1. Introduzione
Dopo il celebre caso Urgenda vs. Paesi Bassi[1], che ha aperto la stagione dei contenziosi climatici contro gli Stati, dinanzi alle corti olandesi si è celebrato un altro importantissimo contenzioso climatico: quello lanciato dalla ONG olandese Milieudefensie (oltre che da altre ONG e da ben 17.379 cittadini olandesi) contro Royal Dutch Shell Plc[2], d’ora in poi indicata per brevità con “Shell” o “RDS”.
Ancorché la suddetta società sia stata la protagonista di questa vicenda giudiziaria, la sua posizione non è diversa rispetto a quella di altre imprese che operano nel medesimo settore (estrazione e commercializzazione dei combustibili fossili); da qui, l’importanza riconosciuta al contenzioso, il cui cuore ruota intorno alle seguenti questioni:
1) la Shell (e, in generale, le imprese che operano nel medesimo settore) hanno l’obbligo di tagliare le emissioni?
2) In caso affermativo, qual è la fonte di tale obbligo?
3) Qual è il target di riduzione che si deve perseguire?
4) Quali sono le tipologie di emissioni da ridurre?
2. La sentenza di primo grado
La Corte Distrettuale dell’Aja, con sentenza del 26 maggio 2021[3], ha accolto la domanda ordinando alla Shell (ovvero, a tutte le società del gruppo) di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 prodotte del 45% rispetto ai livelli del 2019.
La Corte perviene a tale conclusione con un articolato ragionamento, che prende le mosse dai tanti e gravi effetti negativi (impatti) del cambiamento climatico per la popolazione olandese, in particolare per la popolazione che abita la zona del Wadden Sea, la quale è considerata particolarmente vulnerabile ed esposta al rischio di inondazioni. Nel descrivere tali effetti, la Corte fa largo uso dei report dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change[4]), evidenziando come il cambiamento climatico sia un potenziale fattore di rischio per la collettività in virtù delle ripercussioni che i suoi impatti hanno sui diritti umani fondamentali, quali il diritto alla vita, alla salute, ad un ambiente salubre, a una vita dignitosa.
Partendo da questo assunto, la Corte distrettuale ha riscontrato la violazione da parte di Shell del Libro 6 Sezione 162 del codice civile olandese[5], il quale testualmente al secondo comma prevede che: «E’ considerato un atto illecito la violazione di un diritto altrui e un’azione o un’omissione in violazione di un dovere imposto dalla legge o di ciò che secondo la legge non scritta deve essere considerato un comportamento sociale corretto, sempre nella misura in cui non vi sia alcuna giustificazione per tale condotta».
Tale norma impone un generale “duty of care” (dovere di diligenza) anche per le imprese, avendo riguardo non solo alle norme positive, ma anche alle regole che – ancorché non scritte – riflettono un sistema di valori riconosciuti come socialmente dovuti. Attraverso tale norma, la Corte distrettuale conferisce un valore giuridico al principio – posto a carico delle imprese da una serie di strumenti di soft law – di evitare che la propria attività produca impatti negativi sui diritti fondamentali.
Quali sono questi strumenti di soft law?
La Corte cita i Principi Guida delle Nazioni Unite[6] (UNPG), il Global Compact delle Nazioni Unite[7] (UNGC) e le Linee Guida per le imprese multinazionali dell’OCSE[8], tutti strumenti che stabiliscono le responsabilità delle imprese in relazione ai diritti umani, ricostruendo così un dovere di diligenza in capo a Shell di evitare che le proprie attività incidano sui diritti umani travolti. Nel settore del cambiamento climatico, tale dovere di diligenza comporta per le imprese di dover allineare le proprie politiche climatiche, e quindi i propri livelli di emissioni, agli scenari compatibili con il raggiungimento dei target stabiliti dall’Accordo di Parigi (ovvero il contenimento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°, preferibilmente entro 1,5°).
Nello specifico, la Corte ha ritenuto che le emissioni di CO2 che il gruppo Shell ha pianificato di produrre nel proprio piano industriale fossero non in linea con gli scenari sopra indicati.
