Magistratura democratica
Pillole di CGUE

Secondo trimestre 2019

di Francesco Buffa , Salvatore Centonze
*consigliere della Corte di cassazione<br>**avvocato del foro di Lecce
Le più interessanti pronunce della Corte del Lussemburgo emesse nel secondo trimestre 2019

1. Assunzioni e conoscenza delle lingue

Sentenza della Cgue (Grande Sezione) del 26 marzo 2019, causa C-377/16 e Sentenza della Cgue (Grande Sezione) del 26 marzo 2019, causa C-621/16 P

La prima sentenza è relativa a domanda di annullamento proposta dal Regno di Spagna contro il Parlamento Europeo.

La seconda sentenza è relativa a procedimento di impugnazione Commissione/Italia.

La Corte ha affermato che nelle procedure di selezione del personale delle istituzioni dell’Unione, le disparità di trattamento fondate sulla lingua non sono, in linea di principio, ammesse e che un differente trattamento è ammissibile soltanto laddove essa risponda a reali esigenze del servizio, sia proporzionata a tali esigenze e sia motivata alla luce di criteri chiari, oggettivi e prevedibili.

Nel primo giudizio, la Spagna ha chiesto alla Corte di giustizia di annullare per discriminazione linguistica l’invito alla presentazione di candidature pubblicato dal Parlamento europeo nel 2016 ai fini della costituzione di una base di candidati per lo svolgimento di mansioni di autista. Il modulo di iscrizione era disponibile soltanto nelle lingue inglese, francese e tedesca. I candidati dovevano possedere, oltre ad una conoscenza approfondita di una delle 24 lingue ufficiali dell’Unione come «lingua 1» della procedura di selezione, anche una conoscenza soddisfacente dell’inglese, del francese o del tedesco come «lingua 2». Il Parlamento ha motivato tale limitazione della scelta della «lingua 2» con «l’interesse del servizio, secondo cui il personale neoassunto deve essere immediatamente operativo e capace di comunicare in modo efficace nel lavoro quotidiano».

La Corte annulla l’invito alla presentazione di interesse, sul presupposto che, in mancanza di qualsiasi indicazione riguardo al fatto che il modulo d’iscrizione poteva essere compilato in una qualsiasi delle lingue ufficiali dell’Unione, i candidati hanno ragionevolmente potuto supporre che tale modulo dovesse obbligatoriamente essere compilato in una delle tre lingue in cui lo stesso era scritto. Da ciò consegue una disparità di trattamento fondata sulla lingua, in linea di principio vietata.

Anche la limitazione della scelta della «lingua 2» costituisce una disparità di trattamento. L’invito pubblicato dal Parlamento non giustifica tale limitazione in rapporto alle concrete esigenze linguistiche relative alle mansioni di autista. Il fatto che gli autisti debbano lavorare in città francofone o germanofone, e che i trasportati utilizzino perlopiù la lingua inglese, non elementi sono idonei a giustificare la limitazione della scelta della «lingua 2» alle sole tre lingue menzionate.

Dal canto suo, il Parlamento non ha dimostrato in che modo ciascuna di queste lingue presenterebbe un’utilità particolare per l’esercizio delle mansioni in questione e per quale ragione tale scelta non potrebbe cadere su altre lingue ufficiali potenzialmente pertinenti per tali mansioni.

Nel secondo giudizio, la Commissione ha impugnato dinanzi alla Corte la sentenza del Tribunale dell’Unione europea, adito dall’Italia, che aveva annullato due bandi di concorso generale dell’Ufficio europeo di selezione del personale (EPSO), reputando discriminatorie sia la limitazione della scelta della «lingua 2» del concorso all’inglese, al francese e al tedesco, sia la limitazione a queste tre lingue della scelta della lingua di comunicazione tra i candidati e l’EPSO.

La Corte respinge l’impugnazione sul presupposto che lo Statuto dei funzionari vieti qualsiasi discriminazione, anche fondata sulla lingua; delle differenze di trattamento possono essere giustificate solo in presenza di un obiettivo generale, come l’interesse di servizio o le reali esigenze connesse alle funzioni che le persone assunte saranno chiamate ad esercitare. Le istituzioni, pertanto, nelle procedure di selezione, sono tenute a motivare tale eventuale disparità sulla scorta di criteri oggettivi e prevedibili che permettano un controllo di legittimità ai candidati e ai giudici.

