«Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile … Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente esecutivo dello Stato. La libertà politica, in un cittadino, consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che ciascuno ha, della propria sicurezza; e, perché questa libertà esista, bisogna che il governo sia organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino. Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni e quello di giudicare i delitti e le liti dei privati» (Charles De Secondat barone di Montesquieu, De l’esprit des lois).
«I tribunali nazionali, quando sono chiamati a giudicare una questione relativa all’esercizio del potere esecutivo, non devono declinare la propria competenza sulla base della natura politica della questione, se tale esercizio del potere è soggetto a una norma di diritto internazionale» (articolo 2 della risoluzione adottata dalla nona commissione dell’Institut de Droit International, relatore Prof. Benedetto Conforti, in data 7/9/93)[1].
1. Introduzione
Il numero di giudizi e di procedimenti aventi natura quasi-giudiziaria che hanno per protagonista il cambiamento climatico è in rapido aumento[2]. Si è già detto in ordine alle caratteristiche di questo fenomeno[3], che riguarda anche l’Italia, essendo stati lanciati nel nostro paese diversi contenziosi di questo tipo[4].
Il primo, identificato come Giudizio Universale dal nome della campagna che lo ha accompagnato, riguarda una causa proposta dinanzi al Tribunale civile di Roma contro lo stato italiano[5]. I 203 attori (tra cui 24 associazioni e 179 individui) hanno basato le loro richieste sulla non contestata – né dallo Stato, né dal Tribunale di Roma – emergenza climatica, intesa come situazione di minaccia esistenziale irreversibile che riguarda alcuni diritti umani fondamentali. Tale minaccia può essere interrotta secondo la comunità scientifica, ed anche secondo la comunità degli Stati, solo dando piena ed efficace applicazione all’Accordo di Parigi, il quale all’art. 2 individua l’obiettivo di contenimento dell’aumento delle temperature globali («ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l'azione volta a limitare tale aumento a 1,5°C») e stabilisce i principi (quelli dell’equità, delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità) che devono guidare le politiche climatiche degli Stati volte a realizzarlo.
La comunità degli Stati, nelle decisioni adottate in occasione delle successive COP, ha poi abbandonato la prima soglia («ben al di sotto di 2°C»), chiarendo che il target da perseguire è quello del contenimento dell’aumento delle temperature entro 1,5°C[6].
Orbene, gli attori hanno evidenziato, mediante il deposito di copiosa documentazione, il macroscopico disallineamento delle politiche climatiche italiane rispetto al suddetto target stabilito dall’Accordo di Parigi, e su tale premessa hanno formulato al Tribunale di Roma una serie di domande volte ad ottenere l’accertamento della responsabilità dello Stato italiano per aver contribuito a creare una situazione di minaccia al godimento dei diritti fondamentali travolti dal cambiamento climatico, nonché la sua condanna a ridurre le emissioni entro il 2030 di una percentuale in linea con il target fissato dall’Accordo di Parigi. Peraltro, l’individuazione di tale percentuale è stata demandata all’autorevole istituto di ricerca Climate Analytics[7], che ha prodotto due report specifici sulla compatibilità del piano di riduzione delle emissioni approvato dal governo italiano con il target fissato dall’Accordo di Parigi, pervenendo alla drastica conclusione che le attuali politiche climatiche sono del tutto fuori rotta rispetto ad esso.
Non è possibile in questa sede approfondire la complessità di tale giudizio; ci si limiterà a rilevare che lo stesso è stato deciso dalla II Sezione civile del Tribunale di Roma con sentenza n. 3552 del 26 febbraio 2024[8], che ha sollevato – come era prevedibile – un enorme dibattito[9], in particolare sull’utilizzo del principio della separazione dei poteri.
Su questo aspetto, ed in particolare sulla sua lettura anche alla luce della giurisprudenza del Tribunale dell’Aja e della Corte europea dei diritti dell’uomo, si concentrerà l’attenzione del presente scritto, con la consapevolezza che la delicatezza del tema avrebbe meritato un maggiore approfondimento.
