Magistratura democratica
Magistratura e società

25 Aprile e stato d’eccezione

di Paolo Borgna
Pubblico ministero a Torino
La commemorazione della Liberazione dal nazifascismo come occasione per riflettere sul futuro della libertà (e della giustizia)

È arduo ricordare il 25 Aprile in tempi di stato d’eccezione. In giorni in cui le parole che ci accompagnano sono “stiamo a casa”; “distanziamento sociale”; “sorveglianza digitale”; “mappatura costante con videocamere e droni”. Uno stato d’eccezione così immanente, prima ancora che nei decreti legge del Governo, nelle nostre teste: al punto che due ragazzi di diciotto anni che alle due di notte si baciano in piedi sul marciapiede di una via deserta vengono denunciati da un solerte cittadino, che si affaccia alla finestra e chiama la volante della polizia.

Tutto giusto e (a parte qualche eccesso) tutto necessario. L’esserci imbattuti nel “cigno nero”, l’improbabile e quasi impossibile che diventa realtà, ha plasmato i nostri comportamenti collettivi e privati. Siamo noi stessi ad invocare la nostra prigionia. Ex captivitate salus. La potenza evocativa dei camion militari che nella notte di Bergamo portano via centinaia di bare per distribuirle nei forni crematori di altre città è tale che, per garantirci la sopravvivenza, rinunciamo volontariamente a tutto ciò che, fino a ieri, pensavamo irrinunciabile.

Ma offenderemmo la memoria dei nostri padri e dei nostri maestri – che organizzarono e fecero la Resistenza o che, per non combattere per la Repubblica sociale, rimasero prigionieri venti mesi nei campi di concentramento tedeschi – se, commemorando il 25 Aprile, non ragionassimo sui rischi che il panico sconfinato di oggi può avere sulle nostre libertà di domani. “Ricordiamoci – ha scritto Mattia Feltri[1] - che settantacinque anni fa si rischiava la vita per la libertà, ora si rischia la libertà per la vita”. E’ da questo folgorante memento che dobbiamo partire per onorare il ricordo di chi ci ha dato tre quarti di secolo di libertà: per ricordare il “Natale della nostra democrazia” e per riflettere sui valori della Carta costituzionale.

La pandemia sta delineando un mondo nuovo non solo per la futura economia ma anche per i diritti di libertà. In questo nuovo mondo, avremo bisogno – come diceva De Gasperi nel dopoguerra a proposito dell’Europa - di “senso dell’urgenza” e, contemporaneamente, “di lungimiranza”. Oggi avvertiamo molto senso dell’urgenza. Attrezziamoci ad avere lungimiranza.

Ancora una parola va però detta sull’urgenza.

Tutte le limitazioni al lavoro, alla vita sociale e alla nostra libertà di movimento che abbiamo avuto dall’inizio di marzo ad oggi erano e sono necessarie. Tutti, a volte in anticipo a volte in ritardo, lo abbiamo capito. Per questo abbiamo sostanzialmente sorvolato sul rispetto delle competenze, delle procedure e sulla emanazione di “norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie”[2]; mettendo un potente silenziatore alle critiche sul modo di legiferare in via d’urgenza da parte del Governo. Forse, in futuro, qualcuno dirà che c’è stata eccessiva timidezza da parte della comunità dei giuristi. Io penso invece che questa sorta di autocensura non sia stata dettata da pavidità nei confronti dell’esecutivo ma, piuttosto, da rispetto e gratitudine verso le migliaia di medici, infermieri, rianimatori dei reparti Covid, verso i tanti operatori del settore sanitario che, ormai in pensione, hanno chiesto volontariamente di combattere contro il flagello, lasciando le loro case per settimane o mesi, rischiando di persona. Penso che agli occhi di queste grandi Italiane e grandi Italiani – che si sono messi o rimessi in gioco per salvarci la vita – le critiche, fatte dalle nostre comode scrivanie, sulle procedure con cui il governo andava adottando i suoi provvedimenti, sarebbero apparse ingiuriose. E noi avremmo fatto la figura di quei borghesi che, durante la Grande Guerra, se ne stavano “con le mogli sui letti di lana”, di cui parlavano le noti dolenti di “Gorizia” (antica canzone socialista che, ragazzi negli anni Sessanta, ancora sentivamo cantare dagli anziani che, cinquant’anni prima, erano stati in trincea).