Il passaggio è cruciale per cui vale la pena di far parlare direttamente la Corte. Nel paragrafo 2.3.5.2. la Corte rileva che «nel rapporto SR15[9], l’IPCC conclude che il riscaldamento globale raggiungerà probabilmente 1,5°C tra il 2030 e il 2052 se l’aumento continuerà al livello attuale. I rischi legati al clima per l’uomo e la natura saranno più elevati rispetto ad oggi con un riscaldamento globale di 1,5°C, ma più bassi con 2°C. I rischi dipendono dall’entità e dal tasso di riscaldamento globale, dalla posizione geografica, dai livelli di sviluppo e di vulnerabilità e dalle scelte e dall'attuazione delle opzioni di adattamento e mitigazione. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, il rapporto afferma che le emissioni globali dovranno essere ridotte a molto meno di 35 Gt Co2-eq entro il 2030. L’IPCC sottolinea inoltre che la metà dei modelli utilizzati mostra che le emissioni globali dovrebbero essere ridotte tra 25 e 30 Gt Co2-eq nel 2030. Il rapporto afferma che, in conseguenza di questi risultati, limitare il riscaldamento globale a 1,5°C richiede una riduzione netta del 45% delle emissioni globali di CO2 nel 2030».
Ciò premesso, la Corte ritiene che, al fine di rispettare lo standard di diligenza non scritto nell’ambito del cambiamento climatico, (par. 4.4.38) «per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, si dovrebbero scegliere percorsi di riduzione che riducano le emissioni di CO2 del 45% netto nel 2030, rispetto ai livelli del 2010, e del 100% netto nel 2050. Con le sue affermazioni, Milieudefensie et al. non segue i livelli del 2010, ma prende come anno di riferimento il 2019, quando è stata emessa la citazione in giudizio in questo procedimento. L’argomentazione di RDS secondo cui il 2019 o un altro anno di riferimento non è appropriato e suggerisce erroneamente una situazione statica, non tiene conto del fatto che è necessario un anno di riferimento per stabilire un obiettivo di riduzione. Milieudefensie et al. hanno ragione ad affermare che l’anno di riferimento 2019 avvantaggia RDS, perché le emissioni di CO2 del gruppo Shell – che non sono contestate – erano più alte nel 2019 che nel 2010. RDS mostra in un calcolo esemplificativo che un obbligo di riduzione del 45% basato sulle maggiori emissioni di CO2 nel 2019 in termini assoluti (cioè il numero di Gt da ridurre) porta a un obbligo di riduzione maggiore e anche a maggiori emissioni consentite. Tuttavia, per arrivare al 45% delle emissioni di CO2 del 2010 nella situazione attuale, in cui le emissioni di CO2 del gruppo Shell sono aumentate dal 2010, è necessario raggiungere una riduzione delle emissioni di CO2 molto maggiore di quella calcolata da RDS. Un obiettivo di riduzione con il 2019 come anno di riferimento, sebbene meno ambizioso, corrisponde sufficientemente al consenso ampiamente condiviso sul fatto che limitare il riscaldamento globale a 1,5°C richiede una riduzione netta del 45% delle emissioni globali di CO2 nel 2030 rispetto al 2010 e una riduzione netta del 100% nel 2050».
Non avendo pianificato una politica climatica in linea con quanto le evidenze scientifiche ritengano necessario (ovvero, perseguendo un livello di emissioni superiore a quello che le evidenze scientifiche ritengono compatibile) per il raggiungimento dei target stabiliti dall’Accordi di Parigi, la Shell – secondo la Corte Distrettuale dell’Aja – ha violato il proprio dovere di diligenza, con conseguente condanna alla riduzione, da realizzarsi entro il 2030, delle emissioni di CO2 dell’intero gruppo del 45% rispetto ai livelli del 2019.
Ma di quali emissioni stiamo parlando? Cosa rientra nel livello aggregato di emissioni che la Corte ha ordinato di ridurre?
