1. Introduzione
Come noto, il contratto di somministrazione di lavoro, introdotto dal d.lgs. n. 276/2003, in attuazione della legge delega 14 febbraio 2003, n. 30 (c.d. Legge Biagi), si caratterizza per la presenza di un rapporto trilaterale tra: l’agenzia interinale, per tale intendendosi qualsiasi persona fisica o giuridica che sottoscrive contratti di lavoro con lavoratori al fine di inviarli in missione presso imprese utilizzatrici, affinché prestino la loro opera sotto il controllo e la direzione delle stesse; il lavoratore, che sottoscrive un contratto di lavoro con l’agenzia interinale, al fine di essere inviato in missione presso l’impresa utilizzatrice; e, appunto, l’impresa utilizzatrice, presso cui e sotto il cui controllo e direzione il lavoratore tramite agenzia interinale presti la propria opera. Il contratto di somministrazione di lavoro può essere, a sua volta, a tempo determinato o a tempo indeterminato (c.d. staff leasing).
Il contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, in particolare, ed è facile intuirne le ragioni, è al centro, sin dai primi anni 2000, di un ampio dibattito, culminato in una serie di interventi normativi e giurisprudenziali, tanto a livello nazionale quanto a livello eurounitario: a tale istituto si è fatto ricorso nel nostro ordinamento, a partire dal 2003, al fine di dare attuazione a quel modello di “flexicurity”, a cui ci si rimanda al fine di rappresentare “virtuosamente” l’esigenza di coniugare forme di lavoro flessibili in grado di incentivare l’occupazione con la sicurezza del singolo nel mercato del lavoro.
Da ultimo, la sentenza della Corte di Giustizia 14 ottobre 2020, causa C-681/18, J.H. c. K.G. viene ad arricchire il già denso dibattito precedente, segnando (forse) un punto di svolta.
Mentre, infatti, in precedenti pronunce, la Corte di Giustizia aveva posto l’accento sulla funzione promozionale di tale forma di lavoro che, come tale, meritava di essere incentivata per favorire l’aumento dell’occupazione e l’inserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro (v., in tal senso, CGUE 11 marzo 2013, causa C-290/2012, Della Rocca c. Poste Italiane S.p.a., in cui si nega l’estensione in favore dei lavoratori somministrati a termine, secondo un intento protettivo, dei meccanismi anti – abusivi previsti dalla Direttiva sul lavoro a tempo determinato), nella sentenza KG la stessa Corte sposta il focus della sua attenzione verso un altro obbiettivo, quello della individuazione di necessari limiti al ricorso alla forma contrattuale, per garantire meglio la sicurezza dell’occupato. Il nodo riguarda l’effettiva portata della pronuncia, e la sua capacità di incidere sull’istituto.
2. La questione pregiudiziale al vaglio della CGUE
Nello specifico, la sentenza in esame trae origine dal rinvio pregiudiziale operato dal Tribunale di Brescia, investito della controversia tra un lavoratore tramite agenzia interinale e la società utilizzatrice, vertente sulla domanda del primo, volta ad ottenere la declaratoria di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la convenuta, a causa dell’illegittimità del ricorso a missioni successive ed ininterrotte tra il mese di marzo 2014 e il mese di novembre 2016, previa la declaratoria di nullità dei contratti di somministrazione.
Il rinvio pregiudiziale operato dal Tribunale di Brescia si articola in tre punti.
In particolare, il Tribunale di Brescia chiede alla Corte di Giustizia se l’articolo 5, paragrafo 5, della direttiva 2008/104 debba essere interpretato nel senso che osti ad una normativa nazionale che: a) non prevede limiti alle missioni successive del medesimo lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice; b) non subordina la legittimità del ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo del ricorso alla stessa somministrazione; c) non prevede il requisito della temporaneità dell’esigenza produttiva propria dell’impresa utilizzatrice quale condizione di legittimità del ricorso a tale forma di contratto di lavoro.
Il Giudice del rinvio evidenzia che in base alla normativa nazionale allora vigente (quella risultante dall’intervento riformatore operato con in d.l. n. 34/2014, conv. in l. n. 78/2014) il ricorso non avrebbe meritato accoglimento. La novella aveva infatti da un lato eliminato il riferimento alla necessità di indicare nel contratto ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, a giustificazione dell’utilizzazione di tale forma contrattuale; era stata altresì esclusa l’applicabilità dell’articolo 5, comma 3 e seguenti, del decreto legislativo n. 368/2001 – il quale, in materia di contratti a tempo determinato, limita la possibilità di stipulare più contratti a tempo determinato in successione e, in ogni caso, stabilisce un tetto massimo di trentasei mesi di occupazione -, così liberalizzando per l’impresa la possibilità di utilizzo del lavoratore “somministrato”.