Ma, uscendo (si spera) dall’emergenza, l’esercizio della critica diventa un dovere. E lo sguardo deve tornare lungimirante.

Sappiamo bene che, nel corso dei secoli, gli shock collettivi sono stati momenti fondanti nuovi equilibri di potere. Le memorie familiari ci fanno pensare agli anni successivi alla prima guerra mondiale. Gli storici ci parlano, soprattutto, degli anni della “crisi generale del XVII secolo”, seguiti alla peste pandemica europea, che segnarono l’inizio del passaggio dal feudalesimo al capitalismo.

Tutti gli analisti – economici, sociali, storici – sono oggi concordi a prevedere che la lentissima uscita dalla pandemia costituirà l’inizio di una fase di transizione verso nuovi assetti.

Un punto ci inquieta, per il futuro. L’ideologia del controllo totale. L’allegra facilità nel rinunciare ad importanti libertà personali, come prezzo da pagare al nuovo feticismo della sicurezza. Di fronte allo shock del virus, con l’idea che ogni altra persona – un vicino di casa, un collega, un amico, un parente – è un potenziale portatore di infezione[3], ci viene prospettato il futuro scenario di un regime di sorveglianza digitale. Come prima cosa, dovremo pagare la libertà di uscire di casa con la sorveglianza telematica sui nostri spostamenti e contatti. Poi si vedrà. Ma noi sappiamo che, quando si fanno simili passi, è poi difficile tornare indietro. Le soluzioni ad un’emergenza sono spesso diventate regole e modelli di comportamento della vita ordinaria. Oggi dobbiamo difendere la salute pubblica. Domani ci potrebbero dire che dobbiamo combattere i terroristi, gli evasori fiscali, i maniaci sessuali, i ladri di appartamento. Lo scivolo per trasformare lo stato d’eccezione in norma ordinaria è ripido e assai sdrucciolevole.

Certo: non dobbiamo esagerare nei nostri timori, perché nulla è automatico e gli anticorpi democratici, sviluppati nei settantacinque anni di libertà regalataci dai nostri padri, sono robusti.

Ma poiché, ogni tanto, sentiamo evocare con ammirazione “le magnifiche sorti e progressive” del regime di sorveglianza alla cinese, è bene ricordare che la Cina è un regime illiberale. Che in Cina nessun momento della quotidianità di ogni cittadino passa inosservato. Che in Cina – grazie alla sorveglianza digitale, ai droni e a duecento milioni di videocamere a volte dotate anche di dispositivi di riconoscimento facciale sparse nelle strade, nei negozi, nelle stazioni e negli aeroporti - è stato introdotto un controllo totalitario in grado di osservare e valutare ogni passo, ogni incontro, ogni acquisto, ogni azione di ogni cittadino. E sulla base di tale sistema di controllo vige un sistema di punteggio sociale che ti premia o punisce: chi si comporta bene, compra cibi sani, non fa commenti contrari al governo, non incontra avversari del regime, legge soltanto giornali o frequenta siti vicini al partito, guadagna punti, può ottenere il visto per un viaggio o mutui a condizioni vantaggiose. Al contrario, chi ha comportamenti opposti, perde punti, avrà svantaggi che possono arrivare alla perdita del lavoro.[4]

E dunque, senza drammatizzare e pur sapendo che l’Italia non è la Cina, è bene dire sin d’ora che se qualcuno, volendo fare il nostro bene, volendo difendere la nostra salute e con tutte le possibili buone intenzioni volesse lastricare una strada che guarda al modello cinese, deve sapere che ci saranno delle minoranze che useranno tutte le armi della critica per mobilitare, per dare battaglia con tutto l’ottimismo della volontà, al fine di impedire questa deriva.

