1. Mi fa piacere commentare le prime pronunce avutesi sul nuovo art. 342 c.p.c. su una rivista quale Questione giustizia perché l’ultima riforma sull’appello è stata considerata da molti qualcosa che divide giudici e avvocati, favorevoli gli uni e contrari gli altri, mentre io credo che si tratti di qualcosa di più profondo, di un intervento che si inserisce in un contesto sempre più grave della nostra giustizia, e sul quale uno scambio di opinioni tra giudici e avvocati, e non invece un contrasto a priori, è necessario.
I numeri stanno sconvolgendo la nostra vita: i numeri delle cause, che stanno pregiudicando il lavoro dei giudici; e il numero degli avvocati, che sta compromettendo il lavoro, e financo l’immagine, degli avvocati.
Troppe cause, troppi avvocati.
Non da oggi, il legislatore pensa di risolvere il problema mutando non tanto il processo civile quanto piuttosto il modo con il quale i giudici e gli avvocati devono lavorare.
L’art. 342 c.p.c., a mio parere, è l’espressione più chiara e più forte di questa tendenza, ovvero è una disposizione che, senza mezzi termini, più che sulle regole del processo, incide sul lavoro deigiudici e degli avvocati.
Non a caso, sul c.d. filtro in appello, insieme al legislatore, si è mosso anche il CSM e il Ministero, perché considerato giustamente un aspetto anche organizzativo; e non sono mancate direttive e solleciti ai presidenti delle Corti affinché questi organizzassero gli uffici (rectius: mutassero le regole di lavoro negli uffici), in modo da rendere più efficienti le novità.
E’ fenomeno, pertanto, che impone una riflessione che va un po’ oltre la procedura civile, e che va fatta insieme, anche perché, ricordando Piero Calamandrei, non possono esistere buoni giudici senza buoni avvocati, e se il lavoro degli uni degenera, necessariamente degenera anche il lavoro degli altri.
Almeno sotto questo profilo, si voglia o no, siamo nella stessa barca.
2. Premesso ciò, veniamo al punto.
Come è noto, l’art. 342 c.p.c. ha fissato nuove regole per la stesura degli atti di appello e ha previsto che gli appelli che non soddisfino dette nuove condizioni siano dichiarati inammissibili.
La disposizione si applica anche al rito lavoro, e due sentenze rito lavoro hanno già provveduto a fissare alcune regole interpretative di detta nuova norma.
La Corte di Appello di Roma ha statuito che i ricorsi, per superare il vaglio di ammissibilità, devono contenere un profilo volitivo, cioè indicare espressamente le parti del provvedimento che si vogliono impugnare, per tali intendendosi non solo i capi della decisione, ma anche tutti i singoli segmenti o sottocapi che la compongono quando assumano un rilievo autonomo o di causalità rispetto alla decisioni, e poi devono contenere un profilo argomentativo, in quanto il ricorso deve suggerire le modifiche che il ricorrente vorrebbe fossero apportate al provvedimento con riguardo alla ricostruzione del fatto, e infine un profilo di causalità, dovendo il ricorso necessariamente evidenziare il rapporto di causa a effetto fra la violazione di legge denunciata e l’esito della lite.
La Corte di Appello di Salerno si è spinta oltre ed ha affermato, in modo chiaro e netto, che anche il nostro sistema, sulla falsariga di quello tedesco, ha “l’esigenza che l’appello sia redatto in modo più organico e strutturato proprio come una sentenza”, e che la parte appellante ha così il dovere diindicare “con inequivocabile nettezza i motivi dell’evidenziato dissenso, proponendo essa stessa un ragionato progetto alternativo di decisione fondato su precise censure rivolte alla sentenza di primo grado”.
Ha precisato che la nuova norma “obbliga l’appellante ad indicare in primo luogo le parti della sentenza delle quali chiede la riforma, nonché le modifiche richieste, sicché………..il lavoro assegnato al giudice dell’appello appare alquanto simile a un preciso e mirato intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza di cui si imponga l’emendamento, con conseguente innesto –che appare quasi automatico, giusta l’impostazione dell’atto di appello- delle parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado”.