 

2. L’avvocato Monaco

Sentenza della Cgue (Grande Sezione) del 7 maggio 2019, causa C-431/17

È contraria al diritto dell’Unione la legislazione greca che vieta a un monaco in possesso della qualifica di avvocato in un altro Stato membro di iscriversi all’albo degli avvocati a causa dell’incompatibilità tra il suo status di monaco e la professione di avvocato.

Monachos Eirinaios, kata kosmon Antonios Giakoumakis tou Emmanouil/Dikigorikos Syllogos Athinon

Tipo di procedimento: domanda di pronuncia pregiudiziale del Symvoulio tis Epikrateias (Consiglio di Stato della Grecia)

La Corte interpreta la direttiva 98/5/CE, che ha lo scopo di facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale. La direttiva istituisce una procedura di reciproco riconoscimento dei titoli professionali degli avvocati migranti che desiderino esercitare la professione utilizzando il titolo ottenuto nello Stato membro di origine, armonizzando compiutamente i requisiti preliminari richiesti per l’uso del diritto di stabilimento che essa attribuisce.

Con la sentenza in esame, la Corte afferma che le norme professionali e deontologiche applicabili nello Stato membro ospitante, per essere conformi al diritto dell’Unione, devono rispettare il principio di proporzionalità, che implica che esse non eccedano quanto necessario al raggiungimento degli obiettivi perseguiti.

La Corte conclude che la direttiva osta a una legislazione nazionale che vieta a un monaco in possesso della qualifica di avvocato, iscritto quale avvocato presso l’autorità competente dello Stato membro di origine, di iscriversi presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante al fine di esercitare ivi la sua professione utilizzando il suo titolo professionale di origine.

 

3. Libera circolazione dei lavoratori marittimi

Sentenza della Cgue (Terza Sezione) dell'8 maggio 2019, causa C-631/17

Un lavoratore marittimo che conservi la propria residenza nel proprio Stato membro d’origine, pur svolgendo attività lavorativa per conto di un datore di lavoro stabilito in un altro Stato membro, su una nave battente bandiera di uno Stato terzo navigante al di fuori del territorio dell’Unione europea, ricade nella sfera d’applicazione del regolamento relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale

SF/Inspecteur van de Belastingdienst

Tipo di procedimento: domanda di pronuncia pregiudiziale del Hoge Raad der Nederland (Corte suprema dei Paesi Bassi)

Un cittadino lettone residente in Lettonia, lavorava come marittimo alle dipendenze di un’impresa stabilita nei Paesi Bassi. Questi svolgeva tale attività a bordo di una nave battente bandiera delle Bahamas che navigava nel Mare del Nord al di fuori del territorio dell’Unione europea. L’amministrazione finanziaria olandese emanava nei confronti del medesimo un avviso di accertamento ritenendolo debitore, per il periodo in questione, dei contributi previdenziali relativi al sistema di previdenza sociale olandese. Ritenendo di non ricadere in tale regime, SF ricorreva dinanzi all’autorità giudiziaria olandese.

La Corte suprema dei Paesi Bassi, nutrendo dubbi in merito all’interpretazione delle disposizioni del regolamento UE sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale ai fini dell’individuazione della normativa applicabile decideva di sottoporre talune questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia.

Per la Corte, il solo fatto che un lavoratore eserciti la propria attività al di fuori del territorio dell’Unione non è sufficiente ad escludere l’applicazione delle norme dell’Unione sulla libera circolazione dei lavoratori, qualora il rapporto di lavoro conservi un collegamento sufficientemente stretto con il territorio medesimo.

Nella specie, il rapporto di lavoro conserva, a parere della Corte, un collegamento sufficientemente stretto con il territorio dell’Unione, tenuto conto che SF risiedeva in Lettonia e che il suo datore di lavoro era stabilito nei Paesi Bassi. Una fattispecie di tal genere ricade conseguentemente nella sfera d’applicazione del regolamento relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale; ragion per cui la normativa nazionale applicabile è quella dello Stato membro di residenza della persona stessa.

