1. Il contesto
Il caso “Medicus” del quale trattiamo è stato finora (ne pende l’impugnazione) uno dei più ponderosi e noti della recente storia giudiziaria del Kosovo, che come e´ noto ha dichiarato la propria indipendenza dalla Serbia solo nel 2008 (dopo circa dieci anni di amministrazione interinale da parte della missione ONU denominata UNMIK, in forza della risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244/99).
La sentenza di primo grado è stata pronunciata nell´aprile scorso e le motivazioni risalgono allo scorso autunno.
Scopo di questo intervento è evidenziare taluni aspetti di interesse del provvedimento, alla luce sia della assoluta novità della materia (non constano al sottoscritto precedenti in materia di tratta di esseri umani finalizzati alla vendita di organi), sia delle peculiarità del sistema costituzionale e processuale kosovaro.
Ovviamente non è questo il luogo per una approfondita disamina di tale ordinamento: sia sufficiente qui evidenziare che in Kosovo, dopo la uscita di scena della missione UNMIK, e´ operativa dal 2008 la missione europea EULEX (European Union Rule of Law Mission in Kosovo) con compiti di institutional strengthening e con una “limitata” competenza giurisdizionale in materia di crimini di guerra, crimine organizzato e serious crime in genere.
A tale missione partecipano magistrati (giudicanti e requirenti) di buona parte dei paesi europei (ma non di tutti, in quanto alcuni paesi europei, come noto, non hanno riconosciuto il nuovo Stato).
I giudici internazionali hanno uno status speciale ed una legge del parlamento Kosovaro disciplina la loro giurisdizione. Essi giudicano (ed e´ questo l´aspetto più interessante) in collegi misti, insieme a giudici locali.
Si suole definire questo genere di giurisdizione non già con il termine di “tribunali internazionali”, ma più propriamente di “tribunali internazionalizzati” (cfr. Sabino Cassese, I Tribunali di Babele, Donzelli Editore): in essi la giurisdizione nazionale “ospita” al proprio interno giudici internazionali che (salvo le garanzie di immunità e particolari regole sulla giurisdizione) applicano il diritto sostanziale e processuale dello stato ospitante. I giudici internazionali, pertanto, si trovano ad avere una veste ibrida, ad un tempo giudici internazionali ma, quanto alla procedura seguita, incardinati nel giudiziario locale.
Si suole affermare (a mio avviso in modo condivisibile) che tale organizzazione della giurisdizione internazionale sia possibile ed opportuno in situazioni di crisi istituzionale ormai stabilizzate ed avviate alla normalizzazione. Anche perché un´adeguata modulazione della formazione dei collegi giudicanti permette di ulteriormente gradualizzare il passaggio di consegne ai giudici nazionali (per esempio permettendo, in taluni casi, una maggioranza di giudici nazionali nel collegio).
Uno degli aspetti maggiormente interessanti per il lettore italiano è costituito dal fatto che i collegi giudicanti internazionali e misti sono in pratica un “laboratorio” in cui sensibilità ed approcci giuridici delle varie tradizioni europee si trovano a confrontarsi – con tutte le difficoltà causate dalla diversità di background - nell’esercizio della funzione giurisdizionale su casi pratici.
Nulla come l’esercizio congiunto delle funzioni è capace di suscitare una cultura ed un “sentire” comune e ciò costituisce una innegabile ricchezza in un’epoca, come la presente, in cui l’integrazione europea in campo giudiziario penale viene sempre più invocata come una necessità urgente a fronte della crescente trans-nazionalizzazione del crimine, facilitata dalla caduta delle barriere nazionali.
1. Le imputazioni
Il primo profilo di interesse nel caso “Medicus” è di diritto sostanziale.