E, si è aggiunto che, da una cosa del genere, “appaiono evidenti le facilitazioni e lo sveltimento del lavoro del giudice che ne possono derivare, potendo il decidente individuare con immediatezza e senza studi defatiganti, sia le richieste tendenti ad un effetto demolitorio di precise parti della decisione impugnata, sia le richieste, sorrette da specifica e adeguata motivazione critica, tendenti con stretta corrispondenza anche espositiva ad un effetto sostitutivo e, come si è appunto detto, altrettanto “chirurgicamente” preciso di tali parti con le parti indicate dall’appellante, il che si armonizza anche con la funzionalità di editing redazionale consentite sul piano informatico dal processo civile telematico”.
Conclude la Corte di Appello di Salerno asserendo che la ragionevole durata del processo “può essere ottenuta solo esigendo il rispetto da parte dell’appellante dei predetti oneri formali” in modo che il giudice non “sia costretto a disperdere tempo prezioso ed energie, a discapito di altre risposte di giustizia”, visto che l’obiettivo di contenere la durata dei processi ha “incidenza diretta sulla finanza pubblica” e la durata dei processi costituisce “come osservato da importanti organizzazioni nazionali e internazionali, un formidabile disincentivo allo sviluppo degli investimenti nel nostro paese”.
Sostanzialmente, se mi è consentito riassumere la posizione, a me sembra questa: tu appellante, se impugni una sentenza che non ti va, mi devi predisporre una bozza della sentenza che ti andrebbe, completa di dispositivo e parte motiva; io giudice, in questo modo, risparmio tempo nel studiarmi la questione, e posso, se ritengo tu abbia ragione, con operazione meramente chirurgica e di innesto conforme al nuovo processo civile telematico, trasformare la tua bozza nell’effettiva sentenza di appello; invece, se tu appellante non predisponi la bozza di sentenza alternativa a quella che impugni, io giudice ti dichiaro inammissibile l’impugnazione, e ciò per l’evidente ragione che non posso “disperdere tempo prezioso ed energie” nel mettermi alla “ricerca di elementi che la parte ben può e deve fornire in maniera ordinata e puntuale”; il tutto, infine, in conformità al § 520 ZPO tedesca e per ridurre la durata dei processi.
3. Forse il riassunto che ho fatto è crudele, ma la sostanza è questa, è inutile nasconderci dietro un dito.
E allora la domanda è la seguente: veramente dobbiamo pensare che da oggi il lavoro degli avvocati è quello di scrivere le sentenze e il lavoro dei giudici è quello di “chirurgicamente” fare “innesto” di pezzi scritti da avvocati, in ciò favoriti dal processo telematico e dal “copia e incolla” che il programma word consente?
Siamo arrivati a questo punto?
Ebbene, farei un passo indietro, per descrivere questi passaggi, dividendo il tutto in tre ipotetici momenti.
Primo momento.
L’avvocato impugnante ha oggi un lavoro un più che prima non aveva, e che è quello di far sì che il suo atto di impugnazione superi il varco di ammissibilità.
Si tratta, a ben vedere, di una fase che possiamo considerare pre-processuale, perché prima ancora di valutare gli aspetti processuale e di merito della controversia, l’avvocato impugnante deveproprio controllare che l’atto di impugnazione sia ammissibile in base alle nuove norme e agli orientamenti giurisprudenziali che su queste vi sono.
Non si tratta, per l’avvocato appellante, solo di studio aggiuntivo, si tratta di una novità che incide nella composizione dell’atto, il quale, di regola, proprio per evitare critiche di insufficienza, sarà, a prescindere dalla qualità, senz’altro più abbondante e dettagliato di quelli che si leggevano in passato.
Ma la riflessione maggiore va fatta sull’avvocato appellato.