2. Il contenzioso climatico strategico
Prima di entrare nel cuore della problematica, è opportuno accennare al fenomeno del contenzioso strategico, il quale «è presente ovunque, ma non è definito da nessuna parte. Il concetto è utilizzato in tutto il mondo, da professionisti, attivisti e studiosi. Tuttavia, non compare nei dizionari giuridici (anche se esistono numerosi concetti contemporanei correlati) e non esiste ancora una definizione concordata dagli studiosi»[10].
Ciò premesso, a grandi linee è possibile individuare la caratteristica principale del contenzioso strategico: quella di selezionare casi in cui sono coinvolti i diritti di uno o più soggetti e di lanciarli (per lo più dinanzi all’autorità giudiziaria, ma vi sono anche casi strategici lanciati attraverso procedure quasi-giudiziarie) con l’obiettivo di stimolare un dibattito e di sensibilizzare l’opinione pubblica su tematiche di particolare importanza, che riguardano anche la collettività[11].
E’ evidente che il contenzioso climatico rientra in tale categoria; in tutto il mondo, la società civile ha proposto diversi contenziosi perché, a fronte di una situazione oggettivamente grave consistente nell’emergenza climatica foriera di minacce al godimento dei diritti umani fondamentali, le risposte dei governi e delle grandi imprese climalteranti sono state decisamente inefficaci.
Il contenzioso strategico mira, dunque, a raggiungere anche effetti che possiamo definire “extra-giuridici”, ovvero effetti che vanno ben al di là del risultato della procedura in sé considerato, e che si possono ottenere anche in caso di rigetto della domanda. Con il contenzioso strategico, lo strumento processuale diventa una sorta di mezzo con cui la società civile esprime la preoccupazione in relazione a determinate problematiche sensibili (nel nostro caso, la risposta all’emergenza climatica), esortando così il potere politico ad affrontare le stesse o a riflettere sul modo in cui esse sono state affrontate. Le tematiche sensibili, quelle che la società civile ritiene debbano essere affrontate in un certo modo dal potere politico, riguardano quindi contemporaneamente singoli individui (i protagonisti del contenzioso, che reclamano il rispetto dei propri diritti asseritamente minacciati o compromessi) ma anche categorie più ampie, sino a ricomprendere l’intera collettività.
Il cambiamento climatico ne è un esempio paradigmatico: l’emergenza climatica minaccia i diritti fondamentali degli individui (praticamente, chiunque), ma per poterla affrontare è necessario adottare delle scelte che hanno delle ricadute sull’intero sistema-paese. E qui va evidenziata la caratteristica “critica” del contenzioso strategico in generale (non solo di quello climatico). Proprio la sua finalità, difatti, costituisce anche il suo principale vulnus, perché necessariamente esso impatta con il principio della separazione dei poteri.
Ridotta all’essenziale, la criticità è collegata ai limiti dentro cui il potere giudiziario, attivato con il contenzioso strategico, può assumere decisioni quando le stesse riguardano sia la tutela dei diritti invocati dai ricorrenti, sia questioni relative al sistema-paese o in generale alla collettività, per loro natura devolute alla sfera di intervento del potere politico.
Il potere giudiziario – procedendo con una semplificazione – applica il diritto ad un determinato fatto, risolvendo un conflitto portato alla sua attenzione da uno o più ricorrenti; gli effetti della sua decisione, normalmente, valgono e si riverberano solo tra le parti processuali. Attraverso il contenzioso strategico, a causa della particolare importanza delle tematiche sottoposte all’attenzione dell’autorità giudiziaria, le decisioni adottate possono avere (e di regola hanno) anche ripercussioni su altri soggetti, o su altre sfere sociali o addirittura sull’intera collettività, finendo con l’interferire con l’ambito che il potere politico riserva alla sua discrezionale competenza.