Il pubblico ministero, dopo una complessa indagine dai plurimi risvolti transnazionali (in considerazione della nazionalità straniera di alcuni degli imputati, di buona parte delle vittime e di tutti i beneficiari degli organi trapiantati), ha domandato il rinvio a giudizio (indictment) nei confronti di uno dei proprietari della clinica Medicus (ove anch’egli operava come chirurgo) e di altri quattro imputati, parimenti di nazionalità kosovara: significativo per il lettore italiano il fatto che alcuni tra gli indagati principali (Yussuf Sonmez, turco, e Moshe Harel, israeliano) abbiano mantenuto lo status di indagati, stanti l´impossibilita´ di ottenerne l’estradizione e l´ impossibilità sancita dal codice di rito di celebrare dibattimenti in absentia. Proprio questa norma ha reso impossibile a UNMIK ed EULEX, in molti casi, di portare a giudizio cittadini serbi imputati di crimini di guerra e latitanti in Serbia (stante il rifiuto da parte di quest´ultima di concedere l’estradizione verso il Kosovo).
L’ udienza preliminare è stata travagliata: al suo esito il confirmation judge (equivalente al G.U.P. nostrano) ha dichiarato l´inammissibilità delle (essenziali) prove raccolte in occasione della perquisizione svolta presso la clinica, decisione poi ribaltata dalla Corte Suprema su appello del P.M..
La clinica privata
Le due imputazioni principali all’esito dell’udienza preliminare erano:
- organized crime: per avere gli imputati “organizzato, strutturato, supervisionato, diretto” le attività del gruppo criminale avvenute nella clinica Medicus. Il gruppo era attivo almeno da alcuni mesi ed era stato formato per la commissione di plurimi reati a fine di profitto.
- traffico di esseri umani, per avere essi “reclutato, trasportato, trasferito, dato rifugio a, ricevuto” persone di varie nazionalità al fine di espiantarne gli organi, abusando della loro posizione di vulnerabilità, in relazione alle loro condizioni finanziarie particolarmente precarie e, in taluni casi, per mezzo di frode o violenza.
Le modalità operative del gruppo criminale sono state descritte dettagliatamente (nel corso delle ben 63 udienze dibattimentali, nelle quali sono stati esaminati 81 testimoni) dalle vittime e dai beneficiari dei trapianti.
Le vittime erano persone di vari Stati dell’Europa dell’est, che avevano saputo da inserzioni su siti internet che, per un prezzo variabile tra i 10 e i 15.000 dollari, era possibile vendere un rene. Date le loro condizioni economiche precarie almeno 24 persone avevano accettato di essere trasferiti in Kosovo, al fine di sottoporsi all’espianto di un rene.
Si noti – ed in ciò risiede un primo aspetto interessante - che la tipizzazione delle fattispecie di “traffico di esseri umani” e “crimine organizzato” risente in modo evidente dell´influsso della codificazione internazionale, in particolare della convenzione ONU di Palermo del 2000. Un semplice esame delle fattispecie di cui agli articoli 6 della convenzione e del primo protocollo addizionale alla stessa (in materia di tratta di esseri umani) rende evidente le grandi analogie descrittive con la fattispecie del codice penale kosovaro.
Tale modalità di ratifica recettizia senza sostanziale elaborazione di adattamento è evenienza piuttosto frequente negli Stati in regime di transizione sotto supervisione e con sostegno economico internazionale: ciò in ragione della urgente necessità di adeguare il sistema all’acquis, anche al fine di accreditare le nuove istituzioni agli occhi degli osservatori esteri. Ciò non è sempre senza conseguenze, soprattutto nel caso di convenzioni internazionali, come quella di Palermo del 2000, che sono state concepite in termini definitori estremamente ampi e, talora, ambivalenti, al fine – condivisibile sotto il profilo della politica criminale internazionale - di spingere il maggior numero possibile di Stati all’adesione
E´ soprattutto l’imputazione di tratta di esseri umani a suscitare interesse, poiché si tratta di un novum, giurisprudenziale (non constando al sottoscritto precedenti - quantomeno di tale eclatante entità - aventi ad oggetto la tratta di esseri umani finalizzata all’espianto di organi clandestino).