Ed infatti, sempre più avvocati, quando si trovano convenuti in un giudizio di impugnazione, prima ancora di affrontare la fondatezza o meno di essa sotto il profilo processuale e di merito, studiano semplicemente il profilo formale dell’atto, ovvero compiono una analisi che prescinde dall’oggetto del contendere e dal suo contenuto, perché infatti le nuove regole di ammissibilità rilevano solo sulpiano meramente formale dell’atto.
Questa analisi si concretizza normalmente in una difesa standard, poiché infatti le ragioni di inammissibilità sono oggi talmente tante e variegate e sganciate dall’oggetto del contendere, che,creato una volta lo schema, questo è facilmente riutilizzabile passando da causa a causa.
Questo meccanismo, già proprio del giudizio di cassazione, passa oggi dalla cassazione all’appellocon il nuovo art. 342 c.p.c
Si farà uno schema standard di memoria difensiva, che, con minime modifiche e con il “copia incolla”, sarà idonea ad essere riciclata da una causa all’altra.
Secondo momento.
A questo punto, con attività speculare, entra in gioco il giudice.
Il giudice dell’impugnazione, prima di ogni altro aspetto concernente l’impugnazione, valuta se la stessa è da considerarsi ammissibile, cosicché questo giudizio di ammissibilità entra nel giudizio, di nuovo, come una fase pre-processuale, ovvero un momento che anticipa ogni altro.
E, così come l’avvocato convenuto è in grado di additare l’atto introduttivo come inammissibile a prescindere dal contenuto di esso e dall’oggetto del contendere, lo stesso potrà fare il giudice, attraverso il solo controllo formale dell’atto di impugnazione e nient’altro.
Per fare tutto questo, il giudice dell’appello non avrà bisogno di studiarsi la causa, e non avrà bisogno di aprire il fascicolo, e questo conferma appunto la natura pre-processuale di questo giudizio.
Ed egualmente all’avvocato convenuto, anche il giudice potrà decidere con un modello standard di inammissibilità dell’appello, ovvero potrà decidere le varie impugnazioni con un provvedimentoche, con minime modifiche e con l’aiuto del “copia incolla”, potrà facilmente adattarsi passando da causa a causa.
Peraltro, il giudice, nel formulare questo giudizio, si troverà altresì in un certo imbarazzo, se non proprio in conflitto di interesse: perché se dichiara inammissibile l’impugnazione per una delleragioni indicate il processo si chiude, mentre in caso contrario ha l’onere di studiarsi le carte e di scrivere una sentenza di ben altro impegno.
Terzo momento.
Ad ogni modo, se il processo non si chiude, allora si passa al terzo momento.
Che fa il giudice in questa fase?
Procede alle operazioni chirurgiche: prende, con il “copia e incolla” pezzi dell’atto di appello che lo convincono, e con quelli compone la sentenza, sia nel dispositivo, sia, e soprattutto, nella parte motiva.
Potrà anche respingere nel merito l’impugnazione, ma si comprende che, con un meccanismo quale quello creato, questa eventualità sarà sempre più marginale e sempre meno probabile.
Diventando centrale lo studio formale dell’atto di appello, e non del fascicolo, sarà naturale che gli appelli ritenuti ammissibili trovino poi una qualche soddisfazione anche nel merito.
Mentre resterà del tutto incerto se gli appelli dichiarati inammissibili fossero o meno fondati nel merito.
4. Ci sono due cose che non mi convincono in tutto questo e che desidero evidenziare.
La prima è che nei giudizi di impugnazione, diversamente da quelli di primo grado, potremmo dire di esser passati, come nel cinematografo, in una fase tridimensionale: i processi non hanno più aspetti processuali e di merito; nelle impugnazioni, oltre a questi, v’è un terzo aspetto, preliminare agli altri, che è quello dell’ammissibilità.