 

C’è un curioso semplicismo che tende ad alimentare l’accettazione della applicazione incondizionata delle nuove tecnologie ai sistemi di controllo. Francamente, non penso che in Italia ci siano forze politiche che vorrebbero realizzare un controllo telematico totalitario sui cittadini, al fine di inculcarne le libertà. Lo farebbero in buona fede. Appunto: per il nostro bene. Ed è questo che fa paura. La storia è piena di esempi di cose nefaste fatte da chi voleva creare un uomo nuovo, più sano, più virtuoso, più utile alla società.

Perché semplicismo? Si dice: dato che la tecnica lo consente, perché non approfittarne?

Ragionando così, avremmo accettato in passato o accetteremmo oggi il “siero della verità”, i cibi geneticamente modificati, la eugenetica; e ciascuno può trovare altri esempi in tanti campi diversi.

***

Anche nel dibattito su come si potrebbe delineare il processo penale del prossimo futuro, ritroviamo la stessa faciloneria.

Come è noto, in sede di conversione del decreto “Cura Italia”[5] è stato inserito, con emendamento, un comma 12 bis all’art. 83, in cui si prevede che qualsiasi udienza penale (che non preveda la partecipazione di testimoni che non siano ufficiali o agenti di P.G.)[6] possa essere tenuta “mediante collegamenti da remoto”. Dunque, fino al 30 giugno tale collegamento sarà possibile per qualunque tipo di udienza (anche quando l’imputato non è persona detenuta o internata). E tutti i soggetti processuali, a cominciare dal giudice e pubblico ministero, potranno non essere presenti in aula ma collegati dal luogo da loro scelto. Il solo soggetto che deve necessariamente partecipare all’udienza stando nei locali dell’ufficio è l’ausiliario del giudice, incaricato di redigere il verbale.

Personalmente condivido non solo le perplessità già ampiamente esposte, su questa rivista, da Andrea Natale e Luca Fidelio.[7]

Penso siano condivisibili anche le più radicali critiche formulate da gran parte dell’avvocatura, secondo cui questo modello di processo delocalizzato, in cui i giudici (compresi i giudici popolari) stanno a loro piacimento nei loro uffici o nelle loro case, gli imputati nei loro domicili o in carcere e gli avvocati dove credono, sia contrario al principio del contraddittorio e dell’immediatezza di un processo celebrato “davanti al giudice” (che non può voler dire ciascuno davanti a uno schermo). Perché distanza fisica e mediata attraverso un collegamento telematico incidono sulla percezione degli esami testimoniali e degli interrogatori. Ed inoltre perché, da parte del Governo e del Parlamento, non vi è stata alcuna rassicurazione formale sul fatto che la fine dell’emergenza virus segnerà l’immediata chiusura delle misure eccezionali.

Inoltre, per le udienze di convalida – per cui il decreto prevede la possibilità che l’arrestato e il fermato possano essere collegati telematicamente dall’ufficio di polizia – valgano i rilievi critici di Natale e Fidelio: “Non è indifferente che una persona arrestata partecipi all’udienza di convalida in un’aula di udienza o nell’ufficio della polizia giudiziaria che lo ha appena tratto in arresto; né è indifferente che – come la recente storia giudiziaria tragicamente insegna – un giudice possa avere un contatto diretto e attento con l’arrestato; né è indifferente che tutti i protagonisti dell’udienza abbiano una possibilità di agile interlocuzione, che non si può nutrire delle sole frasi veicolate dalla telematica”.[8] Meglio non si può dire.

A questi rilievi critici mi sento di aggiungere che il processo con il giudice collegato da remoto non è in grado di assicurare l’attenzione del giudice al processo. Da sempre gli avvocati, per assicurare questa attenzione, hanno dovuto lottare contro i leggendari occhiali da sole inforcati da un giudice durante un’arringa pomeridiana. La delocalizzazione del giudice renderà ancor più ardua questa battaglia. Capisco che talune pittoresche espressioni impiegate dagli avvocati per descrivere questa situazione possano urtare la sensibilità di tanti giudici laboriosi e diligenti: il processo fatto sul divano; il processo in pigiama; il processo fatto con il mouse in una mano e nell’altra mano il giocattolo con cui si intrattiene il figlio. Sono espressioni forse ingenerose ma noi magistrati non dobbiamo mai dimenticare quante volte, nel corso della nostra esperienza professionale, la voce critica di un avvocato – colta durante un affondo polemico che, al momento, ci pareva offensivo – a distanza di tempo ci ha fatto riflettere e ci ha aiutato a mettere a fuoco un problema che non eravamo riusciti a vedere.