Gli elementi costitutivi della fattispecie di traffico di esseri umani secondo il codice Kosovaro consistono (si veda l’art. 139 del codice penale del Kosovo, riportato in calce):
- nella condotta materiale, descritta in termini di “reclutamento, trasporto, trasferimento, accoglienza di persone”;
- nel mezzo usato per commettere tale condotta, consistente nell´uso della minaccia o forza, nella frode, nell’abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità; trattasi, pertanto, di reato a condotta vincolata;
- nello scopo specifico della condotta, consistente nello “sfruttamento”, espressamente riferibile tra le altre cose (si veda, in nota, il comma 6.2 dell’art. 274 CCK) all’espianto di organi.
Si noti che la norma impone che il reato sia commesso necessariamente facendo ricorso a taluno dei mezzi indicati nel comma 6.1 della norma (riportato in nota): sorprende, pertanto, che al successivo paragrafo 6.3, la stessa norma affermi l’irrilevanza del consenso della vittima “quando l’agente abbia fatto ricorso a taluno dei mezzi indicati al paragrafo 6.1”: trattasi di inciso inutile, suscettibile come tale di ingenerare confusione (quasi che possano darsi casi in cui il reato possa essere commesso a condotta libera).
Evidente l’analogia della fattispecie kosovara, sotto molti profili definitori, con l’omologo italiano dell’art. 601 c.p. (la cui redazione ha parimenti subito l’influsso della codificazione internazionale).
Ora, come si nota leggendo la sentenza, il collegio ha ritenuto integrato il presupposto dello sfruttamento anche nel caso in cui le vittime, che avevano prestato il consenso a causa della loro condizione economica precaria, si erano purtuttavia recate autonomamente in Kosovo per sottoporsi all’intervento di espianto (previa organizzazione e pagamento del viaggio da parte degli imputati). Si noti che il P.M. non ha neppure ipotizzato che il loro arrivo o permanenza in Kosovo fosse dipesa da violenza o minaccia.
Tale opzione interpretativa della Corte kosovara appare legittima, in quanto il codice locale prevede tra le modalità esecutive l’”abuso di posizione di vulnerabilità”: concetto che pare più ampio rispetto alla “situazione di necessità” postulata dall’omologo art. 601 del codice penale italiano (soprattutto alla luce della usuale interpretazione giurisprudenziale nostrana di siffatta nozione).
Le risultanze fattuali descritte nella motivazione rendono evidente la sussistenza della posizione di vulnerabilità delle vittime (ad esempio, il teste W1, persona bielorussa residente in Israele, “owed money to a number of banks, and had debts of 30,000 Shekels …. His mother is dependent on him, and has no one else. There is a warrant for his arrest in civil court because of his debts”; le vicende personali delle restanti vittime sono del tutto analoghe).
Chiara, infine, la finalità di profitto perseguita dagli imputati: i beneficiari dei reni hanno confermato che il prezzo pagato per il trapianto del rene si aggirava intorno ai 100.000 -120.000 USD: somma di cui solo una minima parte era consegnata ai “donatori”.
Indubbiamente ad un primo superficiale sguardo le vicende oggetto del processo potrebbero apparire eccentriche rispetto ai “classici” casi di trafficking in human beings cui ci hanno abituato le nostre aule di giustizia, nei quali l’elemento della frode o della violenza ai danni della vittime sono spesso prevalenti e conclamati ed in cui l’agente viene ad assumere un ruolo importante nel trasporto (anche contro la volontà della vittima). Nel caso di specie, al contrario, le vittime autonomamente si sono recate in Kosovo e autonomamente ne sono uscite (dopo un ricovero di alcuni giorni, durante il quale è stato eseguito l’espianto), rimanendo sempre (per quanto pare di capire leggendo la motivazione) liberi di rinunciare all’operazione.
Nondimeno, alla luce della ampia formulazione della norma incriminatrice deve condividersi l’impostazione accusatoria, essendo stato provato dal prosecutor sia la condotta materiale (quantomeno in termini di “accoglienza” e di “trasporto”, avendo gli imputati organizzato l’itinerario e fornito il titolo di viaggio e successivamente ricevuto le vittime in Kosovo), sia l’abuso della posizione di vulnerabilità, sia la finalità di sfruttamento (in termini di espianto di organi). Ed essendo espressamente prevista dalla norma l’irrilevanza del consenso della vittima.