 

4. Discriminazione di genere per i partimers in pensione

Sentenza della Cgue (Terza Sezione) dell'8 maggio 2019, causa C-161/18

La normativa spagnola sul calcolo delle pensioni di vecchiaia dei lavoratori a tempo parziale è contraria al diritto dell’Unione qualora risulti particolarmente svantaggiosa nei confronti dei lavoratori di sesso femminile

VVL/INSS e TGSS

Tipo di procedimento: domanda di pronuncia pregiudiziale del Tribunale Superior de Justicia de Castilla y Leòn (Corte superiore di giustizia della Castiglia e Leòn, Spagna)

Il Tribunal Superior de Justicia de Castilla y León ha deciso di sottoporre alla Corte di giustizia alcune questioni pregiudiziali al fine di determinare se la normativa spagnola sia contraria alla direttiva 79/7/CEE. Secondo tale normativa, l’importo della pensione di vecchiaia di tipo contributivo di un lavoratore a tempo parziale è calcolato nel seguente modo: un importo di base è prima di tutto definito a partire dalle retribuzioni effettivamente percepite e dai contributi effettivamente versati. L’importo di base è successivamente moltiplicato per una percentuale che dipende dalla durata del periodo contributivo. Tale periodo è esso stesso soggetto a un coefficiente di riduzione pari al rapporto tra il periodo di lavoro effettivamente prestato a tempo parziale e il periodo di lavoro prestato da un paragonabile lavoratore a tempo pieno e maggiorato mediante l’applicazione di un coefficiente pari a 1,5.

La quantificazione dell’importo della pensione basato in misura proporzionale alla quantità dei contributi versati è criterio già idoneo a consentire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito che consiste, segnatamente, nella salvaguardia del sistema previdenziale di tipo contributivo.

Di conseguenza, l’aggiunta di un coefficiente di riduzione relativo al lavoro a tempo parziale va oltre quanto necessario per raggiungere tale obiettivo e comporta una riduzione dell’importo della pensione di vecchiaia superiore a quella che risulterebbe dalla mera presa in considerazione pro rata temporis del loro orario di lavoro. Ne consegue che tali lavoratori subiscono una situazione di svantaggio a motivo dell’applicazione di tale coefficiente di riduzione.

 

5. Part-time e calcolo delle indennità

Sentenza della Cgue (Prima Sezione) dell'8 maggio 2019, causa C-486/18

Il calcolo delle indennità di licenziamento e di riqualificazione di un dipendente in congedo parentale a tempo parziale deve essere effettuato sulla base della retribuzione a tempo pieno

RE/MRC SAS

Tipo di procedimento: domanda di pronuncia pregiudiziale della Cour de cassation (Corte di cassazione di Francia)

La Cour de cassation ha denunciato che un numero considerevolmente più elevato di donne che di uomini sceglie di beneficiare di un congedo parentale a tempo parziale. Chiede quindi alla Corte se la discriminazione indiretta che ne deriva, sotto il profilo della percezione di un’indennità di licenziamento e di un’indennità per congedo di riqualificazione ridotte, non violi le disposizioni di cui all’articolo 157 TFUE, relative al principio di parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per lo stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

La Corte ricorda che sussiste una discriminazione indiretta fondata sul sesso quando l’applicazione di un provvedimento nazionale, pur formulato in modo neutro, di fatto sfavorisca un numero molto più alto di lavoratori di un sesso che dell’altro, a meno che la differenza di trattamento sia giustificata da fattori obiettivi.

La Corte afferma pertanto che, quando un lavoratore assunto a tempo indeterminato e in regime di tempo pieno è licenziato durante un periodo in cui fruisce di un congedo parentale a tempo parziale, la sua indennità di licenziamento deve essere determinata unicamente sulla base della retribuzione relativa alle prestazioni di lavoro svolte a tempo pieno dal lavoratore medesimo. Infatti, una normativa nazionale che si risolvesse in una riduzione dei diritti che discendono dal rapporto di lavoro in caso di congedo parentale potrebbe dissuadere il lavoratore dal fruire del congedo stesso e incitare il datore di lavoro a licenziare, tra i lavoratori, quelli che si trovano in una situazione di congedo parentale piuttosto che gli altri. Ciò si porrebbe in diretto contrasto con la finalità dell’accordo quadro sul congedo parentale, che ha tra i suoi obiettivi quello di una migliore conciliazione della vita professionale con quella familiare.