Le emissioni tradizionalmente vengono divise in tre categorie[10]:
1. le emissioni dirette (Scope 1): sono quelle prodotte direttamente dall’impresa tramite l’uso di combustibili fossili (ad esempio, per il riscaldamento dei suoi locali, per i trasporti, ecc.)
2. le emissioni indirette (Scope 2): sono quelle generate dall’energia (prodotta da terzi) acquistata e consumata dall’azienda;
3. le ulteriori emissioni indirette (Scope 3): ovvero, le altre emissioni generate lungo tutta la catena del valore da soggetti terzi, compresi gli utenti finali.
E’ chiaro che per una impresa come la Shell, che produce e commercializza combustibili fossili, le emissioni Scope 3 costituiscono la fonte principale (all’epoca della sentenza di primo grado, circa l’85% delle emissioni totali), e sono – a parere della società – diretta conseguenza delle scelte degli utenti finali (ovvero, i consumatori che acquistano la benzina e gli altri combustibili).
Ciò non esime l’impresa, a parere della Corte, dall’essere ritenuta responsabile anche per questa tipologia di emissioni. E difatti (par. 4.4.19): «nella sua interpretazione dello standard di diligenza non scritto, la Corte ha incluso anche la necessità, diffusa e sostenuta a livello internazionale, che le imprese si assumano realmente la responsabilità delle emissioni Scope 3. Questa necessità è tanto più sentita in quanto costituiscono la maggior parte delle emissioni di CO2 di un’impresa, come nel caso delle imprese che producono e vendono combustibili fossili. Nel caso del gruppo Shell, circa l'85% delle sue emissioni sono emissioni Scope 3».
Poi, prosegue la Corte nel par. 4.4.20, «ci si aspetta che le imprese identifichino e valutino qualsiasi impatto negativo reale o potenziale sui diritti umani in cui possono essere coinvolte attraverso le loro attività o come risultato delle loro relazioni commerciali. Indipendentemente dall'entità del suo controllo e della sua influenza su queste emissioni, ci si aspetta che RDS identifichi e valuti gli effetti negativi delle sue emissioni da Scope 1 a Scope 3».
Shell ha impugnato la sentenza.
3. La sentenza di secondo grado
Con sentenza del 12 novembre 2024[11], la Corte d’Appello dell’Aja ha accolto l’appello proposto da Shell, annullando parzialmente la sentenza di primo grado.
E’ stato un trionfo per la società (ed in generale, per le imprese che producono combustibili fossili)?
A detta di molte testate giornalistiche, o presunte tali, sì: tra le varie, si riportano le parole della CNN: «La Corte stabilisce che questa grande compagnia petrolifera può continuare a inquinare[12]»; del Financial Times: «Una vittoria della capacità delle aziende energetiche di respingere gli attacchi degli attivisti in tribunale[13]»; del Sole 24 Ore: «Shell sconfigge gli ambientalisti: non dovrà tagliare del 45% le emissioni[14]»; del Foglio: «Per la corte d'appello dell'Aia gli obblighi imposti all’azienda erano arbitrari, asimmetrici e inefficaci. Ambientalisti sconfitti, anche per le ricadute negli altri paesi europei[15]».
Ma è proprio così?
Analizziamo nel dettaglio la sentenza.
Preliminarmente, va detto che Shell aveva eccepito che la problematica relativa al se le imprese debbano o meno ridurre le proprie emissioni è una questione politica, che non può essere trattata dinanzi ad un Tribunale, anche perché su di esse non esiste un consenso unanime. La Corte d’Appello sul punto ha rilevato che, ancorché il tema sia trattato anche dal potere politico, lo stesso può essere sottoposto all’autorità giudiziaria relativamente alla ricostruzione ed ai limiti dell’obbligo giuridico di riduzione della CO2 (par. 6.8): «Se tale obbligo giuridico può essere identificato, il fatto che debbano essere fatte scelte politiche per combattere i cambiamenti climatici pericolosi e il fatto che non tutti siano d’accordo su tali scelte non osta all’ammissibilità di un contenzioso nell’interesse della collettività».