Vien da chiedersi se condotte analoghe a quelle accadute in Kosovo sarebbero punibili in Italia ai sensi dell’art. 601 c.p..
Come noto, tale norma punisce “Chiunque commette tratta di persona che si trova nelle condizioni di cui all'articolo 600 ovvero, al fine di commettere i delitti di cui al primo comma del medesimo articolo, la induce mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno, è punito con la reclusione da otto a venti anni.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i delitti di cui al presente articolo sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi”.
L’art. 600 primo comma c.p., richiamato dall’art. 601 c.p., recita “Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni.
La corte Eulex
Procedendo per gradi, non è sicuramente possibile sussumere condotte quali quelle avvenute in Kosovo nella prima fattispecie descritta dall’art. 601 c.p., nella nozione cioè di “tratta di persona che si trova nelle condizioni di cui all’art. 600 c.p.” (punibile a titolo di dolo generico), difettando la condizione di soggezione (formale o sostanziale) della vittima.
Parrebbe, viceversa, possibile ritenere che, quanto all’elemento oggettivo, tali condotte possano essere qualificate in termini di “costrizione mediante approfittamento di situazione di necessità”: ciò in quanto proprio la situazione di necessità conferirebbe connotazioni di “costrizione” ad una condotta (la trasferta in Kosovo al fine di sottoporsi ad espianto) apparentemente commessa in piena autonomia dalla vittima.
Più problematica, per converso, è l’individuazione nel caso di specie del dolo specifico postulato dalla norma, atteso che l’art. 601 c.p. richiede al riguardo la “finalità di commettere i delitti di cui al primo comma” dell’art. 600 c.p..
Va escluso, infatti, innanzitutto che nel caso di specie gli imputati abbiano fatto entrare le vittime in Kosovo “al fine di esercitare su di essi poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà”, o che il loro scopo fosse stato quello di “ridurre o mantenere una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio”.
A mio avviso sarebbe altresì dubbia la possibilità di qualificare i fatti ai sensi dell’ultima delle ipotesi descritte dal primo comma dell’art. 600 c.p.: infatti il combinato disposto degli artt. 601 e 600 comma 1 c.p. avrebbe in tal caso il seguente tenore: “chiunque … al fine di mantenere una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola ... a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento … costringa (taluno) a fare ingresso nel territorio dello Stato”. Deve infatti escludersi che nel caso che si discute gli imputati fossero animati dal dolo di “mantenere le vittime in stato di soggezione continuativa”. Ciò è sufficiente ad escludere la sussumibilità della fattispecie.
Pare doversene concludere che fatti come quelli avvenuti in Kosovo esulerebbero, ove commessi in Italia, dall’area di illiceità penale ex art. 601 c.p. (impregiudicata, ovviamente, la integrazione di altre fattispecie penalmente rilevanti, ad esempio ai sensi del combinato disposto degli artt. 583-585 c.p.).
Una ultima notazione è opportuna sotto il profilo del diritto sostanziale: la Corte di Pristina, a fronte della tratta di ventiquattro persone in Kosovo per finalità di espianto di reni, ha ritenuto la integrazione di una unica condotta. Su tale opzione interpretativa nutro riserve, in quanto la natura strettamente personale del bene giuridico tutelato avrebbe a mio avviso suggerito la qualificazione in termini di plurimi reati in continuazione.
2. Le testimonianze anonime
La sentenza della Corte di Pristina presenta elementi di interesse anche dal punto di vista processuale.
Essa, infatti, ha basato la condanna su due pilastri principali: sotto il profilo documentale, le risultanze della perquisizione compiuta il 4 novembre (nel corso della quale erano state sequestrate cartelle cliniche che confermavano buona parte degli interventi eseguiti). Sotto il profilo della prova orale, le deposizioni delle vittime e di alcuni beneficiari dei trapianti.
Entrambi tali pilastri presentano aspetti di criticità, che la Corte ha in un caso lungamente esaminato in motivazione (ci si riferisce alle questioni relative alla perquisizione presso la Clinica Medicus), e nell´altro caso ha sostanzialmente negletto (anche se, va detto, non risulta che le difese si fossero a loro volta soffermate sul punto).