La contraddizione sopra evidenziata può però essere letta anche all’inverso: se è vero che il principio della separazione dei poteri richiede la verifica dei limiti alla sfera di intervento del potere giudiziario quando in gioco ci sono da un lato i diritti fondamentali, dall’altro più ampie questioni che riguardano il sistema-paese, è altrettanto vero che il medesimo principio richiede anche la verifica simmetrica ed opposta: ovvero, i limiti entro cui il potere politico può adottare decisioni che riguardano la collettività o l’intero sistema-paese, ma che hanno anche gravi ripercussioni sui diritti fondamentali di alcuni (o di tutti) gli individui.
Esiste una zona grigia tra la sfera di influenza del potere giudiziario e le prerogative di esclusiva del decisore politico, dove può essere assai difficile nella pratica individuare un confine chiaro e delimitato. Questa zona grigia diventa spesso il luogo di scontro non solo tra potere politico e potere giudiziario, ma anche tra diverse visioni del diritto, o – meglio – della finalità del diritto.
Di recente, il nostro paese è stato investito da una fortissima polemica lanciata dal Governo contro alcuni Magistrati, rei di non aver convalidato il fermo nel centro di trattenimento albanese di Gjadër, impedendo così il “trasferimento” (anche se il termine giuridico più pertinente nel caso di specie è quello di “deportazione”) di “migranti” (anche se il termine giuridico più corretto è quello di “naufraghi” raccolti in mare dalla nave Libra della Marina Militare italiana) voluto dal Governo. In questo caso, il provvedimento dell’autorità giudiziaria è stato letto dal decisore politico come invasivo e foriero di minare l’intero assetto della politica di contrasto al fenomeno della migrazione “illegale”.
Il violento attacco del “potere politico” nei confronti delle decisioni adottate dal “potere giudiziario” che si è consumato in relazione a questa vicenda, conferma l’assoluta delicatezza delle implicazioni del principio della separazione dei poteri e delle sue ripercussioni sulle vicende giudiziarie che attengono ai diritti dei singoli, ma che hanno anche ricadute più ampie.
Va da sé che non esiste una ricetta univoca per dirimere il conflitto tra i due poteri; è possibile però motivare le ragioni che spingono a collocare in un preciso punto il confine tra le due sfere di competenza, ampliandone una a discapito dell’altra.
Questo contributo mira ad enucleare l’approccio adottato da tre Corti in relazione al tema della insindacabilità delle scelte di politica climatica reclamata dal decisore politico per effetto del principio della separazione dei poteri.
3. Il caso Urgenda contro Paesi Bassi
Nella sentenza che ha deciso Giudizio Universale, il Tribunale di Roma, curiosamente, richiama una serie di contenziosi climatici celebrati precedentemente dinanzi ad altri Tribunali europei (tutti conclusi con l’accoglimento delle domande), salvo poi discostarsene in maniera radicale.
Tra i vari, il Tribunale di Roma richiama il caso Urgenda, probabilmente il contenzioso climatico più famoso al mondo, che ha visto questa fondazione citare in giudizio lo Stato olandese chiedendo al Giudice civile, sul presupposto che il cambiamento climatico minaccia il godimento dei diritti fondamentali, di ordinare allo Stato – similmente a quanto richiesto nel Giudizio Universale – di perseguire una percentuale di taglio delle emissioni al fine di raggiungere obiettivi climatici più ambiziosi di quelli programmati.
Il governo olandese si è difeso eccependo – tra le altre argomentazioni – che l’eventuale sentenza di condanna al raggiungimento di obiettivi climatici più ambiziosi rispetto a quelli decisi in sede politica, attraverso il taglio più massiccio di emissioni, avrebbe intaccato le prerogative riconosciute al decisore polittico e, quindi, violato il principio della separazione dei poteri.
Nella sentenza di primo grado, il Tribunale dell’Aja[12] rileva (Sez. E, punto 4.95) che «il diritto olandese non prevede una completa separazione dei poteri dello Stato, in questo caso tra esecutivo e giudiziario. La distribuzione delle competenze tra questi poteri (e il legislatore) mira piuttosto a stabilire un equilibrio tra gli stessi. Ciò non significa che un potere in senso generale abbia un primato sull'altro. Significa invece che ogni potere dello Stato ha propri compiti e proprie responsabilità. Il tribunale fornisce protezione legale e risolve le controversie legali, e deve farlo se gli viene richiesto. È una caratteristica essenziale dello Stato di diritto che le azioni degli organi politici (indipendenti, democratici, legittimati e controllati), come il governo e il parlamento, possano - e talvolta debbano - essere valutate da un tribunale indipendente». Questo controllo – prosegue la Corte – non ha natura politica, ma è limitato all’«applicazione del diritto».