Shell inoltre ha dedotto che qualsiasi decisione sulla riduzione delle emissioni di CO2 dev’essere di competenza esclusiva del legislatore – e non può essere demandata ad un Tribunale – in quanto il cambiamento climatico e la transizione energetica richiedono un bilanciamento di interessi che solo il legislatore può fare.
La Corte d’Appello non condivide questa impostazione e ritiene (par. 7.53) che «le misure adottate dal legislatore per ridurre le emissioni di CO2 non sono di per sé esaustive. Né il legislatore europeo, né quello olandese, hanno stabilito che le società che rispettano i programmi esistenti per il contrasto ai cambiamenti climatici non possano avere l’obbligo di ridurre ulteriormente le proprie emissioni di CO2. […] Pertanto, gli obblighi derivanti dalle normative esistenti non precludono un dovere di diligenza basato sullo standard sociale di cura da parte delle singole aziende per ridurre le loro emissioni di CO2», che legittimano eventuali provvedimenti di condanna, da parte dell’autorità giudiziaria, nell’ipotesi in cui tale dovere di diligenza dovesse risultare violato.
Nel merito, la Corte di Appello parte con il chiarire che (par. 7.17): «non c'è dubbio che la protezione dai cambiamenti climatici pericolosi sia un diritto umano» e (par. 7.24) che «sebbene le disposizioni (dei trattati) in materia di diritti umani siano principalmente rivolte al governo, ciò non toglie che possano avere un impatto sulle relazioni di diritto privato, dando sostanza a standard aperti, come lo standard sociale di cura».
Poi, passa a dichiarare (par. 7.25) che: «non c’è dubbio che il problema del clima sia la più grande questione del nostro tempo. La minaccia posta dal cambiamento climatico è così grande che potrebbe mettere a repentaglio la vita in diversi luoghi della Terra e inizierà ad avere un impatto profondo e negativo sull’esistenza umana e animale in molti altri luoghi. Il cambiamento climatico danneggia i diritti tutelati dagli articoli 2 e 8 della CEDU, sia nei Paesi Bassi che all’estero, e li danneggerà ulteriormente. Questi diritti sono decisivi anche per l’interpretazione dello standard sociale di cura e per rispondere alla domanda su cosa si possa richiedere a Shell, in quanto grande azienda internazionale, in base a tale standard».
Sulla base di questo assunto, la Corte passa a definire le responsabilità di Shell (e delle imprese che operano nel settore dei combustibili fossili) dichiarando (par. 7.26) che: «è un fatto assodato che il consumo di combustibili fossili è in gran parte responsabile della creazione del problema climatico e che affrontare il cambiamento climatico è qualcosa che non può aspettare. Per combattere il pericolo rappresentato dal cambiamento climatico, tutti hanno una responsabilità. Per adempiere a tale responsabilità, l'attenzione non si concentra esclusivamente sugli Stati. Soprattutto le aziende i cui prodotti hanno contribuito alla creazione del problema climatico e che hanno il potere di contribuire a combatterlo sono obbligate a farlo nei confronti degli altri abitanti della Terra, anche quando le norme (di diritto pubblico) non le obbligano necessariamente a farlo. Ciò deriva dagli strumenti discussi in precedenza, comprese le linee guida dell'OCSE e l'UNGP, che Shell ha sottoscritto. Tali strumenti attribuiscono la responsabilità della protezione contro i cambiamenti climatici pericolosi anche alle (grandi) imprese e le invitano ad adottare esse stesse misure adeguate per contrastare i cambiamenti climatici pericolosi», per cui (par. 7.27) «le imprese come la Shell, che contribuiscono in modo significativo al problema del clima e hanno la possibilità di contribuire a combatterlo, hanno l'obbligo di limitare le emissioni di CO2 per contrastare i cambiamenti climatici pericolosi, anche se tale obbligo non è esplicitamente previsto dalle normative (di diritto pubblico) dei paesi in cui l'impresa opera. Le aziende come Shell hanno quindi la loro responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi dell'Accordo di Parigi».