Ritengo opportuno sorvolare sul primo aspetto (che pure offre vari spunti di riflessione, se non altro per il fatto di avere ritenuto utilizzabili a fini probatori le cartelle cliniche sequestrate nel corso di una perquisizione dichiaratamente illegittima, sulla base del fatto che alla perquisizione erano presenti insieme agli ufficiali di Polizia anche alcuni ufficiali del National Health Institute, ciò rendendo, ad avviso della Corte, il sequestro valido sotto il profilo amministrativo – sanitario e rendendone possibile l’utilizzabilità in sede processuale).
Nettamente più interessanti appaiono le vicende relative alle testimonianze delle vittime e dei beneficiari dei trapianti e, più in generale, le questioni relative alla valutazione delle risultanze istruttorie del processo.
Innanzitutto, la Corte di Pristina a fronte dei ventiquattro espianti di rene ipotizzati, ha avuto la possibilità di esaminare solo sette dei “donatori” e nove dei beneficiari. Sulla base della prova raccolta in concreto con riferimento a tali nove casi, è stata ritenuta raggiunta la prova anche per gli altri 15 reati. Ciò in ragione, in sintesi:
- delle risultanze delle cartelle cliniche;
- della deposizione del personale della clinica Medicus (che, peraltro, non ha fornito conferme specifiche in relazione ai casi in ordine ai quali non erano state esaminate le vittime o i beneficiari);
- della stretta analogia commissiva tra tutti i casi esaminati.
Inoltre, di tali sette deposizioni ben sei sono state assunte nella forma della testimonianza anonima, tra l’altro per lo più facendo ricorso a videoconferenza internazionale per via rogatoria: si tratta di deposizioni di cui lo stesso collegio giudicante ha affermato la essenzialità ai fini del decidere.
Innanzitutto il codice penale kosovaro espressamente prevede la possibilità per il pre trial judge di disporre la testimonianza in forma anonima, al verificarsi di precise condizioni (si veda l’art. 171 del codice di procedura penale del Kosovo, riportato in calce), in particolare:
- l’esistenza di un “serious risk” per il testimone;
- l’impossibilità di impedire contenere tale rischio senza il ricorso all’anonimato;
- una (delicata) valutazione in ordine alla prevalenza dell’interesse alla deposizione anonima sull’interesse alla conoscenza della identità del teste.
Evidente l’interesse per il giurista italiano di tale disposizione di natura “generale”, inesistente nel nostro ordinamento.
Ora, è a tutti nota la ormai risalente elaborazione giurisprudenziale della Corte Europea dei Diritti dell´Uomo in relazione all´art. 6 comma 3 lettera D della Convenzione Europea in materia di testimonianza anonima.
E’ risaputo, in particolare, l´orientamento assai restrittivo adottato dalla CEDU al riguardo: anche nei casi decisi dalla Corte in cui era stata affermata la legittimità del ricorso alla testimonianza anonima, ciò era stato fatto solo all’esito di una valutazione approfondita in ordine al fatto se la corte dello Stato membro avesse verificato con “most searching scrutiny” se l´”handicap” al quale era stata sottoposta la difesa per il fatto di non avere avuto modo di esaminare in modo esaustivo il testimone (non conoscendone l’identità) fosse stato adeguatamente controbilanciato in sede processuale.
Chi abbia un minimo di dimestichezza con la giurisprudenza della CEDU sa come le motivazioni delle decisioni di Strasburgo sul punto siano esigenti nel valutare la esistenza e adeguatezza di tali contrappesi in favore della difesa.
Ed in ogni modo, pur ritenuta la ammissibilità del ricorso alla testimonianza anonima, l’elaborazione giurisprudenziale della Corte si è da subito attestata su un esigente criterio di valutazione della prova[1], affermandosi in sintesi che la prova anonima non può mai essere il perno principale dell’impianto probatorio (si vedano le sentenze CEDU dal caso Kostovski vs Olanda in poi).