Di qui il dubbio a proposito della compatibilità della normativa nazionale con la direttiva 2008/104, nella misura in cui viene escluso ogni controllo giurisdizionale sull’effettiva natura delle ragioni del ricorso al lavoro tramite agenzia interinale, e si rinuncia a fissare qualsivoglia limite al numero delle missioni dello stesso lavoratore presso la medesima impresa utilizzatrice, con il rischio di un distorto utilizzo, elusivo della normativa sul lavoro subordinato a tempo indeterminato.
3. Diritto UE e diritto interno: problemi di coordinamento
La sentenza della Corte di Giustizia muove dall’analisi del contesto normativo, sia nazionale sia eurounitario, in tema di somministrazione, con particolare riguardo alla direttiva 108/2014, che stabilisce un quadro normativo informato ai principi della non discriminazione, trasparenza e proporzionalità.
In tal senso, vi si sottolinea il duplice spirito che anima la direttiva: da un lato, la dimensione promozionale, che si riscontra, per esempio, nell’art. 4, per cui i divieti o le restrizioni imposti quanto al ricorso al lavoro tramite agenzie di lavoro interinale sono giustificati soltanto da ragioni d’interesse generale, riguardanti la tutela dei lavoratori, le prescrizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, o la necessità di garantire il buon funzionamento del mercato del lavoro e la prevenzione di abusi; dall’altro, la dimensione protettiva, rilevabile nel principio della parità di trattamento di cui all’art. 5, per cui le condizioni di base di lavoro e d’occupazione dei lavoratori tramite agenzia interinale sono almeno identiche a quelle che si applicherebbero loro se fossero direttamente impiegati dalla stessa impresa per svolgervi il medesimo lavoro, nonché, appunto, nell’obbligo degli Stati membri di adottare le misure necessarie per evitare il ricorso abusivo a tale forma di contratto di lavoro. L’obiettivo di protezione si esprime, altresì, nel considerando 15 della medesima direttiva, ove il legislatore eurounitario precisa che la forma comune dei rapporti di lavoro è il contratto a tempo indeterminato, e nell’art. 6, il quale prevede che i lavoratori tramite agenzia interinale siano informati dei posti vacanti nell’impresa utilizzatrice, al fine di incentivare l’accesso dei lavoratori tramite agenzia interinale ad un impiego a tempo indeterminato presso l’impresa utilizzatrice.
La questione allora riguarda la compatibilità della direttiva 108/2014 con la traduzione che ne è stata data dal legislatore italiano in particolare con gli interventi riformatori operati nel 2014/2015, prima con il d.l. n. 34 del 2014 (c.d. Decreto Poletti), convertito in l. n. 78 del 2014, che ha eliminato il riferimento alle ragioni giustificatrici di natura tecnico – organizzativa, poi con il d.lgs. n. 81 del 2015, attuativo della legge delega n. 183/2014 meglio nota come Jobs act, che ha genericamente rimesso alla contrattazione collettiva la facoltà di individuare i limiti di utilizzo .
Il “vuoto” può dirsi superato con il d.l. 12 luglio 2018, n. 87 (c.d. Decreto Dignità), convertito con l. 9 agosto 2018, n. 96, che, riproducendo quanto previsto in tema di contratto a termine, ha stabilito un limite temporale massimo (24 mesi) e reintrodotto più stringenti causali per i contratti con durata superiore ai dodici mesi, nonché in caso di rinnovo contrattuale. La questione posta all’attenzione della Corte europea si colloca allora precisamente nell’intervallo temporale di vigenza della disciplina che ha del tutto liberalizzato il ricorso alla somministrazione.
4. La sentenza della CGUE
La Corte di Giustizia parte dal richiamo del disposto dell’articolo 5, paragrafo 5, della direttiva 2008/104, che impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie, per impedire il ricorso abusivo al lavoro tramite agenzia interinale: tale disposizione non impone però agli Stati di limitare il numero di missioni successive di un medesimo lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice o di subordinare il ricorso a detta forma di lavoro a tempo determinato all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Inoltre, la Corte rileva come la suddetta disposizione non definisce alcuna misura specifica che gli Stati membri debbano adottare a tal fine.
A sostegno della propria tesi, la Corte di Giustizia richiama l’art. 4, paragrafo 1, che impone di rimuovere restrizioni ingiustificate al ricorso al lavoro interinale, nonché la propria giurisprudenza, secondo cui la norma in esame deve essere interpretata nel senso che essa delimita l’ambito entro il quale deve svolgersi l’attività legislativa degli Stati membri in materia di divieti o restrizioni, ma senza imporre l’adozione di determinati limiti in materia, sia pure al fine di prevenire abusi (in tal senso, sentenza 17 marzo 2015, AKT, C -533/13).