Esso ormai si stacca e anticipa le questioni processuali, non è più nemmeno una questione processuale, perché si basa su regole formali di scomposizione e ricomposizione degli atti processuali, si muove per schemi standard, ed è aspetto completamento sganciato dai fatti di causa.
Questo “terzo aspetto” è così in grado di fermare impugnazioni magari assolutamente fondate nel merito, e parimenti in grado di mandar avanti impugnazioni invece totalmente infondate nel merito.
E’ un sistema sanzionatorio, basato però solo su formalità.
Non che la procedura, in taluni momenti, non abbia aspetti preliminari indipendenti rispetto al merito della causa; ma non sempre è così, e in ogni caso ogni processualista ha sempre sostenuto che la procedura serve a garantire valori fondamentali quali quelli di equilibrio tra azione e difesa, predeterminazione legale delle regole, terzietà e indipendenza del giudice, e non deve trasformarsi in uno strumento che consente di dar torto a chi ha ragione o viceversa, perché scopo del processo è sempre quello di decidere le questioni nel merito, non chiudere i processi in rito; e lo stesso codice,infatti, possiede norme, quali ad esempio l’art. 156, 3° comma c.p.c., volte appunto ad evitare che le regole del processo si trasformino in meccanismi di sviamento della decisione nel merito.
L’introduzione di questo “terzo aspetto”, invece, rivoluziona e supera, a mio parere in modo assai preoccupante, questa logica.
Il merito passa completamente in secondo piano, è solo una eventualità affatto scontata; che unoabbia ragione o torto non rileva nel modo più assoluto.
Il “terzo aspetto”, la nuova dimensione tridimensionale del processo, consente al giudice di procedere senza analisi del fascicolo, e senza un’idea del merito, con una analisi di composizione e scomposizione degli atti di impugnazione, e secondo modelli decisionali standard.
In questo modo si arriva senz’altro ad accelerare i tempi del giudizio, ma non possiamo non interrogarci sul prezzo che si deve pagare per ottenere un simile risultato.
E io credo che il prezzo da pagare sia troppo alto.
Credo che questo “terzo momento”, questa “nuova fase” del processo, non debba avere ingresso ne’ cittadinanza nel nostro sistema; credo che la procedura debba sganciarsi il meno possibile dal merito, e credo che i giudici debbano, per quanto è possibile, evitare che una regola processuale possa giovare a chi ha torto o danneggiare chi ha ragione.
Credo, soprattutto, che l’ammissibilità debba tornare a sottostare alle regole proprie della procedura civile, con un legislatore che si limita a fissare il contenuto degli atti processuali e non le modalità di composizione degli stessi, e con una sanzione che è quella della nullità, con tutte le conseguenze processuali che ne conseguono, e non quella afflittiva della inammissibilità.
E credo, infine, che la grave situazione nella quale le Corti di appello si trovano non giustifichi scelte legislative di questo tenore, perché se un appello deve essere deciso in questo modo, forse allora è meglio fare senza appello.
Il processo, mi permetto di sottolineare ancora, serve per rendere giustizia; se diventa solo un gioco di incastro di mosse e di atti, allora è meglio lasciar perdere.
La ragionevole durata del processo non può, nemmeno sul piano costituzionale, giustificareimbarbarimenti di questo genere, poiché non è l’unico valore costituzionale da tutelare, ma è solo un valore costituzionale insieme a tanti altri che stanno scritti a chiare lettere negli artt. 3, 24 e 111 Cost., e che parimenti non possono perdersi per strada in questo modo.
E trovo (consentitemi) retorico arrivare a far riferimento addirittura agli investimenti stranieri nel nostro paese per giustificare operazioni legislative quali la modifica dell’art. 342 c.p.c.
5. Il secondo aspetto che desidero evidenziare è quello della degenerazione del lavoro di giudici eavvocati.
Gli avvocati hanno il dovere di collaborare con il giudice al fine della realizzazione del giusto processo, e non c’è dubbio che molti atti di appello sono scritti malissimo e già con la precedente disciplina erano da considerare nulli e financo inammissibili per assoluta genericità delle doglianze. Parimenti non c’è dubbio che molti appelli hanno solo funzione dilatoria, aiutati in questo anche dauna non condivisibile giurisprudenza che ha esteso l’ambito delle sentenze prive della provvisoria esecuzione ex art. 282 c.p.c.