Tale regola di valutazione è contenuta espressamente nel codice di procedura penale kosovaro e, comunque (ulteriore peculiarità del sistema processuale kosovaro) la Costituzione del Kosovo all’art. 22 fa rinvio unilaterale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (di cui il Kosovo non è – ancora – parte) ed afferma espressamente la sua prevalenza sulle leggi ordinarie nazionali.
Sorprende che la Corte di Pristina non abbia ritenuto la necessità di spendere neppure una parola al fine di giustificare la anonimità di molti dei testimoni d’accusa (segnatamente sotto il profilo della sussistenza di un “rischio grave” per essi).
Sorprende che nessuna eccezione processuale sia stata al riguardo sollevata dalle difese.
Va notato, peraltro, che il caso di specie presenta caratteristiche che in casi consimili la Corte EDU ha valorizzato al fine di ritenere la fairness del procedimento. Ci si riferisce, soprattutto, al fatto che le identità dei testimoni, pur escussi in forma anonima, erano note in precedenza agli imputati ed all’organo procedente, ciò che fa ricadere il caso di specie tra le forme “attenuate” di anonimato (cfr. sentenza CEDU nel caso Papadakis vs Repubblica di Macedonia del 26.2.2013)
Inoltre, la Corte ha valorizzato ai fini probatori alcuni importantissimi riscontri, quali il dato documentale acquisito durante la perquisizione nella clinica Medicus (cartelle cliniche e, soprattutto, logs anestesiologici, che hanno confermato “il nome dei pazienti, la data dell’operazione, il nome degli anestesiologi, il nome del chirurgo, il tipo di operazione”).
Si noti, peraltro, che è stato in modo condivisibile affermata, in sede internazionale, la sostanziale inutilità del ricorso alla testimonianza anonima in tutti quei casi in cui l’imputato aveva pregressa conoscenza della vittima e la deposizione della vittima sia di per sé individualizzante (ed il caso qui in commento sembra proprio rientrare in tale categoria).
Si afferma al riguardo (cfr. UNODC, Witness Protection Manual, 2008) quanto segue: “Keeping some or all of a witness’s identity details hidden from the defence and the public can be an effective means of protection in the rare cases where the substance of the testimony itself does not identify the witness to the defence and the testimony is corroborated by other evidence”.
Si noti che ove dovesse ritenersi provata la sostanziale inutilità, nel caso di specie, della misura protettiva, potrebbe automaticamente ritenersi carente uno dei requisiti previsti dal codice kosovaro per la sua applicazione.
Infine, taluni beneficiari ed una delle vittime sono stati escussi secondo le forme ordinarie, ed essi hanno descritto situazioni in tutto e per tutto analoghe a quelle descritte dai testi anonimi.
E’ proprio in base a tale identità di modalità esecutive e, soprattutto, in base alle chiare risultanze documentali, che il Collegio ha potuto ritenere provate anche le condotte per le quali non erano stati escussi specifici testimoni, superando l’assenza di prova testimoniale diretta con riferimento alla restante parte dei trapianti.
INFORMAZIONI ESSENZIALI
1. Art. 139 del Codice Penale del Kosovo (art. 171 in seguito alla riforma del 2012), parr. 6 e seguenti:
6. For the purposes of this Article and Article 172 of this Code expressions below shall have the following meaning:
6.1. Trafficking in persons - the recruitment, transportation, transfer, harboring or receipt of persons, by threat or the use of force or other forms of coercion, abduction, fraud, deception, the abuse of power or the abuse of a position of vulnerability or the giving or receiving of payments or benefits to achieve the consent of a person having control over another person, for the purpose of exploitation.
6.2. Exploitation - as used in sub-paragraph 6.1 of this paragraph shall include, but not be limited to, prostitution of others, pornography or other forms of sexual exploitation, begging, forced or compulsory labour or services, slavery or practices similar to slavery, servitude or the removal of organs or tissue.
6.3. The consent of a victim of trafficking in persons to the intended exploitation shall be irrelevant where any of the means set forth in sub-paragraph 6.1. of this paragraph have been used against such victim.