Tuttavia, sulla specifica questione posta dal giudice del rinvio, circa la eventuale contrarietà della normativa nazionale con la direttiva 2008/104, richiamata la compresenza dell’intento di rispondere alle esigenze di flessibilità delle imprese, con quello di dare tutela alla necessità dei lavoratori dipendenti di conciliare la vita privata e la vita professionale, contribuendo nel complesso alla creazione di posti di lavoro, alla partecipazione al mercato del lavoro ed all’inserimento in tale mercato, i Giudici europei (ed è il fulcro di principio espresso dalla sentenza) focalizzano l’obiettivo perseguito nella specie, ossia quello di conciliare il risultato corrispondente all’interesse delle imprese, per una maggiore flessibilità dei rapporti, con quello di sicurezza che risponde alla tutela dei lavoratori.
Come rilevato dall’avvocato generale nelle sue conclusioni, la direttiva mira a garantire il pieno rispetto dell’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sancisce il diritto di ogni lavoratore a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose.
L’obbligo imposto agli Stati membri dall’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della direttiva, consiste nell’adozione di misure necessarie per impedire gli abusi consistenti nelle successioni di missioni di lavoro volte ad eludere le disposizioni della direttiva: sicché essa osta a che non sia adottata nessuna di tali misure. E questo obbligo vale per tutti gli organi statuali, compresi i Giudici. Per il principio di interpretazione conforme, spetta al Giudice del rinvio controllare la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale, tenendo conto sia della direttiva 2008/104, sia del diritto nazionale che la traspone, in modo da verificare se, come sostenuto dal ricorrente, si tratti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato al quale è stata artificiosamente attribuita la forma di una successione di contratti di lavoro tramite agenzia interinale, con la finalità di eludere la direttiva 2008/104, ed in particolare il limite della natura temporanea del lavoro interinale.
In particolare, tre sono i criteri forniti dalla Corte di Giustizia al giudice del rinvio.
Egli potrà tenere conto, al fine di verificare se le disposizioni della direttiva vengano aggirate, del fatto che le missioni successive presso la stessa impresa utilizzatrice conducano ad una durata dell’attività superiore a quanto possa essere ragionevolmente qualificato come temporaneo; potrà, altresì, tenere conto del fatto che le missioni successive eludano l’essenza stessa delle disposizioni della direttiva 2008/104 e costituiscano un abuso di tale forma di lavoro, nonché, infine, del fatto che, nel caso concreto, l’impresa utilizzatrice non fornisca alcuna spiegazione oggettiva al ricorso al lavoro tramite agenzia interinale.
4. La flexicurity e l’obiettivo di “protezione” della pronuncia
Il cuore della motivazione della sentenza (si è parlato di una “virata” della giurisprudenza europea) sta dunque nella valorizzazione della funzione di protezione del lavoratore interinale assolto dalla direttiva, seppur nell’ambito di una politica di “flessicurezza”. Una sottolineatura che non a caso viene formulata nell’ambito di efficacia delle norme introdotte col decreto Poletti, poi codificate nel Jobs act, al d.lgs. n. 81/2015, che avendo dissolto qualunque limite espresso all’utilizzo del lavoratore in missioni successive presso la stessa impresa utilizzatrice, avevano puntato ad una pressocché totale liberalizzazione del mercato della somministrazione.
Si tratta però (ed il compito è devoluto essenzialmente al Giudice nazionale) di coordinare la “doppia anima” della direttiva senza snaturarne lo scopo: da una parte, gli artt. 2 e 4 volti alla promozione del lavoro flessibile, alla creazione di posti di lavoro e alla rimozione di restrizioni ingiustificate al ricorso all’istituto; dall’altra, l’art. 5, che teorizza il principio della parità di trattamento rispetto ai lavoratori impiegati direttamente dalla stessa impresa per svolgervi il medesimo lavoro, e che impone agli stati membri l’adozione di misure anti-abusive.
Il caso di specie offre un tipico esempio di “soft law”. A differenza della Direttiva 99/70/CE, sui contratti a tempo determinato, in cui accanto all’obbligo specifico di evitare gli abusi sono anche indicati i limiti all’utilizzo sui quali intervenire, nella direttiva 104 del 2008 l’obbligo di previsione delle misure necessarie per evitare fenomeni elusivi da parte degli stati membri ha carattere generale, per cui si esclude l’automatica trasposizione delle indicazioni fornite dalla normativa attuativa del lavoro a tempo determinato alla disciplina della somministrazione. Come è stato detto, se quello era stato fissato come il “crinale della flessibilità”, ora sembra che invece il discrimine possa essere superato, e nell’ottica della miglior tutela della sicurezza del lavoratore, le distanze possano essere se non annullate, di molto ridotte.
