Magistratura democratica
cinema e letteratura

Incubi da giorni qualunque

Recensione al libro di Bruno Capponi, Esi, Napoli 2016
Incubi da giorni qualunque

Una fitta rete di cunicoli invisibili sembra attraversare Roma, conducendo a pianerottoli, case piccole, corridoi e ambulatori in cui le uniche vite sono ancora salvate dall’oblio e dalla trascuratezza. E anche a noi raccontabili. Sono storie estraniate dalla grande Urbe, di cui si avvertono con fastidio i rumori di un fondo antico, pesante.

È allora il narratore Bruno Capponi che, con qualche quaderno lasciato in bella vista, permette di decifrare le trame di Incubi da giorni qualunque (Edizioni scientifiche italiane, 2016), spostando e nascondendo: una vasca ad acque alte e basse, spesso non limpide, in cui sopravvivono e s’incontrano generi mutanti, solitudini esasperate, destini colpiti. Ad ognuno di essi, tuttavia, lo scrittore concede un respiro, un breve orizzonte di pausa. Per poi far ripartire i suoi personaggi bizzarri e sincopati alla ricerca di nuovi contatti. Confessano, si strappano, parlano strascicati, commentano. E quando i dialoghi volgono all’ovvio ecco che anche il diritto soccorre: spiegando, aiutando a capire. A mettere, forse, le cose al loro posto.

C’è un racconto, in questa astuta e complessa silloge, che l’unico autore ha incistato proprio nel mezzo. Come un lievito, immesso a far crescere, assemblare e dare una sola massa alle tante finestre sul mondo. E però anomalo. I personaggi in partenza stralunati, ruvidi, irrisolti nella quotidianità eppure in ogni scena vivi di dettagli che solo i minuti dei loro giorni contengono: questo il panorama dell’intera Opera. In  Un’imprevista vacanza di salute, a Bruno Capponi sembra però sfuggire, proprio nel finale, il governo ordinato del processo di fermentazione. E anche al lettore è arrivata sotterranea una domanda. Impertinente, nuova, nell’approccio ad uno scrittore di genere parossistico come il nostro [M.Ferro, Scrittori di giustizia. Versus: la collana di narrativa creata da giuristi, in Quotidiano giuridico, 18 dicembre 2015].

L’accostamento ha riguardato un interrogativo, per un po’ senza risposta: chi potrebbe essere l’equivalente maschile di Audrey Tautou? Perché a quell’attrice francese è indissolubilmente legato il senso estetico di Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain. E proprio a questo felice titolo, diversamente tradotto nello straniante italiano (Il favoloso mondo di Amélie), ci si può accostare al termine dell’esile trama del citato (e pregiato) pezzo unico: un signore, non più tanto giovane ma nemmeno definitivamente anziano, cui progressivamente vengono svelati mali fisici, in una accidentata movimentazione di laboratori, esami, consulti, palpazioni, visite e vedute, prelievi e toccamenti.

Fino alla prospettazione di un trapianto, neanche tanto scontato. Il protagonista fa tutto da solo, anche quando interagisce con la moglie, i chirurghi, i portantini, i compagni di stanza o corridoio: osserva, proietta ciò che non sa acquisendo dalle immagini e dalle poche parole i segni,  così restituendo a se stesso un quadro sempre aggiornato della sua persona. Prova anche lui a vedersi, a sapersi oggetto. Opponendo brevi stati d’animo all’ignoranza per il suo corpo: ironia, rassegnazione, stupore e infine malinconica fiducia verso le mani altrui. È proprio alla fine che nella lettura, per quell’apparente perdita di efficienza del lievito che invece normalmente caratterizza le irregolari e ritmiche trame di Capponi, è avvertita una fitta.

Sembrava l’interruzione del flusso del racconto, rispetto alle tante storie in Roma abilmente proposte spesso dalle strade di Trastevere. Ci sono pezzi, perché in un Arlecchino li si capisce meglio, che vivono appena fuori dalla testa dell’autore, piantato su un tavolino di qualche bar a scrutare le vie di quell’immenso giacimento di  autenticità, che di regola sfugge al non romano, appannato ogni sera dai vapori dolciastri delle agghindate ristorazioni.