Pertanto, l’accordo quadro sul congedo parentale osta a una disposizione nazionale che prenda in considerazione la retribuzione ridotta che il lavoratore in congedo parentale a tempo parziale percepisce al momento del licenziamento.

 

6. Misurazione dell’orario di lavoro

Sentenza della Cgue (Grande Sezione) del 14 maggio 2019, causa C-55/18

Gli Stati membri devono introdurre l’obbligo per i datori di lavoro di istituire un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero

Federación de Servicios de Comisiones Obreras (CCOO)/Deutsche Bank SAE

Tipo di procedimento: domanda di pronuncia pregiudiziale dell’Audiencia Nacional (Corte Centrale di Spagna)

La normativa nazionale spagnola non prevede un obbligo per i datori di lavoro di dotarsi di un sistema di rilevamento e registrazione delle ore di lavoro dai dipendenti, i quali in tal modo sono privati della possibilità di dimostrare la quantità di ore di lavoro effettivamente prestate. La Corte Centrale di Spagna nutre dubbi che il diritto spagnolo sarebbe in grado di garantire il rispetto effettivo degli obblighi previsti dalla direttiva sull’orario di lavoro e dalla direttiva sulla sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro.

La Corte rileva che, in assenza di un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore, non c’è modo di stabilire con oggettività e affidabilità né il numero di ore di lavoro svolte e la loro ripartizione nel tempo né il numero delle ore di lavoro straordinario, il che rende eccessivamente difficile per i lavoratori, se non impossibile in pratica, far rispettare i loro diritti.

Di conseguenza, al fine di assicurare l’effetto utile dei diritti previsti dalla direttiva sull’orario di lavoro e dalla Carta, gli Stati membri devono imporre ai datori di lavoro l’obbligo di istituire un sistema oggettivo, affidabile e accessibile che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore.

 

7. Status del rifugiato condannato

Sentenza della Cgue (Grande Sezione) del 14 maggio 2019 – cause riunite C-391/16; C-77/17; C-78/17

La commissione di reati gravi sul territorio nazionale non fa dell’immigrato un soggetto privo del tutto di protezione e di diritti, spettandogli comunque i diritti salvaguardati per tali ipotesi dalla Convenzione di Ginevra e tutti i diritti spettanti allo straniero e non presupponenti una sua residenza regolare.

M/Ministerstvo vnitra (C391/16); X (C77/17) e X (C78/17)/Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides

Tipo di procedimento: domanda di pronuncia pregiudiziale Nejvyšší správní soud (Corte suprema amministrativa, Repubblica ceca), e, per le cause C77/17 e C78/17, dal Conseil du contentieux des étrangers (Consiglio per il contenzioso degli stranieri, Belgio)

Sebbene l’Unione europea non sia parte contraente della Convenzione di Ginevra, lo sono tutti gli Stati membri. La direttiva 2011/95, pertanto, ha ritenuto di applicare la Convenzione ed il relativo protocollo in ogni sua parte (3° Considerando), definendoli «pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati» (4° Considerando). Tutti gli Stati membri, perciò, sono tenuti ad applicarne le disposizioni (art. 3 Conv. Ginevra), ad assicurare l’accoglienza dei richiedenti asilo (art. 31) e a garantire ai rifugiati lo stesso trattamento dei loro cittadini in materia di libertà religiosa (art. 4), accesso alla giustizia (art. 16) e all’istruzione (art. 22).