6.4. The recruitment, transportation, transfer, harboring or receipt of a child for the purpose of exploitation shall be considered “trafficking in persons” even if this does not involve any of the means set forth in subparagraph 6.1. of this article.
2. Art. . 171 del codice di procedura penale del Kosovo in vigore all’epoca del processo:
…
(3) The judge can only issue an order for anonymity if he or she first finds that:
1) There exists a serious risk to the witness or his or her family member and the complete anonymity of the witness is necessary to prevent such serious risk;
2) The testimony of the witness is relevant to a material issue in the case so as to make it unfair to compel the defence to proceed without it;
3) The credibility of the witness has been fully investigated and disclosed to the judge in a closed session; and
4) The need for anonymity of the witness to provide justice outweighs the effect of
the interest of the public, the injured party, the subsidiary prosecutor or the private prosecutor and their legal representatives or authorized representatives in knowing the identity of the witness in the conduct of the proceedings.
3. La CEDU ha costantemente ricompreso tra i casi di possibile ricorso alla testimonianza anonima – sussistendone tutte le condizioni - quelli in cui i testimoni erano vittime dei reati che avevano fondato motivo di temere rappresaglie o vendette da parte dell’imputato (si veda ad esempio Van Mechelen vs. Olanda (1997)), fermo restando che la Corte richiede “good evidence that fear is justified” (Visser vs Olanda, 2002): si noti, per inciso, che nella sentenza qui in commento non constano passaggi motivazionali volti ad esplorare tale fondamentale aspetto.
A tale “regola di ammissibilità” si abbina la regola di valutazione risultante dalla pluriennale elaborazione giurisprudenziale della CEDU.
L’indirizzo interpretativo pare essersi consolidato nel senso della “solely or to a decisive extent rule”: si afferma, cioè, che anche quando il ricorso alla testimonianza anonima può ritenersi giustificato, nondimeno la decisione di condanna non può basarsi “in modo decisivo” (da intendersi, a mio avviso, nel senso di “preponderante”) sul tale testimonianza (si veda al riguardo la sentenza Al Khawaja and Tahery vs UK del 2011, che ripercorre l’evoluzione del principio a cominciare dalla fondamentale sentenza Doorson vs Olanda del 1996).
[1]Per quanto qui interessa, la CEDU ha costantemente ricompreso tra i casi di possibile ricorso alla testimonianza anonima – sussistendone tutte le condizioni - quelli in cui i testimoni erano vittime dei reati che avevano fondato motivo di temere rappresaglie o vendette da parte dell’imputato (si veda ad esempio Van Mechelen vs. Olanda (1997)), fermo restando che la Corte richiede “good evidence that fear is justified” (Visser vs Olanda, 2002). A tale “regola di ammissibilità” si abbina la regola di valutazione risultante dalla pluriennale elaborazione giurisprudenziale della CEDU.
L’indirizzo interpretativo pare essersi consolidato nel senso della “solely or to a decisive extent rule”: si afferma, cioè, che anche quando il ricorso alla testimonianza anonima può ritenersi giustificato, nondimeno la decisione di condanna non può basarsi “in modo decisivo” (da intendersi, a mio avviso, nel senso di “preponderante”) sul tale testimonianza (si veda al riguardo la sentenza Al Khawaja and Tahery vs UK del 2011, che ripercorre l’evoluzione del principio a cominciare dalla fondamentale sentenza Doorson vs Olanda del 1996). Non va dimenticato, peraltro che nella giurisprudenza della Corte Europea è dato rinvenire casi – tutto sommato isolati - nei quali pare essere stato adottato un approccio ancora più rigoroso. Si veda ad esempio il caso Luedi vs Svizzera, nel quale (paragrafo 47) la corte pare affermare l’inutilizzabilità delle deposizioni rese in forma anonima solo che queste abbiano avuto un ruolo (ancorché non decisivo) nel formare il convincimento del giudice: “47. The Court notes in addition that while the Swiss courts did not reach their decisions solely on the basis of Toni’s written statements, these played a part in establishing the facts which led to the conviction”.