False osterie e finte locande, di cui nemmeno si parla. Preferendosi allora case, camere. Tinelli, corridoi, di abitazioni vere e inaccessibili, come in Er giorno dii maccheroni, struggente elaborazione del rapporto padre figlio. O I tre delitti di via Dandolo (ma forse erano soltanto due), con scene a ridosso del Gianicolo, divertissement d’archivistica e investigazionismo sbeffeggiante. E se però dagli altri racconti la via di fuga si è spesso imparentata al cinismo e alle condotte opportunistiche (Dàmme ‘na pasticchetta, dottò, nella relazione asfissiante e di strascicata petulanza del paziente che quasi ricatta il medico, ridotto a prescrittore di ricette e passivo complice), nella storia dei ricoveri del X capitolo Capponi si fa più vicino, finge perché deve farlo ma lo fa con leggerezza e, quasi chiedendo scusa per quell’intrusione di dolore, morte, disfacimento, si limita a raccontarci che, sì, si tratta solo del corpo. Di un corpo. Di quello del protagonista che, in prima persona, descrive sue peregrinazioni e suoi ricoveri. 

Ma quella pena arriva dritta anche al lettore che, per una volta, non è distratto dalle piccole trappole che l’occhio allenato pur vede accuratamente distribuite nel percorso (un’infermiera senza espressione, un compagno di camice ciarliero). In questa vicenda l’autore se la gioca, rischia grosso e ricorre al trucco finale solo per guadagnare tempo. Per questo, per questo suo stupore, viene in mente l’occhio aperto di Amélie e la sua insistente dedizione a rimettere le cose a posto. E di qui la domanda: con quale analoga testardaggine un personaggio maschile vorrebbe riordinare pezzi smontati e persi delle vite altrui?

Al di là dell’irriverenza di citazione (nel film di Jean-Pierre Jeunet la protagonista di cognome fa Poulain…), è proprio allo sguardo autoriale dolce di Capponi che può pensarsi. Certo, un autore maschile fa più rumore, come per Osvaldo in Il telegramma. Cambiando scenario cittadino - Corso Vittorio Emanuele II - ma sempre ritornando ad un’ambientazione rigorosamente interna, l’appartamento, preferibilmente a piano alto, da cui osservare Roma e il suo rumore. Lo stesso punto di vista per riguardare al passato, miscelando vino e visioni, all’annuncio improvviso del disturbante ritorno di una misteriosa amica.

In questo pezzo si insinua, come una gemma in prestito, anche il diritto, che schiva appena i racconti meno circostanziati, più intimistici e forse non remoti nella redazione: lì si fa cenno alla confessione, nel suo significato civilistico, ovviamente, come a marcare la storia professionale dello scrittore. Ma mentre la bottiglia francese annebbia e scolora le forme, solo all’inizio riviste in modo netto, probabilmente onirico, poi la storia riprende il disincanto, come una sopraffazione che, in Roma, si atteggia a forza ineludibile.

Anche per lo scrittore di giustizia. Ed è per questo che solo in Un’imprevista vacanza di salute il diritto è rappresentato del tutto al di fuori della sua fenomenologia rituale: non il processo o la sua pratica, lo studio o l’applicazione, ma una più elementare - e profonda - aspettativa di osservanza delle regole (“quando vogliono, sanno essere molto efficienti”), un sorprendente affidamento quasi primitivo, in cui il paziente (e il suo cuore) arretrano ogni sapienza del giurista. Si affidano. In quest’ottica anche il nostro B. ha davvero il suo mondo: per ognuno dei suoi personaggi, le frequenti cattiverie sono alterate dalle gratuità di un magico soccorso. Che arriva ogni volta, sfumando  le tragedie, corrodendo i drammi e impedendo di infierire contro quell’umanità così imperfetta, bastarda ed egoistica cui in fin dei conti Bruno Capponi vuole da sempre molto bene. Forse, stabilendo d’artificio un legame genetico tra tutti i suoi poliedrici e pittorici protagonisti, sta cercando anche lui, ed ancora, di rimettere le cose a posto.