La pronuncia in esame esalta dunque la responsabilità del Giudice nazionale, che non potrà ignorare quello che la Corte gli indica: e cioè che se la funzione del contratto di somministrazione è quella di far fronte alle esigenze di carattere temporaneo delle imprese, non può risultare compatibile con la normativa euro unitaria una disciplina che non si curi di preservare questo carattere, evitando l’utilizzo dello strumento a fini elusivi delle garanzie offerte dal lavoro a tempo indeterminato (che, lo si ribadisce, continua a rappresentare la forma comune dei rapporti di lavoro)
Un compito non semplice per il Giudice nazionale, stante la mancanza di ogni previsione specifica di meccanismi anti-abusivi, ma che oggi deve svolgersi avendo ben chiare le indicazioni di principio contenute nella sentenza: che evidentemente ritiene che la normativa nazionale che escluda ogni tutela in tal senso, contrasta con la direttiva, e dunque con il diritto europeo. La questione riguarda dunque specificamente l’intervento del Legislatore nel 2014/2015, e può dirsi superata alla luce della riforma intervenuta con il Decreto dignità: in termini più generali, spetta al Legislatore nazionale individuare il punto di equilibrio tra le diverse esigenze, ma l’una non può porre incondizionatamente nel nulla l’altra. E se così avviene, tocca al Giudice porre rimedio, previa verifica del rispetto o della violazione dei criteri, di cui sopra si è detto, su cui fondare la decisione a proposito della natura abusiva o meno del ricorso a missioni successive.
5. L’effetto anti-abusivo della normativa interna tra decreto Poletti e Decreto dignità: artt. 1344 e 1421 cod. civ.
La direttiva 2008/104, pur contenendo all’art. 5, par. 5, prima frase, una norma chiara, precisa e incondizionata (condizione questa per l’efficacia diretta della stessa) non è direttamente invocabile dal lavoratore nei c.d. contesti orizzontali, ossia nei rapporti tra privati, per cui per garantire l’effetto utile alle disposizioni del diritto dell’Unione è necessario verificare, anzitutto, se il Giudice nazionale possa utilizzare la tecnica dell’interpretazione conforme. Il codice civile, a tale scopo, contiene previsioni che consentono, senza dubbio, di far fronte alla procedura di interpretazione conforme, all’art. 1344, che disciplina il contratto in frode alla legge, reputandone illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa, e all’art. 1421, che sanziona con la nullità i contratti stipulati allo scopo di eludere l’applicazione di norme imperative, quali sono certamente quelle contenute nell’art. 5, par. 5, prima frase, della direttiva 2008/104.
Pertanto, in caso di accertamento della presenza nella fattispecie concreta di quelli che vengono individuati come gli elementi sintomatici di un ricorso abusivo al lavoro in somministrazione per un periodo che ecceda quello in cui possa “ragionevolmente” dirsi preservata la natura temporanea del lavoro interinale, può dichiarare la nullità del contratto commerciale di somministrazione, applicando la sanzione prevista dal d.lgs. n. 81/2015, all’art. 38 primo comma, e stabilita per le ipotesi di assenza di forma scritta di detto contratto.
In questo modo, la conformità dell’ordinamento interno alla disciplina anti-elusiva della direttiva 2008/104 può essere assicurata almeno in parte, sia pure in assenza delle specifiche e più efficaci misure introdotte con il decreto dignità e anche con riferimento al periodo di vigenza delle previsioni del Jobs Act, dunque ante riforma. Una tecnica interpretativa che consente certamente di non eludere il precetto europeo, ma che risente della valutazione operata da parte del giudice nel caso singolo, data dall’incertezza e dalla discrezionalità nell’apprezzamento delle circostanze di fatto, e che costringono il lavoratore a servirsi di un rimedio di diritto comune, quale quello offerto dall’art. 1344 c.c., di meno agevole attivazione.
Va rilevato come la Corte di Giustizia tenga a sottolineare, ancora una volta, la centralità dell’organo giudicante nel coordinamento tra normativa nazionale e normativa comunitaria. Spetta, infatti, al Giudice investito della controversia comporre il delicato equilibrio delle contrapposte esigenze coinvolte. Si tratta di un ulteriore, concreto impulso alla formazione di quella specifica professionalità, ormai richiesta all’operatore del diritto, che non può prescindere dalla specifica conoscenza della legislazione e della giurisprudenza euro – unitaria, e dalla conseguente assunzione di responsabilità nel renderla efficace e vincolante anche all’interno degli ordinamenti nazionali.
Il monito riguarda, nella specie, anche il Legislatore italiano: che di qui in avanti non potrà più ignorare i limiti posti dalla pronuncia, a proposito della necessaria previsione di requisiti causali e, soprattutto, temporali, a fini anti-abusivi, nel caso in cui si volesse mettere mano nuovamente allo schema contrattuale. Non ci può essere flessibilità, ammonisce la Corte, senza sicurezza.