Il caso oggetto della decisione
Il problema affrontato dalla pronuncia in commento – Cassazione, sezione II penale, n. 14440/2013, P.G. in proc. Camerin – concerne il riconoscimento nell'ordinamento italiano di una sentenza penale emessa dal giudice svizzero.
La Corte d'appello di Trieste, con sentenza del 9 febbraio 2012, aveva rigettato la richiesta di riconoscimento, in applicazione dell'art. 733 comma 1 lett. b) c.p.p.: la sentenza straniera conteneva, secondo la Corte d'appello, disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano, in quanto priva di motivazione.
La censura è stata dunque indirizzata ad un aspetto formale della decisione: i principi fondamentali chiamati in gioco sono quelli relativi al giusto processo, enucleati, per quanto riguarda l'ordinamento italiano, dall'art. 111 Cost..
Nel caso di specie le sole disposizioni che entrano in gioco sono quelle dell'ordinamento italiano: nessuna rilevanza assume la Convenzione sulla validità internazionale dei giudizi repressivi, adottata a L'Aja il 28 maggio 1970, sottoscritta dai Paesi membri del Consiglio d'Europa e ratificata dall'Italia con l. n. 305/1977. Bisogna infatti considerare che la Corte d'appello di Trieste era stata chiamata a decidere sul riconoscimento della sentenza penale svizzera agli effetti di cui all'art. 12 comma 1 nn. 1 e 4 c.p..
In questi casi, com'è stato correttamente osservato in dottrina, “il riconoscimento prescinde completamente dagli effetti che sono propri della sentenza nell'ordinamento giuridico di provenienza, limitandosi a far discendere dalla sentenza straniera taluni effetti che sono indicati in modo del tutto indipendente dalla legge italiana e in particolare gli stessi effetti che, esclusa la pena principale, sarebbero scaturiti qualora la sentenza fosse stata pronunciata da un giudice italiano” (cfr. G. Salvini, voce Sentenza VI, riconoscimento delle sentenze penali straniere, in Enciclopedia giuridica, s.a., p. 1). La Convenzione del 1970 si muove nell'orizzonte della “esecuzione extraterritoriale del giudicato straniero nella sua interezza (e cioè ai fini dell'esecuzione della pena principale)” (cfr. G. Salvini, voce Sentenza, cit., p. 3), dunque in un ambito radicalmente diverso da quello in cui si colloca la controversia analizzata in questo breve commento.
Considerazioni preliminari sull'applicabilità dell'art. 733 comma 1 lett. b) c.p.p.
A questo punto è opportuno premettere alcune considerazioni sulla disposizione che sia la Corte d'appello che la Cassazione hanno invocato per affrontare il profilo dell'assenza di motivazione nella sentenza straniera: l'art. 733 comma 1 lett. b) c.p.p. sembra riferirsi, in effetti, esclusivamente al cosiddetto ordine pubblico in senso sostanziale – i.e. ai principi fondamentali del diritto penale sostanziale - e non anche all'ordine pubblico processuale – i.e. ai principi fondamentali del diritto processuale penale. Sono richiamate, infatti, le disposizioni della sentenza straniera contrarie ai principi fondamentali dell'ordinamento e, sul piano letterale, tale espressione rimanda al contenuto precettivo del provvedimento e non alle carenze del procedimento che lo ha preceduto.
Lo dimostra anche la lettura della successiva lettera c) dello stesso art. 733 c.p.p.: qui si fa riferimento a caratteristiche imprescindibili del giusto processo, che certamente rientrerebbero nella nozione di ordine pubblico formale o processuale. Ne consegue che, se l'art. 733 comma 1 lett. b) c.p.p. fosse considerato come un riferimento anche all'ordine pubblico processuale, la successiva lettera c) diverrebbe una disposizione inutile, in quanto meramente ripetitiva di un nucleo concettuale già insito nella precedente lettera b).
Se si accoglie tale prospettiva ermeneutica, bisogna concludere che il giudice del riconoscimento può sindacare solo il rispetto dei principi del giusto processo espressamente richiamati dal nostro codice di rito: l'indipendenza e l'imparzialità del giudice, la citazione dell'imputato a comparire in giudizio, il diritto dell'imputato di essere interrogato in una lingua a lui comprensibile e di essere assistito da un difensore. Sembra, quindi, che il legislatore italiano si sia premurato di assicurare, rispetto al procedimento straniero, soprattutto, se non esclusivamente, la partecipazione dell'imputato al contraddittorio processuale, tralasciando ogni riferimento all'apparato motivazionale del provvedimento definitivo.