La Corte è consapevole (punto 4.96) che «una richiesta di ingiunzione, come nel caso in esame, in una causa contro il governo, potrebbe avere conseguenze dirette o indirette su terzi» ma (punto 4.98) «la possibilità – e in questo caso persino la certezza – che la questione sia anche e soprattutto oggetto di decisioni politiche non è un motivo per limitare il compito del giudice e la sua prerogativa che è quella di risolvere le controversie».
La Corte, in sostanza, ritiene di dover esercitare il suo ruolo in presenza di una questione (come quella sottoposta dalla fondazione Urgenda) che riguarda la minaccia al godimento dei diritti fondamentali, anche se sicuramente la relativa decisione avrà anche una ricaduta politica.
Secondo il Tribunale dell’Aja, una sentenza che condanni lo Stato a rispettare le convenzioni internazionali sul clima fissando obiettivi di riduzione delle emissioni maggiori (nel caso di specie, la Corte ha condannato lo Stato olandese al taglio delle emissioni del 25% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020) rispetto a quelli pianificati dal potere politico, non viola il principio della separazione dei poteri. Per contro, vi sarebbe una invasione delle prerogative del potere politico qualora (punto 4.101) la Corte individuasse le concrete misure da adottare per raggiungere il risultato finale di cui alla condanna. La Corte si ferma proprio a questo punto, riconoscendo che «lo Stato manterrà la piena libertà, che gli spetta per antonomasia, di decidere come ottemperare alla condanna in questione».
Questa impostazione è stata poi sostanzialmente confermata nei successivi gradi di giudizio[13].
4. La sentenza del Tribunale di Roma
Per quel che interessa il presente articolo, il Tribunale di Roma nella sentenza sopra citata, accogliendo l’eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato, ha deciso la causa dichiarando «inammissibili le domande proposte dagli attori per difetto assoluto di giurisdizione del Tribunale adito», compensando le spese di lite.
L’argomento centrale cavalcato dal giudice ruota intorno alla circostanza che «le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico antropogenico – che comportano valutazioni discrezionali di ordine socio-economico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana – rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell’odierno giudizio. Con l’azione civile proposta gli attori chiedono nella sostanza al Tribunale di annullare i provvedimenti anche normativi di carattere primario e secondario (come illustrati dalla Difesa erariale nelle pp. 11 e ss. della comparsa di costituzione ed evincibili dalla documentazione depositata in data 15.03.2022), che costituiscono attuazione delle scelte politiche del legislatore e del governo per il raggiungimento degli obiettivi assunti a livello internazionale ed europeo (nel breve e lungo periodo) in violazione di un principio cardine dell’ordinamento rappresentato dal principio di separazione dei poteri».
Tralasciando l’evidente manipolazione delle domande attoree (che non miravano certo ad «annullare i provvedimenti anche normativi di carattere primario e secondario», non meglio identificati e peraltro – per quanto riguarda le norme primarie – anche del tutto inesistenti nel nostro ordinamento), risulta chiaro che l’applicazione che è stata fatta dal Tribunale di Roma del principio della separazione dei poteri in questa sentenza è assai criticabile, perché finisce con attribuire al potere politico una sorta di prerogativa decisoria insindacabile, indiscutibile, arbitraria e – quindi – anche non generatrice di alcuna responsabilità.
Il che – in piena emergenza climatica conclamata ed alla presenza di accordi internazionali da rispettare – è a dir poco paradossale. Per il Tribunale di Roma, il decisore pubblico, nell’individuare ed esprimere il proprio orientamento in tema di politica climatica, è totalmente libero da vincoli giuridici (siano essi di ordine costituzionale, siano essi derivanti dall’ordinamento internazionale o sovranazionale) e da vincoli tecnico-scientifici (sul punto, si ricorda che lo Stato italiano è membro dell’IPCC ed ha approvato tutti i report scientifici da questo organismo prodotti).
