiva delle indagini svolte in Albania all’inizio degli anni 2000, alla ricerca di indizi di un traffico di organi da parte del KLA. Secondo le versioni dell’epoca, i prigionieri delle forze di liberazione kosovare-albanesi, una volta trasportati in Albania (al fine di sottrarre l’attività illecita ad ogni possibile intervento dell’autorità internazionale intanto insediatasi in Kosovo, l’UNMIK), venivano detenuti in centri di detenzione provvisori fino al momento in cui ne veniva disposta l’uccisione ed il successivo espianto di organi che venivano quindi trasportati all’aeroporto di Tirana per essere inviati al destinatario finale all’estero.
Le indagini degli investigatori internazionali non sortivano tuttavia un esito positivo. Sulla base delle testimonianze disponibili, veniva identificata una abitazione rurale nel remoto villaggio di Rripe (distretto di Burrel, Albania centrale) ove si sospettava fossero state condotte le pratiche chirurgiche denunciate.
In effetti, in una stanza dell’abitazione, l’applicazione di tecniche forensi rivelava la presenza di tracce di sangue umano mentre le ricerche condotte all’esterno permettevano di ritrovare del materiale generalmente utilizzato in sala operatoria (un flacone di miorilassante ed una sacca per infusione). Inoltre, le giustificazioni addotte dai proprietari della abitazione per la presenza delle tracce di sangue apparivano contraddittorie: inizialmente, veniva detto che la stanza era usata per macellare gli animali della stalla; di fronte alla osservazione che si trattava di sangue umano, veniva detto che una parente vi aveva partorito tempo addietro.
La richiesta degli investigatori di eseguire scavi per cercare eventuali tracce o resti umani in prossimità dell’abitazione, era stata respinta dalle autorità albanesi.
L’indagine formale si era quindi fermata ben presto ma era stata seguita da numerose indagini giornalistiche sull’argomento, con la inevitabile battaglia di cifre ed il proliferare di ricostruzioni più o meno attendibili. Fermo l’elemento centrale della vicenda (il traffico di organi), il numero di vittime variava da poche decine a diverse centinaia. Personaggi già coinvolti in traffici illeciti o in pratiche di trapianto ‘allegre’ venivano associati alla attività di raccolta di reni (in inglese, organ harvesting). Venivano ovviamente evocati collegamenti con la mafia albanese ed ipotizzati racket internazionali con connessioni ai massimi livelli politici.
Nel 2008, le rivelazioni del libro della Del Ponte avevano in ogni caso l’effetto di promuovere da parte del Consiglio degli Affari Legali e Diritti Umani della Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (COE)la nomina di uno dei suoi membri, il senatore svizzero Dick Marty, come rapporteur, con l’incarico di eseguire gli opportuni accertamenti e di redigere un rapporto.
La pubblicazione del rapporto Marty nel gennaio 2011 ebbe l’effetto di una bomba a livello diplomatico, riaccendendo le tensioni tra la Serbia e la (nel frattempo proclamata) Repubblica del Kosovo e affibbiando addirittura al Primo Ministro del nuovo Stato balcanico (Hasim Thaci) l’infamante epiteto di sanguinario trafficante di organi.
Nel rapporto infatti si evidenziava il ruolo che un gruppo di potere al comando del KLA (Drenica Group, dal nome della località kosovara da cui provenivano i personaggi che facevano parte del gruppo; Hasim Thaqi ne era il comandante) aveva avuto nelle deportazioni e detenzioni illegali di prigionieri serbi in territorio albanese e si dava per ragionevolmente sostenibile (“numerous indications seem to confirm”) che organi erano stati rimossi da un limitato numero di prigionieri (“a handful of people”; “a small … group of … captives” sono le espressioni usate nel rapporto).
A fronte delle richieste della Serbia e della Russia (storico alleato della prima) che un tribunale internazionale venisse investito della questione e che sotto l’egida delle Nazioni Unite si svolgesse una indagine indipendente, l’Unione Europea, con l’appoggio degli Stati Uniti d’America ha preso l’iniziativa e, attraverso la propria Missione in Kosovo (EULEX), ha lanciato una nuova indagine.
Nel 2011 è stata quindi formata una unità investigativa ad hoc (SITF – Special Investigation Task Force), basata in Belgio (Bruxelles) seppure formalmente inquadrata nella struttura della missione e incorporata nel potere giudiziario kosovaro, con lo specifico incarico di investigare le accuse esposte dal c.d. Marty’s report. A capo dell’unità è stato posto un diplomatico americano, Clint Williamson.
Questa è ovviamente una circostanza sorprendente per una Missione dell’Unione Europea e per una task force investigativa.
Tuttavia è necessario ricordare che gli Stati Uniti d’America sono uno dei big players in Kosovo sin dai tempi dell’amministrazione Clinton, ricordato nel Paese balcanico come il Presidente che più di ogni altro si impegnò per l’intervento militare della NATO per risolvere la crisi umanitaria del 1999.