Pertanto, gli Stati membri non possono allontanare, espellere o estradare uno straniero quando esistono seri e comprovati motivi di ritenere che, nel Paese di destinazione, egli vada incontro a un rischio reale di subire trattamenti proibiti dagli artt. 4 e 19/2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Nel caso in cui uno Stato membro decida di revocare lo status di rifugiato o di non riconoscerlo ex art. 14, par. 4 o 5 dir. 2011/95, gli interessati si trovano certamente privati di detto status e pertanto non dispongono, o non dispongono più, di tutti diritti e benefici enunciati nel capo VII di detta direttiva, che sono associati a tale status. Tuttavia, come prevede l’art. 14/6 della direttiva, queste persone godono, o continuano a godere, di un certo numero di diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra, circostanza che conferma che essi hanno, o continuano ad avere, la qualità di rifugiato ai sensi, segnatamente, dell’art. 1, sez. A, di detta convenzione, a dispetto di tale revoca o diniego [1].

 

8. Soppressione dei diritti degli stranieri in Ungheria

Sentenza della Cgue (Grande Sezione) del 21 maggio 2019 – causa C-235/17

L’Ungheria, avendo soppresso i diritti di usufrutto intestati direttamente o indirettamente a cittadini di altri Stati membri su terreni agricoli situati sul suo territorio, è venuta meno ai suoi obblighi derivanti dal principio della libera circolazione dei capitali e del diritto di proprietà garantito dalla Carta

Commissione/Ungheria

Tipo di procedimento: Ricorso per inadempimento diretto contro l’Ungheria

La Commissione chiede alla Corte di dichiarare che l’Ungheria, avendo previsto la soppressione dei diritti d’usufrutto costituiti a favore di persone non aventi un vincolo di stretta parentela col proprietario, ha violato sia il principio di libera circolazione dei capitali, sia l’articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea relativo al diritto di proprietà.

Con la sentenza in esame, la Corte afferma che, incidendo sui diritti di usufrutto di cui cittadini di altri Stati membri sono titolari, direttamente o indirettamente (cioè mediante una persona giuridica), la soppressione di cui si tratta costituisce una restrizione al principio della libera circolazione dei capitali. Detta restrizione, nel caso di specie, non può essere giustificata, conformemente al principio di proporzionalità, né dal fatto che l’Ungheria intenda riservare i terreni agricoli alle persone che li sfruttano e impedire l’acquisto di tali terreni a fini speculativi, né da una presunta volontà del legislatore ungherese di sanzionare infrazioni alle norme nazionali sul controllo dei cambi e sull’acquisto di terreni agricoli asseritamente commesse dagli acquirenti stranieri dei diritti di usufrutto.

La privazione di proprietà risultante dalla normativa contestata non è giustificata da ragioni di pubblico interesse, né accompagnata da un regime di pagamento di una giusta indennità in tempo utile, e dunque lede il diritto di proprietà garantito dalla Carta.

 

9. Responsabilità della Bce

Sentenza del Tribunale dell’Unione europea del 23 maggio 2019, causa T-107/17

Diritto delle istituzioni – Il Tribunale respinge il ricorso per risarcimento del danno presentato contro la BCE da alcuni investitori privati che hanno subito perdite a causa della ristrutturazione del debito pubblico greco nel 2012

Frank Steinhoff e a./Banca Centrale Europea (BCE)

Tipo di procedimento: domanda di risarcimento

La responsabilità extracontrattuale della Bce presuppone che siano soddisfatte tre condizioni cumulative:

1) che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli e che la violazione sia sufficientemente qualificata;

2) che sia stabilita l’esistenza del danno;

3) infine, che sussista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente all’autore dell’atto e il danno subìto.

In tali circostanze, il Tribunale sottolinea che l’ampio potere discrezionale di cui dispone la Bce al momento dell’adozione dei suoi pareri implica che solo un travalicamento manifesto e grave dei limiti di tale potere può far sorgere la sua responsabilità extracontrattuale.

In assenza di qualsiasi elemento di prova che dimostri che la Bce ha commesso una violazione sufficientemente qualificata del diritto dell’Unione, il Tribunale respinge il ricorso per risarcimento del danno.