Ma, così opinando, non si viola proprio il principio della separazione dei poteri?
Spesso, i decisori politici tendono a “leggere” e ad applicare questo principio per ridurre la sfera di intervento del potere giudiziario, presentandosi come unica “incarnazione” ed unica espressione dello Stato (la vicenda della deportazione dei naufraghi in Albania è un chiaro esempio di questa tendenza: peraltro, in questa occasione il “potere esecutivo” ha attaccato il “potere giudiziario” ricorrendo all’emanazione di provvedimenti normativi, che dovrebbero competere al “potere legislativo”, in barba alla rigorosa applicazione del principio della separazione dei poteri). Va tuttavia rilevato che anche il potere giudiziario è un “potere dello Stato”: il principio della separazione dei poteri, così come dovrebbe evitare indebite invasioni della Magistratura nelle prerogative tipiche della politica, così dovrebbe evitare che il decisore politico rivendichi una totale impunità ed insindacabilità da parte del potere giudiziario, quando le sue scelte incidono sui diritti fondamentali.
Del resto, uno dei fondamenti dello Stato di diritto è proprio questo: le scelte, anche quelle connotate da un tasso di discrezionalità, adottate dal Legislatore e dal Governo dovrebbero essere sottoposte al controllo, volto alla verifica del rispetto delle regole, del potere giudiziario indipendente qualora le stesse violassero, o minacciassero di violare, diritti umani fondamentali.
Tutto questo scompare nella sentenza del Tribunale di Roma.
5. La sentenza della Corte di Strasburgo nel caso “KlimaSeniorinnen contro Svizzera”
Qualche settimana dopo la pubblicazione della sentenza da parte del Tribunale di Roma, e precisamente in data 9/4/24, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha pubblicato tre sentenze in altrettanti casi climatici sottoposti (per la prima volta) alla sua attenzione.
Di particolare rilievo, per il tema trattato, è la sentenza adottata nel caso contro la Svizzera[14], lanciato da un’associazione (KlimaSeniorinnen) costituita da donne anziane, nonché da alcune di esse individualmente, sul presupposto che le ricorrenti, in ragione della loro età, appartengono ad una categoria particolarmente vulnerabile agli impatti dei cambiamenti climatici. Le ricorrenti lamentavano di vedere i propri diritti fondamentali (quali il diritto alla vita ed alla salute) minacciati dalla inadeguatezza delle politiche climatiche perseguite dallo stato svizzero e di aver invano attivato i rimedi consentiti dall’ordinamento svizzero, promuovendo l’azione contro lo Stato dinanzi alle autorità giudiziarie nazionali, le quali avevano però rigettato il caso senza entrare nel merito, dichiarandolo inammissibile.
Dinanzi alla Corte di Strasburgo, la Svizzera – tra le altre argomentazioni difensive – ha sollevato anche l’eccezione della insindacabilità delle politiche climatiche adottate in virtù del principio della separazione dei poteri.
La Corte di Strasburgo ha esaminato con molta cura questa eccezione, riconoscendo (par. 413) che la responsabilità della gestione delle complesse questioni scientifiche, politiche, economiche e di altro genere poste dal cambiamento climatico ricade essenzialmente sul potere legislativo e sul potere esecutivo, e che quindi gli organi nazionali che incarnano tali poteri sono quelli naturalmente deputati ad affrontare le delicate sfide poste dal cambiamento climatico.