Si potrebbero forse rassicurare gli avversari del processo da remoto dicendo che, certamente, la stragrande maggioranza dei giudici italiani non ama celebrare processi davanti a un video ma preferisce farlo in un’aula di Tribunale, avendo l’imputato di fronte e seguendo senza mediazioni tecnologiche la dialettica delle parti. Osservazione più che giusta.

Si potrebbe anche, più cinicamente, rispondere alle preoccupazioni ricordate, rilevando che l’attuazione pratica di questo processo dematerializzato sarà molto difficile. Basti ricordare le condizioni necessarie a celebrare il processo da remoto, elencate da Giuseppe Santalucia: contestuale effettiva reciproca visibilità delle persone presenti nei vari luoghi con possibilità effettiva di udire quanto viene detto; anche quando vi sia una pluralità di collegamenti da luoghi remoti, in modo che tutti siano messi nella condizione di vedere e udire gli altri. Consentire al difensore ed al suo sostituto di essere presenti nel luogo remoto e in quello ove opera il giudice ponendoli nelle condizioni di consultarsi con l’imputato per mezzo di strumenti tecnici idonei. Rendere possibile – stante l’equiparazione del luogo remoto a quello d’aula d’udienza - che il giudice eserciti, anche da remoto, i poteri di direzione e disciplina dell’udienza[9]. Per chi abbia una sia pur minima esperienza di udienze con collegamento da remoto dell’imputato e dei continui problemi tecnici che accompagnano tali collegamenti (problemi che, in presenza di più collegamenti di diversi soggetti, saranno moltiplicati), è sufficiente ricordare questa elencazione di precetti operativi per scommettere, senza grande rischio, sul fatto che questo comma 12 bis è la classica “norma manifesto” che in pratica troverà difficilissima attuazione (braccialetto elettronico docet). Ma è assai magra soddisfazione: non vogliamo essere costretti a sperare che il giusto processo debba fondarsi sulla inefficienza dello Stato!

E comunque, c’è, sullo sfondo, un’altra questione. E’ inutile far finta di non vederla.

A sostenere il provvedimento governativo c’è un’idea di fondo: che la “smaterializzazione del processo” sia una prospettiva per il futuro, sia la modernità, che oggi la pandemia ha solo anticipato e che, prima o poi, dovremo auspicare.

Ebbene: è l’idea di processo che sta dietro questa prospettiva che non ci piace. Non è un’idea moderna. E’ un’idea regressiva, che ben si inquadra nella tendenza universale della crisi delle democrazie liberali.

Noi stessi ci siamo trovati a pensarlo: l’irrompere delle tecnologie nella nostra vita di tutti i giorni è inarrestabile. Dunque non è pensabile che questa tendenza non si riverberi anche nel processo. Nel difendere il processo tradizionale, con l’imputato davanti al suo giudice, siamo i difensori di principi ancora vivi o siamo soltanto i conservatori di un passato in dissoluzione? Il dubbio è radicale. Come sempre sono radicali i dubbi che irrompono nelle fasi di transizione.

Ci si dice: tutti i giorni dialoghiamo in skype con i nostri figli o amici che studiano e lavorano in giro per il mondo. Perché non dovremmo, con lo stesso mezzo, interrogare e processare un imputato che sta altrove, stando noi comodamente seduti alla scrivania dei nostri studi di casa?

Ebbene, no. Non è così. Perché, mentre la sera dialogo con mia figlia che lavora a Berlino, io posso interrompermi, rispondere al telefono, commentare una notizia che lei legge sul suo smartphone; posso alzarmi e prendere una birra in frigo mentre lei continua a conversare con mia moglie e poi riprendere i nostri discorsi.