 

10. Indipendenza delle procure dal potere esecutivo

Sentenza della Cgue (Grande Sezione) del 27 maggio 2019, Cause riunite C-508/18 e C-82/19 PPU

Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Le procure tedesche non offrono una garanzia di indipendenza dal potere esecutivo sufficiente per poter emettere un mandato di arresto europeo

OG (Procura di Lubecca), PPU, PI (Procura di Zwickau), PF (Procuratore Generale di Lituania)

Tipo di procedimento: domanda di pronuncia pregiudiziale promossa dalla Supreme Court (Corte suprema, Irlanda) e dalla High Court (Alta Corte, Irlanda)

Due cittadini lituani e un cittadino rumeno si oppongono, dinanzi ai giudici irlandesi, all’esecuzione di mandati d’arresto europei emessi da alcune procure tedesche e dal procuratore generale di Lituania ai fini dell’esercizio di azioni penali. Essi sostengono che le procure tedesche e il procuratore generale di Lituania non sono competenti a emettere un mandato di arresto europeo, dacché non possono essere definite «autorità giudiziaria» ai sensi della decisione quadro relativa al mandato di arresto europeo.

Quanto alle procure tedesche, la Corte dichiara che, ai fini dell’adozione di un mandato di arresto europeo, esse non possono essere ricomprese tra le autorità giudiziarie ai sensi della citata legge quadro, in quanto esposte al rischio di ingerenze da parte del potere esecutivo, e segnatamente dal Ministro della giustizia.

Non così, invece, per il procuratore generale della Lituania, che possiede uno status che gli conferisce una garanzia di indipendenza rispetto al potere esecutivo nel quadro dell’emissione di un mandato di arresto europeo. Questi, pertanto, può essere qualificato come «autorità giudiziaria emittente».

 

11. Commissario europeo “licenziato”

Sentenza del Tribunale dell’Unione europea del 6 giugno 2019, Causa T-399/17

Diritto delle istituzioni - Il Tribunale respinge il ricorso di un ex commissario europeo che chiedeva il risarcimento del presunto danno subito per effetto della cessazione dalle sue funzioni.

John Dalli/Commissione

Tipo di procedimento: domanda di risarcimento

Un ex commissario europeo ha adito il Tribunale per ottenere il risarcimento del danno che gli avrebbe causato il presunto comportamento illegittimo della Commissione, compreso l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), connesso alla cessazione dalle sue funzioni quale membro della Commissione, con effetto immediato il 16 ottobre 2012.

Il ricorso veniva respinto sul presupposto che il ricorrente non avesse dimostrato l’esistenza di un comportamento illegittimo dell’OLAF o della Commissione. Inoltre, procedendo ad un esame ad abundantiam, aggiungeva che il ricorrente non ha dimostrato la sussistenza di un nesso di causalità sufficientemente diretto tra i comportamenti criticati e il danno asserito, e neppure l’esistenza del danno stesso.

 

12. Discriminazione degli sportivi extracomunitari non professionisti

Sentenza della Cgue (Terza Sezione) del 13 giugno 2019, Causa C-22/18

L’esclusione parziale di cittadini di altri Stati membri dai campionati tedeschi di atletica leggera nella categoria senior, a livello amatoriale, può essere contraria al diritto dell’Unione

TopFit eV, Daniele Biffi/Deutscher Leichtathletikverband eV

Tipo di procedimento: domanda di pronuncia pregiudiziale dall’Amtsgericht Darmstadt (tribunale circoscrizionale di Darmstadt, Germania)

Nel 2016 il Deutscher Leichtathletikverband eV («DLV» - Federazione tedesca di atletica leggera), ha eliminato dal regolamento tedesco sull’atletica leggera la possibilità di partecipare ai campionati tedeschi di atletica leggera nella categoria senior, a livello amatoriale, ai cittadini di altri Stati membri titolari di un diritto di partecipazione a nome di un’associazione sportiva o di un’associazione tra atleti tedesca. Il divieto era giustificato dal fatto che il campione tedesco dovesse essere unicamente un atleta di cittadinanza tedesca, che potesse partecipare ai campionati internazionali sotto l’abbreviazione «GER», vale a dire Germania.

Il cittadino italiano Biffi, escluso dalle competizioni a causa della menzionata disposizione, nonché l’associazione sportiva berlinese di cui è membro, hanno adito l’Amtsgericht Darmstadt (tribunale circoscrizionale di Darmstadt, Germania), che ha sollevato la pregiudiziale innanzi alla Corte, chiedendo se tale condizione di cittadinanza costituisca una discriminazione illegittima, contraria al diritto dell’Unione.