Arrivare però a sostenere che gli avvocati debbano scrivere progetti di sentenze intere mi sembra veramente un eccesso.
Non che gli avvocati, da tempo, non collaborino alla stesura di atti, visto che, normalmente, predispongono già (ad esempio) i decreti ingiuntivi ai giudici dell’ingiunzione, o le relate di notifica agli ufficiali giudiziari, o i verbali di udienza ai cancellieri, ecc…..
Ma scrivere un progetto di sentenza, peraltro a pena di inammissibilità, mi sembra qualcosa che rompe la dialettica e i ruoli che contrappongono le figure del giudice e dell’avvocato, rompe la dialettica tra il privato che chiede giustizia e il pubblico che deve renderla, tra il cittadino che ha l’onere di porre il problema, e lo Stato che ha il dovere di fornire la risposta.
Mi sembra addirittura una stravolgimento dello stesso concetto di azione, che, dai tempi del processo romano, si basa sulle nozioni di petitum e causa petendi, ovvero sull’idea che l’azione si basa (solo) sulla richiesta e sulle ragioni della richiesta.
Se noi, al contrario, introduciamo nell’atto di impugnazione anche l’esigenza di progettare la risposta, e non solo di porre correttamente la domanda, lo stesso concetto di azione a mio parere ne risente, ne subisce una degenerazione che poi rischia di estendersi come una metastasi agli istituti processuali che dipendono dall’azione, e con quella stanno in connessione.
Sinceramente, credo che imporre agli avvocati di redigere progetti di sentenza sia imporre loro una degenerazione del lavoro, che di nuovo non può trovare giustificazione nella ragionevole durata del processo, poiché non sono questi i modi per ridurre i tempi processuali.
Ma la degenerazione maggiore noi l’avremmo senz’altro sul lavoro del giudice.
Immaginare questo come un chirurgo, che, fra i vari progetti di sentenza preconfezionati dagli avvocati, sceglie quelli che più lo convincono, e con il ”copia e incolla” velocemente riesce a comporre la sentenza richiesta dalle parti, io lo trovo, se mi è consentita una parola forte, aberrante.
Credo che il ruolo del giudice dell’appello debba necessariamente essere diverso, e non possa assolutamente ridursi a questo.
Ne’ mi sembra che, con questo, c’entri molto il § 520 della ZPO tedesca.
E’ vero che il § 520 ZPO afferma che il ricorso in impugnazione deve essere motivato e precisa alcuni elementi che la motivazione deve necessariamente contenere: soprattutto la descrizione dellecircostanze che hanno dato luogo alla violazione di legge e i dubbi circa la completezza degli accertamenti di fatto della sentenza che si impugna e le ragioni che inducono ad una riforma della stessa.
Ed è parimenti vero che il nuovo art. 342 c.p.c. sembra richiamare, anche nel linguaggio, quel testo.
Sia consentito però ricordare che la Germania ha da sempre una norma di questo genere, che precedentemente stava nel § 519 ZPO.
Quella disposizione imponeva la stesura specifica dei motivi, con un testo analogo all’odierno, che però la parte poteva rendere o nell’atto introduttivo dell’impugnazione o in una speciale memoria successiva.
Ed anche oggi Caponi, che tra noi è il maggior conoscitore dell’ordinamento tedesco, ci ricorda che la giurisprudenza tedesca interpreta questi requisiti in modo abbastanza generoso, e così ritiene che, in relazione all’onere di individuare le parti del provvedimento impugnato, il mezzo di impugnazione debba intendersi nel dubbio come indirizzato a colpire l’intera decisione rispetto alla quale si registra la soccombenza dell’appellante.