Il processo è un’altra cosa. Processare e assolvere o condannare una persona è cosa sacra, quasi sovrumana. E’ l’esercizio di un diritto-dovere terribile. Ed è necessario che tutto questo sia fatto con un rito, che ogni giorno confermi la drammatica sacralità del giudicare.

Infine: bisogna sempre sapersi mettere nei panni dell’altro. Ce lo hanno insegnato i nostri maestri, che conquistarono per noi il 25 aprile: pensare, sempre, all’altro punto di vista. Che, per i magistrati, vuol dire: pensare al punto di vista dell’imputato.

Ebbene. Se io fossi un imputato portato a giudizio, io vorrei parlare al mio giudice guardandolo in faccia, esporre le mie ragioni fissandolo negli occhi. Magari non lo farei. Magari mi avvarrei della facoltà di non rispondere. Ma voglio avere il diritto di farlo.

E allora, non è vero che da una parte c’è il conservatorismo e dall’altra la modernità. Da una parte c’è il rispetto della dignità della persona e dall’altra l’attenuazione di tale rispetto.

Infine, ci viene detto: perché allarmarvi tanto? Non stiamo parlando del processo dei prossimi anni. Stiamo parlando di una norma a termine. Come hanno scritto Natale e Fidelio: il processo da remoto, configurato dal comma 12 bis, “non dovrebbe protrarsi oltre il 30 giugno”. Apprezzo molto, in questa loro frase, l’uso del condizionale presente.

Il timore è che, tra qualche mese, si debba usare il condizionale passato: “non avrebbe dovuto protrarsi oltre il 30 giugno”.

Ciò non accadrà soltanto se, contro la “normalizzazione” della misura “eccezionale” oggi introdotta, ci sarà una mobilitazione culturale che si attrezzi a contrastare lo “spirito del tempo”. Spirito che soffia in un’unica direzione, con un’idea dominante: i tempi del processo si possono abbreviare soltanto con meno contraddittorio, meno immediatezza, meno diritti dell’imputato.

Norma transitoria? Sappiamo che, in Italia, non c’è nulla di più definitivo delle norme transitorie. Sappiamo che le norme eccezionali tendono sempre ad estendersi.

Non è una nostra opinione. Lo diciamo perché è sempre stato così.

E’ vero che, come ci dicono i filosofi, la prima lezione della storia è che non impariamo lezioni dalla storia. Ma come possiamo dimenticarci l’abnorme estensione che dal 1986 ad oggi ha avuto l’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario? O l’ancor più ampia dilatazione del divieto di concessione dei benefici previsto, dal maggio 1991, dall’art. 4 bis di tale ordinamento?[10] E come possiamo dimenticare l’origine e la mutazione genetica della norma che è la pietra miliare della tendenza alla smaterializzazione del processo (l’art. 146 bis delle norme di att. c.p.p.)? Nata nel gennaio 1998 per consentire la partecipazione a distanza solo di imputati di reati di mafia, di sequestro di persona a scopo di estorsione e di associazione per droga, la norma si è dapprima estesa a tutti i casi dell’art. 407.2 lett. a) n. 4 c.p.p. Quindi, con l’aumento costante dei reati attribuiti alla competenza della Procura distrettuale (art. 51, comma 3 bis c.p.p., richiamato dal primo comma dell’art. 146 bis norme att. c.p.p.) la regola ha trovato applicazione ad una serie molto più ampia di reati.[11] Infine, il collegamento da remoto è stato reso possibile, a discrezione del giudice, per tutti i procedimenti particolarmente complessi in cui il giudice ravvisi generiche “ragioni di sicurezza” e necessità di evitare ritardi.