La Corte rileva che in astratto è possibile riservare l’attribuzione del titolo di campione nazionale in una determinata disciplina sportiva ad un cittadino nazionale, a condizione però che le restrizioni per i cittadini dell’Unione siano conformi al principio di proporzionalità. Spetta pertanto al giudice nazionale stabilire di caso in caso se vi sia violazione del predetto principio di proporzionalità. Tuttavia, un meccanismo di automatica non ammissione alla partecipazione di un atleta straniero ad un campionato nazionale, quantomeno alle eliminatorie e/o come esterno, a motivo della sua cittadinanza risulta in ogni caso sproporzionata.

 

13. Marchio Adidas

Sentenza del Tribunale dell’Unione europea del 19 giugno 2019, Causa T-307/17

Il Tribunale dell’UE conferma la nullità del marchio dell’Unione dell’Adidas che consiste in tre strisce parallele applicate in qualsiasi direzione

Adidas AG/EUIPO

Nel 2016 l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) aveva annullato la registrazione in favore dell’Adidas, effettuata nel 2014, del marchio costituito da tre strisce parallele equidistanti, applicate sul prodotto in qualsiasi direzione, ritenendolo privo di qualsiasi carattere distintivo.

Investito della questione su domanda dalla Adidas, il Tribunale ha accertato la correttezza della decisione dell’EUIPO, dal momento che la ricorrente non era riuscita a provare che il predetto marchio avesse acquisito in tutto il territorio dell’Unione un carattere distintivo in seguito all’uso che ne era stato fatto.

 

14. Età pensionabile dei giudici

Sentenza della Cgue (Grande Sezione) del 24 giugno 2019, Causa C-619/18

Principi del diritto comunitario - Le disposizioni della normativa polacca sull’abbassamento dell’età per il pensionamento dei giudici della Corte suprema sono contrarie al diritto dell’Unione

Commissione europea/Repubblica di Polonia

Il 3 aprile 2018 entrava in vigore la legge di riforma della Corte suprema della Repubblica di Polonia che tra l’altro prevedeva l’abbassava dell’età per il pensionamento dei giudici della a 65 anni, anche se nominati prima di tale data, e conferiva al Presidente della Repubblica il potere di concedere un’eventuale proroga, con decisione discrezionale e non sindacabile.

La Commissione ricorreva per inadempimento alla Corte di giustizia, lamentando la lesione di principi d’inamovibilità, indipendenza e imparzialità dei giudici.

Il principio di inamovibilità esige, in particolare, che i giudici possano continuare a esercitare le proprie funzioni finché non abbiano raggiunto l’età obbligatoria per il pensionamento. Questo principio può conoscere eccezioni solo se giustificate da motivi legittimi e imperativi, nel rispetto del principio di proporzionalità. Nel caso di specie, l’abbassamento dell’età per il pensionamento dei giudici già in carica comporta la cessazione anticipata dell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali. Ciò in concreto consente al presidente della Repubblica di decidere, in modo discrezionale, di prorogare l’esercizio delle funzioni di quasi un terzo dei membri in carica dell’organo giurisdizionale, tra i quali la prima presidente.

Inoltre, le garanzie di indipendenza e di imparzialità degli organi giurisdizionali richiedono che l’organo interessato eserciti le sue funzioni in piena autonomia, essendo tutelato contro interventi o pressioni esterni. Il potere di proroga subordinato a una decisione discrezionale, non delimitato da alcun criterio oggettivo e non impugnabile è idoneo a suscitare legittimi dubbi quanto all’impermeabilità dei giudici interessati rispetto a elementi esterni, e alla loro neutralità rispetto agli interessi che possono trovarsi contrapposti dinanzi ad essi.



[1] Per un commento più approfondito della sentenza richiamata, si rimanda a F. Buffa e S. Centonze, Conseguenze della condanna penale del rifugiato secondo la sentenza CGUE del 14 maggio 2019, in questa Rivista on-line, 14 giugno 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/conseguenze-della-condanna-penale-del-rifugiato-secondo-la-sentenza-della-cgue-del-14-maggio-2019_14-06-2019.php.

11/09/2019
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