Per la Corte (par. 412) «L’intervento giudiziario, anche da parte di questa Corte, non può sostituire o supplire all’azione che deve essere intrapresa dai rami legislativo ed esecutivo del governo. Tuttavia, la democrazia non può essere ridotta alla volontà della maggioranza degli elettori e dei rappresentanti eletti, senza tener conto dei requisiti dello Stato di diritto. Il compito dei tribunali nazionali e della Corte è quindi complementare a questi processi democratici. Il compito della magistratura è quello di garantire la necessaria supervisione del rispetto dei requisiti di legge. La base giuridica per l’intervento della Corte è sempre limitata alla Convenzione, che le consente di determinare anche la proporzionalità delle misure generali adottate dal legislatore nazionale […] Il quadro giuridico pertinente che determina l’ambito del controllo giurisdizionale da parte dei tribunali nazionali può essere notevolmente più ampio e dipenderà dalla natura e dalla base giuridica delle richieste presentate dai ricorrenti».
Per la Corte, dunque, le scelte di politica climatica adottate dal potere politico non sono esenti dal controllo da parte del potere giudiziario, controllo che è un tratto caratteristico dello Stato di Diritto ed è, quindi, un elemento di completamento della democrazia. Quanto sopra, è riconosciuto ancora più rilevante nell’epoca dei cambiamenti climatici, se consideriamo i complessi orizzonti temporali che vengono in rilievo quando si discute su come fronteggiare l’emergenza climatica, soprattutto (par. 420) «considerando lo scenario di un aggravamento delle conseguenze per le generazioni future, la prospettiva intergenerazionale sottolinea il rischio insito nei processi decisionali politici in questione, ossia che gli interessi e le preoccupazioni a breve termine possano prevalere su, e a scapito di, esigenze pressanti di definizione di politiche sostenibili, rendendo tale rischio particolarmente grave e aggiungendo la giustificazione della possibilità di un controllo giurisdizionale».
La Corte (par. 450) ribadisce poi che se le vengono sottoposti casi che «riguardano la politica dello Stato in relazione a una questione che incide sui diritti riconosciuti dalla Convenzione in favore di un individuo o di un gruppo di individui, questo argomento non è più solo una questione politica, ma anche una questione di diritto che incide sull’interpretazione e sull’applicazione della Convenzione. In questi casi, la Corte mantiene la propria competenza, anche se con una sostanziale deferenza nei confronti del decisore politico nazionale e delle misure risultanti dal processo democratico in questione e/o dal controllo giudiziario dei tribunali nazionali. Di conseguenza, il margine di apprezzamento per le autorità nazionali non è illimitato e va di pari passo con un controllo europeo da parte della Corte, che deve accertarsi che gli effetti prodotti dalle misure nazionali impugnate siano compatibili con la Convenzione».
La Corte rileva (par. 413) che «l’inadeguatezza ampiamente riconosciuta della passata azione statale per combattere il cambiamento climatico a livello globale comporta un aggravamento dei rischi delle sue conseguenze negative, e delle conseguenti minacce che ne derivano, per il godimento dei diritti umani - minacce già riconosciute dai governi di tutto il mondo», rischi peraltro «confermati dalle conoscenze scientifiche», che la Corte «non può ignorare nel suo ruolo di organo giudiziario incaricato di far rispettare i diritti umani».
Sul punto della discrezionalità del potere politico circa la pianificazione delle politiche climatiche, la Corte conclude (par 543) riconoscendo che lo stato ha «un certo margine di apprezzamento in questo settore» ma che «le considerazioni di cui sopra comportano una distinzione tra la portata del margine per quanto riguarda, da un lato, l’impegno dello Stato nella necessità di combattere i cambiamenti climatici e i loro effetti negativi, e la definizione degli scopi e degli obiettivi richiesti a questo proposito, e, dall’altro, la scelta dei mezzi destinati a raggiungere tali obiettivi. Per quanto riguarda il primo aspetto, la natura e la gravità della minaccia e il consenso generale sulla posta in gioco per garantire l’obiettivo generale di un’efficace protezione del clima attraverso obiettivi di riduzione globale dei gas serra in conformità con gli impegni accettati dalle Parti contraenti per raggiungere la neutralità del carbonio, richiedono un margine di apprezzamento ridotto per gli Stati. Per quanto riguarda il secondo aspetto, ossia la scelta dei mezzi, comprese le scelte operative e le politiche adottate per raggiungere gli obiettivi e gli impegni fissati a livello internazionale alla luce delle priorità e delle risorse, agli Stati dovrebbe essere concesso un ampio margine di apprezzamento».