L’espansione smisurata della norma ha prodotto anche – come dicevamo – una sua mutazione genetica. Nasce come regola applicabile solo nei processi di mafia e in alcuni di criminalità organizzata, al fine dichiarato di evitare pericolose traduzioni di persone detenute in carceri distanti dal luogo di celebrazione del processo. Ed ora è applicabile anche nei processi ai venditori di magliette con il coccodrillo contraffatto. Il fine, evidentemente, è ormai un altro: la maggior comodità, il risparmio dei soldi della traduzione dell’imputato. Soprattutto: i reati per cui è prevista la rinuncia alla regola della presenza fisica dell’imputato davanti al suo giudice sono reati non certo tutti particolarmente pericolosi ma sicuramente “odiosi”. Perlomeno, “odiosi” per il loro titolo. Ma sarebbe meglio dire: per i titoli dei giornali che li raccontano. Odiosi i reati. Odiosi gli imputati cui vengono attribuiti. Nemici del popolo. Nemici della morale. Per loro, tutti i valori costituzionali del contraddittorio forse valgono un po’ meno.

***

La crescita costante del fenomeno della smaterializzazione del processo non è dunque un vago timore. E’ una realtà: in sviluppo da oltre vent’anni. Come ha scritto Francesco Petrelli, “il problema non è quello di prevedere il futuro ma di comprenderlo quando arriva”.[12]

Non vorrei essere troppo pessimista ma, come sottofondo della leggerezza con cui questi temi sono generalmente affrontati, mi pare di cogliere una attenuata attenzione dei magistrati al problema dell’equilibrio e della convivenza tra diversi valori costituzionali.

Faccio un unico esempio, sul tema che più mi colpisce: l’utilizzo sempre più ampio del trojan horse, conseguente al combinato disposto del D.L. n. 161/2019 (“riforma Bonafede”) e della legge n. 3 del 2019 (c.d. spazzacorrotti). Un combinato disposto che – come rileva Giuseppe Santalucia – ha prodotto, soprattutto sul piano della utilizzabilità per reati diversi da quelli per cui l’intercettazione è stata disposta, “un’estensione dell’ambito applicativo dello strumento in assenza di una sufficiente chiara indicazione di campo da parte del legislatore”.[13]

Ebbene: a parte alcuni recenti qualificatissimi interventi, mi ha colpito come, su questi temi, siano finora mancate, tra i magistrati, discussioni non tanto sugli aspetti tecnici di applicazione delle norme, quanto sui principi costituzionali toccati.

Quando, una quarantina d’anni fa, entrai in magistratura ero stato sorpreso dalle parole di un esponente torinese di quella che allora si chiamava “la sinistra di M.d.” il quale – commentando gli indiscutibili successi di un giudice istruttore che aveva sgominato i sequestri di persona in Piemonte – aveva detto: “sì, certo; però lo ha fatto intercettando i telefoni di mezza Torino”. Ovviamente, quel magistrato aveva torto. Ma il suo commento era l’espressione di una discussione aspra e profonda con i colleghi che la pensavano diversamente, che però aveva, alla base, una comune consapevolezza: si trattava di coniugare il principio della libertà e segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni, che l’art. 15 Costituzione proclama “inviolabile”, con l’obbligatorietà di indagare e reprimere reati gravissimi che attentano alla libertà e alla vita di altri cittadini. Si trattava di comprendere fino a che punto le indagini potevano spingersi nel limitare la segretezza delle comunicazioni di altre persone, probabilmente non coinvolte nei reati. Si trattava di trovare il punto di equilibrio. La posta in gioco era chiara a tutti. Di questo si discuteva. Su questo si litigava. Se penso alla facilità con cui oggi vengono chieste, autorizzate e lungamente prorogate intercettazioni per reati infinitamente meno gravi del sequestro di persona a scopo di estorsione, a volte mi viene un po’ di nostalgia per le accese discussioni di quarant’anni fa.

Ci viene detto: ma quelle intercettazioni, con quelle modalità ed estensione, sono utili. Certo che sono utili! Ma ci vogliamo, ogni tanto, ricordare che nella vita, e tanto più nel processo, non tutto quello che è utile è anche giusto? Cosa risponderemmo a chi ci venisse a dire che le torture degli Americani a Guantanamo sono state molto utili per fare confessare molti terroristi? D’accordo: il paragone è esasperato. Ma ci aiuta a capire che la risposta “è utile alle indagini” non può soddisfarci. E che ciò che secondo la nostra Costituzione costituisce l’eccezione non può diventare la regola.