Poi la Corte, incidenter tantum, effettua un passaggio sull’impatto che potrebbe avere su tale obbligo incombente sulla Shell (e su tutte le imprese che operano nel settore) la scelta di portare avanti progetti estrattivi relativi a nuovi giacimenti di petrolio e gas (par. 7.61): «Per mantenere gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi, le emissioni dovranno essere drasticamente ridotte entro il 2030. La Corte d’Appello ritiene plausibile che ciò richieda non solo l’adozione di misure per ridurre la domanda di combustibili fossili, ma anche la limitazione dell’offerta di combustibili fossili. Lo standard sociale di diligenza, interpretato sulla base degli articoli 2 e 8 della CEDU e di norme non vincolanti come l’UNGP e le linee guida dell'OCSE, richiede che i produttori di combustibili fossili si assumano le proprie responsabilità al riguardo. È ragionevole aspettarsi che le compagnie petrolifere e del gas tengano conto delle conseguenze negative di un’ulteriore espansione dell’offerta di combustibili fossili per la transizione energetica anche quando investono nella produzione di combustibili fossili. Gli investimenti previsti da Shell in nuovi giacimenti di petrolio e di gas possono essere in contrasto con questo principio».
Partendo da questa base, la Corte d’Appello passa poi ad esaminare in concreto il programma di riduzione delle emissioni di Shell, ritenendo innanzi tutto che, quanto alle emissioni Scope 1 e Scope 2, abbia implementato un piano di riduzioni sufficientemente allineato con il suo dovere di diligenza, per cui (par. 7.66): «per quanto riguarda le emissioni Scope 1 e 2, non è stata quindi accertata un’imminente violazione di un obbligo giuridico» a suo carico.
E per quanto riguarda le emissioni Scope 3, quelle più “criticate”?
Con un articolato ragionamento (vedasi soprattutto par. 7.99) la Corte d’Appello ritiene che Shell abbia il controllo – e dunque la responsabilità – sulle emissioni Scope 3 (che sono arrivate a costituire il 95% delle sue emissioni totali), quelle prodotte dai suoi clienti finali, per cui sul punto Shell non può nascondersi dietro alle scelte dei consumatori.
Inoltre, la Corte conferma (par. 7.73): «che esiste un ampio consenso sul fatto che, per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, devono essere scelti percorsi di riduzione in cui le emissioni di CO2 siano ridotte di un 45% netto entro la fine del 2030 rispetto ad almeno il 2019 e del 100% entro il 2050. Tuttavia, questi percorsi di riduzione comportano una riduzione globale, pari a un 45% netto. Ciò significa che ci sono settori e aziende nei Paesi che devono ridurre di più e settori e aziende nei Paesi che devono ridurre di meno. A differenza di quanto sostenuto da Milieudefensie et al. in questo procedimento, il Tribunale non può stabilire quale obbligo specifico di riduzione si applichi a Shell».
In sostanza, secondo la Corte non è possibile condannare Shell ad una riduzione precisa delle sue emissioni (e questo ragionamento vale per tutte le emissioni, anche Scope 1 e 2).
A questa conclusione la Corte d’Appello perviene dopo aver esaminato la questione dell’esistenza di un consenso scientifico sul punto. Per la Corte, l’obiettivo di riduzione del 45% entro il 2030 è un obiettivo medio applicabile a tutti i settori ed a tutti i paesi del mondo. È, cioè, una percentuale media, che si riferisce peraltro a tutti i gas serra, non solo alla CO2, e fa riferimento ad un obiettivo globale, non essendoci alcun accordo su come tale obiettivo di riduzione debba essere suddiviso tra le imprese. Milieudefensie aveva proposto di applicare il target del 45% in modo indiscriminato a tutte le imprese.