Gli Stati Uniti pertanto sono da sempre a fianco dell’Europa in Kosovo e contribuiscono alla Missione EULEX con uomini e mezzi.
Quanto al profilo professionale, non c’è dubbio che Clint Williamson rappresenti al meglio la tradizione di civil servants americani, esperti di vari settori prestati alla politica o alla carriera diplomatica. Procuratore internazionale in Kosovo fin dall’epoca immediatamente successiva al conflitto, egli ha poi lavorato in varie istanze giudiziali internazionali ai livelli più alti, al contempo mantenendo un collegamento assai stretto con il Servizio della Sicurezza USA (National Security Council) e con il Servizio Diplomatico, da ultimo con il titolo di Ambassador-at-Large for War Crimies Issues.
Alla conclusione di indagini durate tre anni ed al termine del suo mandato, il Capo della Special Investigation Task Force ha presentato le proprie conclusioni.
La conferenza stampa organizzata per annunciare gli esiti delle indagini si è tenuta a Bruxelles all’inizio della settimana passata, preceduta da un clima di attesa per quelle che, si comprendeva negli ambienti internazionali, sarebbero state le parole finali sulle allegazioni di fatti tragici e sulle speculazioni e manipolazioni che ne erano seguite nel corso degli anni.
In altre parole, si è capito ed accettato che lo sforzo investigativo prodotto dalla SITF nel bene e nel male e qualunque ne fosse l’esito, sarebbe stato l’ultimo tentativo di venire a capo di una vicenda la cui narrazione aveva assunto negli anni toni da tregenda.
L’esito delle indagini è stato riassunto in un documento consultabile online.
Si tratta di una dichiarazione (“statement”) che non ha alcun valore giuridico ma che fa il punto sulla attività svolta nonché sui suoi esiti e che indica ‘the shape of things to come’.
Nelle parole di Williamson si trovano le chiare risposte ai quesiti per rispondere ai quali la SITF era stata costituita: a) non è stato possibile raccogliere elementi probatori sufficienti per formulare una imputazione nei confronti di chicchessia per l’ipotesi di organ trafficking/harvesting, comunque denominata o giuridicamente qualificata; b) non vi sono prove del coinvolgimento di Hasim Thaci (l’attuale Primo Ministro del Governo della Repubblica del Kosovo) in pratiche illecite; c) vi sono tuttavia forti indizi (“compelling indications”) che su una scala molto ridotta (“on a very limited scale”) un piccolo numero di individui sono stati uccisi al fine di estrarne e trafficarne gli organi.
L’ipotesi fiorita nel corso degli anni di un traffico di organi organizzato ai massimi livelli, che avrebbe coinvolto centinaia o anche solo decine di persone nei vari ruoli e con diversi destini è risultata indimostrata, infondata e, alla luce di quanto acquisito, nemmeno ipotizzabile. Non vi sarà pertanto alcuna richiesta di rinvio a giudizio per tale aspetto.
Al tempo stesso, è stato accertata la deportazione illegale (cioè in violazione delle norme di diritto internazionale umanitario e criminale) di prigionieri Serbi, Roma nonché di collaborazionisti albanesi nell’immediato dopoguerra, una attività qualificata come crimine contro l’umanità. Per tale profilo è stata preannunciata una richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di figure non di primo piano del KLA.
Che dire delle conclusioni rassegnate dal Capo Procuratore Williamson?