Fino a che punto, in nome della legge e della ricerca della sicurezza, il diritto costituzionale dell’articolo 15 può essere compresso? Fino a quando potremo esercitare questo così esteso potere di controllo sulle comunicazioni senza diventare i Gerd Wielser delle vite degli altri italiani?

C’è un limite oltre il quale – ci ha ricordato recentemente Giovanni Verde – “la nostra Repubblica (pensata come) democratica liberale” si trasforma in uno “Stato etico”.

In questo 25 aprile (ma anche dopo), fermiamoci a meditare su questo ammonimento.

 

[1] Il Buongiorno, su “La Stampa” del 26 marzo 2020.

[2] Così, Sabino Cassese, La pandemia non è una guerra. I pieni poteri al governo non sono legittimi, Il Dubbio 14 aprile 2020. Per una compiuta e approfondita analisi della legiferazione di emergenza, nelle prime settimane della pandemia, v. Chiara Tripodina, La Costituzione al tempo del Coronavirus, in “Costituzionalismo.it”, fasc. 1/2020.

 

[3] Questo timore del vicino come possibile portatore di virus è la cosa che più intimamente potrebbe cambiare, nei prossimi anni, il nostro vivere quotidiano. Ancora una volta, come spesso ci accade in questi giorni, torniamo a rileggere Manzoni; che, in questo caso, cita parole del Ripamonti: “Non del vicino soltanto, si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio” (I promessi sposi, cap. XXXII)

[4] V. il filosofo coreano Byung-Chul Han, in La cura al virus è lo Stato di polizia?, in Avvenire del 7 aprile 2020, p. 25.

[5] D.L. n.18 del 2020.

[6] Più precisamente, la norma indica a contrario le udienze che si possono tenere con collegamenti da remoto: quelle “che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private e dai rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, da interpreti o consulenti o periti”. Il che significa, enucleando la regola in positivo, come ha fatto Giuseppe Santalucia, che non si potrà tenere l’udienza con collegamenti da remoto quando ad essa debbano intervenire: testimoni non appartenenti alla polizia giudiziaria; coimputati o imputati di reati connessi o collegati per i quali si proceda separatamente; altre persone, sempre diverse dalla polizia giudiziaria, la cui presenza sia necessaria per l’assunzione di determinati mezzi di prova (ad esempio, una ricognizione, un confronto, un esperimento): v. G. Santalucia, La tecnica al servizio della giustizia penale. Attività giudiziaria a distanza nella conversione del decreto “cura Italia”, in Giustizia insieme, 10.4.2020.

[7] A. Natale e L. Fidelio, Emergenza COVID-19 e giudizio di merito: un catalogo (incompleto) dei problemi. In Questione giustizia, 16 aprile 2020.

[8] Ibidem.

[9] G. Santalucia, La tecnica al servizio della giustizia penale, cit.

[10] Sull’abnorme estensione di questa norma basti rilevare che il divieto dei benefici è arrivato a riguardare persino l’art. 12 comma 1 del T.U. sull’immigrazione: vale a dire il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non motivata né da scopo di lucro né altrimenti aggravata.

[11] 416, 6° e 7° comma c.p.; associazione finalizzata all’immigrazione clandestina; associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi, alla contraffazione di marchi e al commercio di merce contraffatta, alla riduzione in schiavitù e alla tratta; voto di scambio; traffico illecito di rifiuti.

[12] Francesco Petrelli, Comprendere il futuro, in Diritto di Difesa, 15 aprile 2020.

[13] G. Santalucia, Il diritto alla riservatezza nella nuova disciplina delle intercettazioni, note a margine del decreto legge n. 161 del 2019, in Sistema penale, 1/2020; pp. 47 e ss.. Sul tema v. anche Davide Pretti, La metamorfosi delle intercettazioni: la contro-riforma Bonafede e l’inarrestabile mito della segretezza delle comunicazioni, in Sistema penale, 2/2020, pp. 71 e ss.

25/04/2020
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