La Corte rileva che è piuttosto problematico derivare un obiettivo specifico per Shell sulla base dell’obiettivo globale, anche perché (par. 7.72) «in linea con il principio delle responsabilità comuni ma differenziate (principio CBDR), a Shell potrebbe anche essere richiesto un contributo maggiore all'obiettivo di riduzione globale». Tuttavia, conclude la Corte, mancando un consenso su come determinare gli obiettivi di riduzione per il settore oil and gas e per le specifiche imprese che vi rientrano, ed essendoci sul punto tante metodologie ancora non consolidate, (par. 7.91) «la Corte ritiene che da tutte queste fonti non si possa trarre una conclusione sufficientemente inequivocabile sulla riduzione necessaria delle emissioni derivanti dalla combustione di petrolio e gas, su cui basare un'ordinanza dei tribunali civili contro una specifica società».
4. Considerazioni conclusive
In attesa di sapere se il contenzioso in esame finirà dinanzi alla Suprema Corte, possiamo trarre dalle due sentenze in esame una serie di insegnamenti che difficilmente potranno essere smentite da altre corti, quanto meno europee.
Il primo, è che anche le imprese private hanno degli obblighi di riduzione delle emissioni e che pertanto non possono pretendere di continuare ad emettere gas serra senza preoccuparsi dell’impatto che tali emissioni avranno sul raggiungimento dei target stabiliti dall’Accordo di Parigi. Tale obbligo può arrivare a costringere le stesse a non promuovere nuovi progetti estrattivi.
Il secondo, è che le imprese devono essere ritenute responsabili anche per le emissioni che rientrano nello Scope 3, ovvero quello direttamente prodotte dalle scelte dell’utente finale.
Il terzo, è che la possibilità di avere un livello di conoscenze sufficientemente condiviso per derivare in capo alle imprese un obbligo specifico di riduzione delle emissioni è solo una questione di tempo.
Il contenzioso Shell, dunque, lungi dal rappresentare un trionfo per le imprese climalteranti, a parere dello scrivente è una tappa intermedia verso la responsabilizzazione – anche a livello giuridico – delle stesse.
[1] Per informazioni, si veda il sito della fondazione Urgenda: https://www.urgenda.nl/en/themas/climate-case/
[2] Per informazioni, si vedano il sito del Sabin Center for Climate Change Law (https://climatecasechart.com/non-us-case/milieudefensie-et-al-v-royal-dutch-shell-plc/), della ONG Milieudefensie (https://en.milieudefensie.nl/climate-case-shell/our-climate-case-against-shell), e della Shell (https://www.shell.com/news-and-insights/newsroom/news-and-media-releases/2024/shell-welcomes-dutch-court-of-appeal-ruling.html).
[3] Il testo della sentenza in inglese è consultabile qui: https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/non-us-case-documents/2021/20210526_8918_judgment-2.pdf
[5] http://www.dutchcivillaw.com/legislation/dcctitle6633.htm
[6] https://www.ohchr.org/en/publications/reference-publications/guiding-principles-business-and-human-rights
[7] https://unglobalcompact.org/
[8] https://www.oecd.org/en/publications/oecd-guidelines-for-multinational-enterprises-on-responsible-business-conduct_81f92357-en.html
[9] Ovvero, lo Special Report 1,5° pubblicato nel 2018: https://www.ipcc.ch/sr15/
[11] Il testo della sentenza in inglese è consultabile qui: https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/non-us-case-documents/2024/20241112_8918_judgment.pdf
[12] https://edition.cnn.com/2024/11/12/energy/shell-climate-case-netherlands/index.html
[13] https://www.ft.com/content/f06e8b83-6366-40aa-a91d-ebbdf10a8798
[14] https://www.ilsole24ore.com/art/shell-vince-l-appello-giudice-non-decide-tagli-anidride-carbonica-AGZpOu5?refresh_ce=1
[15] https://www.ilfoglio.it/economia/2024/11/13/news/annullata-in-olanda-la-sentenza-che-obbligava-shell-a-tagliare-le-emissioni-7144219/