A parere di chi scrive, si possono fare alcune riflessioni, di metodo e di merito:
1) è del tutto inusuale, in ambiente europeo, che un procuratore alla conclusione delle indagini e nel lasciare il proprio ufficio, emetta una dichiarazione per illustrare i risultati raggiunti e per indicare chi può essere imputato e chi no, per quali reati e per quali no; ciò potrebbe pregiudicare l’indipendente valutazione, da parte del successore, del materiale probatorio raccolto e costituisce in ogni caso un atto non necessario e non previsto dal codice; tuttavia Williamson, forte dell’esperienza diplomatica e del sostegno dell’amministrazione di cui si sente espressione (USA più che EU) ha ritenuto di non poter lasciare l’ufficio senza rendere noti gli esiti del suo lavoro, per porre un punto fermo nella vicenda; è significativo che nessuno, né a livello politico né giudiziario (in Kosovo, Serbia, Russia o altrove) abbia sollevato critiche o obbiettato alcunché in proposito;
2) rimane da essere chiarito il valore e l’utilizzabilità processuale del materiale raccolto. Negli atti interni della Missione EULEX, la SITF veniva inquadrata come una articolazione della Procura Speciale Kosovara (SPRK) soggetta alle regole processuali vigenti in Kosovo (KCCP – Kosovo Code of Criminal Procedure) e si specificava che per ogni atto di investigazione compiuto in territorio belga sarebbe stata necessaria una preventiva autorizzazione sulla base di una richiesta di mutua assistenza legale. Sarà compito dei difensori degli imputati, una volta formalizzata l’accusa ed identificati gli imputati, verificare se ciò sia avvenuto e se presso una qualche corte del Kosovo siano stati depositati ritualmente un ruling on the initiation of the investigation (come richiesto dal codice di procedura) o le varie proroghe delle attività di indagine;
3) Williamson riconosce la particolarità della situazione in cui si trova l’Ufficio da lui diretto: concluse le indagini, manca un meccanismo processuale di livello internazionale davanti al quale presentare l’indictment; si potrebbe obiettare che in realtà una Corte disponibile già c’è poiché in Kosovo la presenza internazionale è già assicurata dalla Missione EULEX anche nel settore giudiziario; tuttavia l’Assemblea del Kosovo (il Parlamento di Pristina) si è recentemente impegnato a consentire la costituzione di un tribunale internazionale per giudicare i fatti investigati dalla SITF. Della legislazione necessaria per implementare il nuovo meccanismo giudiziario non vi è tuttavia traccia, allo stato ed il percorso per trasformare in legge la volontà manifestata potrebbe complicarsi se non incepparsi nel Parlamento neoeletto. Si farebbe allora concreto uno scenario simile a quello che ha ritardato per oltre un decennio la costituzione delle Extraordinary Chambers in the Courts in Cambodia per giudicare i crimini del regime dei Khmer;
4) Le conclusioni dello statement di Williamson non smentiscono il rapporto Marty; anzi, si potrebbe dire che sia evidente il ricorso agli stessi termini ed il riferimento ai medesimi concetti utilizzati dal senatore svizzero nel rapporto COE (ad esempio, l’impiego dell’espressione ‘a handful of people’ ovvero il ricorso al generico ‘indications’ per ‘indizi’ al posto dell’equivalente giuridico ‘clues’ o ‘hints’). Le parole della dichiarazione di Williamson si pongono tuttavia su un piano differente poiché pretendono esplicitamente di essere il placeholder (sostituto, facente funzioni) di una richiesta di rinvio a giudizio (indictment) che allo stato non può essere depositato in Corte; non si tratta cioè di un generico rapporto o relazione ma il precursore di una richiesta di rinvio a giudizio in fieri;
5) Appare in ogni caso importante che si sia chiarito in maniera netta che gli episodi di espianti di organi, se verificatisi, sono stati limitati a qualche unità. L’uso dell’espressione “handful” (manciata), comune ai due documenti (di Williamson e di Marty) e l’uso delle parole “small number of individuals” per le vittime (analogamente allo “small group of captives” del Marty’s report), pur nella loro genericità, non consentono di andare oltre le poche unità (tra 2 e 5? 7?), smentendo radicalmente le fantasiose ricostruzioni che giornalisti e parti interessate avevano propagandato nel corso degli anni. In tali termini, anche l’ipotesi di traffico di organi, pur odioso e drammatico, viene ridimensionata;
6) Williamson, così come Marty in precedenza, ricorda che non vi è una giustizia dei vinti ed una dei vincitori e che i crimini contro l’umanità, così come i crimini di guerra, debbono essere perseguiti in ogni caso, da chiunque siano stati commessi. Per questa ragione si giustifica, secondo il diplomatico americano, un processo nei confronti di coloro che dopo la conclusione del conflitto, avrebbero deportato in Albania un numero incerto (ma stimato nell’ordine da due a quattro centinaia) di prigionieri serbi e di altre minoranze, detenendoli in campi di prigionia. A quest’ultima considerazione è stato obiettato sulla stampa kosovara, che nel 1999 lo stesso intervento aereo delle forze Nato al fianco del KLA era stato provocato dalla reazione, nell’opinione pubblica occidentale, alle immagini delle lunghe colonne di profughi albanesi che in centinaia di migliaia cercavano rifugio viaggiando in condizioni disperate verso la Macedonia, l’Albania ed il Montenegro. Si è osservato che per quei crimini non vi è stato alcun processo e che nessun colpevole è stato identificato.
In conclusione, e nonostante i numerosi aspetti problematici, bisogna riconoscere che l’attività svolta da Williamson e l’iniziativa da lui adottata presenta i caratteri di audacia ed effettività tipici tanto della diplomazia quanto della azione giudiziale americana (si pensi al ricorso massiccio al plea bargaining o alla rilevanza dell’equazione costi/benefici ai fini dell’esercizio dell’azione penale). C’è da chiedersi se la diplomazia europea saprà dimostrare la stessa determinazione ed unità d’intenti nel proseguire l’opera di costituzione della Corte e nel renderla operativa e funzionale.