Non lo fa da solo, no. E per quest’opera di arrembante produzione di senso, tratto con destrezza dalle sfortune e le solitudini - come in Il taxista psico-analista - Capponi prende a prestito la saggezza popolare (talora con sfumature di riguardo anche molto timoroso), offrendo allo spettacolo qualche categoria che va fatta conoscere fuori dai suoi confini urbani: Roma è l’humus, la terra madre, l’energia, la placenta cui fare rientro sempre. Alla fine di un viaggio o del giorno. Che fuori è sole e confusione.

Dentro la scena narrativa: ombre, silenzi e ricordi. E il contesto dell’azione non cambia: sempre un luogo chiuso, ora l’abitacolo dell’auto del tassinaro. Oppure l’appartamento delle nevrosi di coppia (Una piacevole serata con gli amici), dal quale escono in gesti liberatori - verso il secchio della raccolta differenziata - le produzioni (aperitivi, antipasti, ragoût fumanti) che l’ospitalità borghese e benpensante deve allestire per i contatti sociali. Ed anche per essi l’autore fa trapelare - nell’apparente assenza del diritto - una divertente aspirazione all’eguaglianza: “se vai a una serata devi rispettare le regole, si parte tutti dallo stesso punto. Se arrivi che sei già ubriaca, fai una falsa partenza e metti in imbarazzo tutti gli altri”, offrendo di quel principio un’indagine ridicola e ipocrita.

La stessa cifra, ma più spietata e colorita, è nell’immaginifico La visita sessuologica di base, in cui lo stesso macrocontesto è dominato da un diritto del parossismo, che a colpi di leggi, decreti e circolari impone che le “relazioni sociali sono fondate sull’amore fisico militante e prezzolato”.

Tutti coloro che stanno in pubblico, “dipendenti pubblici o esposti al pubblico”, devono sottoporsi ad una visita sessuologica di base. Il paziente, un avvocato giuscatodico (che risolve casi in TV) è dapprima presentato con antipatia e finisce per soccombere alla prepotenza della sessuologa e ai suoi precetti: impartiti ovviamente in un ambulatorio (bel al di fuori della vita di città). Piano piano, la logica dell’intervista, estorsiva delle più intime informazioni della vita interiore del visitato, lascia però il campo all’ennesimo pactum sceleris, un’accondiscendenza concertata e compromessa cui l’esperto dovrà prestarsi, a vantaggio del “potere del tripopolo”. E della sua immunità da altri controlli.

Divertente il calembour in cui s’impiglia una regola contrattuale esosa, piegata al buon senso dall’avvocato giusvisionario. E lirica la sua uscita finale, rara in Capponi: una mesta e solitaria passeggiata lungo  il Tevere chiude la giornata e anticipa anche per il suo strampalato giurista pratico il rassicurante ritorno lento a casa.

Dopo dunque l’erudizione scherzosa de Le parole della giustizia [in Quotidiano giuridico, 7 aprile 2016] e quella capziosamente storico-istituzionale de Il Codex Incertus [in Quotidiano giuridico, 28 gennaio 2016], in più punti Incubi da giorni qualunque si fa storia di storie. Intrecciate, orizzontalmente distribuite.

Al punto che proprio in Civis Romanus Sum (cives et cafones secondo le attuali cronache) riemerge lo studioso, che arrischia la lezione autentica per spiegare un po’ della sua Roma. Lo fa a modo suo, rielaborando la matrice giuridica di un vasto popolo, nel quale all’evidenza riconosce solo le stimmate dell’immeritevolezza (o volgarità): parte da lontano, per segnalare gli epigoni di Cafo, ci fa sapere che non scampano al suo sguardo severo e un po’ aristocratico (anche per il gran rumore dei motori con cui arrivano a prendere il caffè dalla provincia) e non mostra alcuna indulgenza. Così, il respiro del giurista torna didattico, chiude l’insegnamento, pretende la distanza. Possibile in una Urbs caotica e cangiante solo a patto di costruire quotidianamente il disincanto. Che è poi la seconda cifra autoriale con cui B. racconta il suo unico mondo.

Dai confini larghi ma pronto ad ospitare nuovi sussulti di stupore. Forse riordinabili, con l’aiuto di un’Amélie che solo lo scrittore incontra.

08/10/2016
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