In Germania una norma antica come il § 520 ZPO non può certo considerarsi deflattiva, essendo invece solo una norma di precisione, come precisi sono i tedeschi; è semplicemente una disposizione in base alla quale l’atto di impugnazione deve contenere in modo chiaro le ragioni di fatto e di diritto che giustificano la riforma della sentenza impugnata, come già per noi avveniva con il vecchio testo dell’art. 342 c.p.c. per diritto vivente.
Al contrario, oggi, un tenore letterale analogo a quello del § 520 ZPO, tende a trasformare il nuovo art. 342 c.p.c. in una norma deflattiva e sanzionatoria.
Ovviamente questi aspetti non possono essere approfonditi in questa sede, e tuttavia credo che nessuno immagini che il § 520 ZPO imponga agli avvocati tedeschi di scrivere le sentenze e ai giudici tedeschi di poter provvedere chirurgicamente a fare innesti di pezzi.
6. Che fare allora?
Per migliorare il servizio giustizia ci sono solo due modi: o si aumentano i giudici o si diminuiscono le domande.
Se non è possibile aumentare il numero dei giudici di appello, si devono diminuire gli appelli, ma non è questa, a mio parere, la strada da percorrere.
Io non troverei impossibile, e anzi la considererei la cosa più digeribile, quella di limitare i casi di appello, e non concedere più l’appello sempre e comunque a tutte le sentenze di primo grado.
In particolare il diritto di appellare potrebbe essere escluso per le cause di valore inferiore a € 50.000,00 e a quelle a valore indeterminato che non vedano la presenza obbligatorio del PM; negli altri casi di cause a valore indeterminato l’appello potrebbe essere subordinato a previa autorizzazione del giudice.
Sarebbe, questa, la riforma semplice, che tutti pensano, ma che nessuno ha il coraggio di esternare.
Ed infatti, se la crisi dell’appello è inizia con l’errata riforma del giudice unico, che ha portato nelle corti di appello appelli che precedentemente, avverso le sentenze dei pretori, si facevano in tribunale, questa riforma riequilibrerebbe il sistema; ne’ potrebbe essere considerata incostituzionale, stante la non copertura costituzionale del giudizio di appello.
Rimarrebbe il problema della ricorribilità ex art. 111 Cost. delle sentenze inappellabili.
Io credo si potrebbe escludere anche il ricorso per cassazione avverso sentenze non appellabili, a seguito di una riforma di questo genere.
Ma questo è un discorso più complicato, che non può essere fatto in questa sede.
Altrimenti, si potrebbe abolire del tutto l’appello, rafforzando però il giudizio di cassazione.
In particolare, secondo una proposta che ho già formulato, si potrebbe assicurare l’efficienza del giudizio di cassazione creando sezioni distaccate della cassazione nei luoghi in cui storicamente già sedevano corti di cassazione (Torino, Firenze, Napoli, Palermo), e lasciando però intatta la funzione di nomofilachia a Roma, ove rimarrebbero, oltre alle sezioni semplici, le sezioni unite (già oggi, d’altronde, nella sostanza, la nomofilachia è assicurata dalle sezioni unite).
In questo modo il cittadino non avrebbe più l’appello, ma avrebbe una cassazione efficiente e prossima al territorio, e potrebbe comunque contare sulla nomofilachia assicurata dalle pronunce in Roma delle sezioni unite.
Quello che in ogni caso eviterei, è la situazione che si sta delineando, anche perché, oltre a degenerare il lavoro dei giudici e degli avvocati, rischia di essere l’ennesima riforma inutile, simile a quella dell’art. 366 bis c.p.c. in tema di ricorso per cassazione.
Quando si vuole contrarre la domanda lavorando sulle formule degli atti, l’insuccesso è garantito:perché, par evidente, anche in questo caso, gli avvocati impareranno a scrivere progetti di sentenze di appello, e il nuovo art. 342 c.p.c. non avrà più così alcuna funzione deflattiva.