6. Considerazioni conclusive
Il ragionamento sviluppato dalla Corte di Strasburgo in relazione all’applicazione del principio della separazione dei poteri nel contesto delle politiche climatiche si inserisce – con le dovute differenze – nel solco tracciato dalla giurisprudenza olandese ed è esattamente opposto a quello adottato dal Tribunale di Roma.
Per la Corte di Strasburgo, il decisore politico ha un’ampia discrezionalità («margine di apprezzamento») nell’individuare le misure da adottare per raggiungere un determinato target di riduzione delle emissioni; viceversa, ha una discrezionalità molto limitata nella determinazione di tale target, essendo lo stesso individuato dagli accordi internazionali sul clima (che sono praticamente stati ratificati da, e pertanto vincolano la, totalità degli Stati).
Questi accordi partono dall’assunto che il cambiamento climatico è una minaccia per la salvaguarda dei diritti umani fondamentali. Sotto questo aspetto, in presenza di un contenzioso climatico strategico basato sul disallineamento delle politiche climatiche di uno Stato rispetto ai target vincolanti stabiliti dall’Accordo di Parigi, il principio della separazione non può essere applicato in modo da impedire al potere giudiziario di valutare nel merito (ovviamente, senza alcuna pretesa di accoglimento delle domande) se le misure adottate da un determinato Stato rientrino o meno nel «margine di apprezzamento» riconosciutogli e se siano idonee a rispettare (par. 544) «il diritto degli individui di godere di una protezione effettiva da parte delle autorità statali contri i gravi effetti negativi sulla loro vita, salute, benessere e qualità di vita derivanti dagli effetti nocivi e dai rischi causati dal cambiamento climatico».
In altre parole, per la Corte di Strasburgo in uno Stato di Diritto il principio della separazione dei poteri viene violato tutte le volte che il potere esecutivo o il potere legislativo privano il potere giudiziario della sua funzione, che è propriamente quella di controllare che gli altri poteri abbiano agito nel rispetto delle regole.
[1] https://www.idi-iil.org/app/uploads/2018/06/1994_vol_65-II_Session_de_Milan.pdf, pag. 319.
[2] Per avere dati aggiornati, si consulti il Climate Change Litigation Database del Sabin Center for Climate Change Law.
[3] https://www.questionegiustizia.it/articolo/contezioso-climatico
[4] https://www.contenziosoclimaticoitaliano.it/i-casi/
[5] Per ulteriori informazioni e per scaricare la documentazione relativa al giudizio, si consultino https://www.giustiziaclimatica.it/giudizio-universale/, https://asud.net/campagna/giudizio-universale/ e https://www.contenziosoclimaticoitaliano.it/i-casi/
[6] Vedasi sul punto: https://www.questionegiustizia.it/articolo/un-bilancio-della-cop-28
[7] https://climateanalytics.org/
[8] Il testo della pronuncia è disponibile su https://asud.net/ultima/giudizio-universale-sentenza/
[9] Per consultare gli articoli, i commenti e le note alla sentenza pubblicati, si consulti https://www.contenziosoclimaticoitaliano.it/commenti-alle-decisioni/
[10] Michael Ramsden e Kris Gledhill, Defining Strategic Litigation, in Civil Justice Quarterly (2019).
[11] Si veda anche: Buckel, S., Pichl, M. e Vestena, C. A. (2024), Legal Struggles: A Social Theory Perspective on Strategic Litigation and Legal Mobilisation, in Social & Legal Studies, 33(1), 21-41.
[12] Consultabile qui: https://uitspraken.rechtspraak.nl/details?id=ECLI:NL:RBDHA:2015:7196
[13] Il testo della sentenza emessa dalla Suprema Corte olandese è consultabile qui: https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/non-us-case-documents/2020/20200113_2015-HAZA-C0900456689_judgment.pdf
[14] Il testo integrale della sentenza è disponibile qui: https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22sort%22:[%22kpdate%20Descending%22],%22itemid%22:[%22001-233206%22]}