Questo punto non è affrontato dalla pronuncia in commento: qui si ritiene pacifico il fatto che l'art. 733 comma 1 lett. b) c.p.p. si riferisca anche ai principi fondamentali di natura processuale e non si opera un raffronto con la successiva lettera c). Di conseguenza il giudice italiano s'interroga solo sul rapporto tra l'assenza della motivazione nella sentenza della Corte di Lugano e l'ordine pubblico processuale italiano e non mette in discussione il potere del giudice dello Stato in cui è chiesto il riconoscimento di censurare il provvedimento straniero per quanto concerne la presenza o meno della motivazione. Visto il tenore letterale delle summenzionate disposizioni, sembra tuttavia necessario partire dalla seconda questione e solo successivamente, qualora la si risolva in senso affermativo, procedere con la disamina della prima.
Bisogna innanzi tutto segnalare la posizione prevalente in dottrina, secondo cui il giudizio di contrarietà ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano deve essere compiuto attraverso una valutazione che abbia “ad oggetto l'intero procedimento, le norme sostanziali e processuali applicate, il dispositivo e la motivazione della sentenza” (cfr. Gaetano De Amicis, commento sub art. 733 c.p.p., in Codice di procedura penale, a cura di Giovanni Tranchina, Giuffrè, 2008, vol. II, p. 5382, corsivo aggiunto). Ferma su queste conclusioni è anche la giurisprudenza di legittimità, come dimostra la sentenza che qui si commenta, laddove, per l'appunto, è operata, sotto il segno dell'art. 733 comma 1 lett. b) c.p.p., una valutazione avente ad oggetto una questione processuale, non relativa dunque a norme di natura sostanziale.
Una tale dilatazione del significato da attribuire all'art. 733 comma 1 lett. b) c.p.p. trova le sue origini nella dottrina sviluppatasi a proposito dell'art. 674 c.p.p. (1930). Questa disposizione prevedeva le condizioni in presenza delle quali la Corte d'appello non potesse procedere al riconoscimento della sentenza straniera e menzionava, al n. 1, il caso in cui il condannato non fosse stato citato a comparire in giudizio o non fosse stato assistito o rappresentato da un difensore, e, al n. 3, l'ipotesi in cui le disposizioni della sentenza straniera fossero contrarie ai principi fondamentali dell'ordinamento italiano.
Con l'entrata in vigore dell'attuale codice di rito, i requisiti di natura processuale indispensabili ai fini del riconoscimento della sentenza straniera sono stati opportunamente integrati rispetto alla più scarna disposizione del codice previgente. Di conseguenza, sembrano venute meno le ragioni che avevano spinto parte della dottrina (cfr. M. Chiavario, nota a Cassazione, sezione III penale, 29 settembre 1964, in Foro it., 1965, II, 205)a ritenere che, nonostante il tenore letterale della disposizione, nell'ambito dell'art. 674 n. 3 c.p.p. (1930) rientrassero anche i principi fondamentali di natura processuale.
Non si può, in altri termini, non considerare il fatto che il legislatore abbia dedicato un'apposita disposizione al tema della compatibilità del rito straniero con i principi del processo penale italiano. L'art. 733 comma 1 lett. c) rappresenta inequivocabilmente la norma preposta ad assicurare che la sentenza straniera non sia riconosciuta nel nostro ordinamento, se il procedimento che l'ha preceduta non ha rispettato determinati standard minimi di garanzia per l'imputato.
Inoltre il riferimento esplicito dell'art. 733 comma 1 lett. b) c.p.p. alle “disposizioni” è perspicuo e non si vede come possa ricondursi al concetto del contenuto dispositivo della sentenza la strutturazione delle fasi del procedimento che ne precedono l'emanazione.
Limiti al riconoscimento e giusto processo
A questo punto si tratta di verificare se la limitazione della verifica di compatibilità soltanto ai profili di rito indicati dall'art. 733 comma 1 lett. c) ponga problemi sul piano della rispetto dell'art. 111 Cost.. Certamente l'ambito delle garanzie richiamate dal codice di rito è più ristretto di quelle enucleate a livello costituzionale: la Costituzione, per l'appunto, stabilisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati, mentre alla necessità della motivazione non si fa cenno nell'art. 733 c.p.p..
Non è detto che queste discrasie tra l'art. 733 comma 1 lett. c) c.p.p. e l'art. 111 Cost. debbano tradursi in una censura in termini d'illegittimità costituzionale. Piuttosto bisogna considerare che una cosa è pretendere la compatibilità della procedura straniera con i principi del processo penale italiano, altra cosa è impuntarsi sulla necessità di una perfetta specularità tra processo straniero e processo italiano.
Proprio l'esempio portato dalla sentenza in commento chiarisce questa distinzione: si pensi ai procedimenti penali con giuria, laddove, come nota correttamente la Cassazione, “l'obbligo di motivazione assume aspetti contenutistici del tutto peculiari” (cfr. Cassazione, sezione II penale, n. 14440/2013, cit.). Si capisce, pertanto, che l'art. 111 Cost., da un lato, e l'art. 733 comma 1 lett. c), dall'altro, hanno un raggio d'azione diverso e che, in sede di giudizio di riconoscimento della sentenza penale straniera, non si può ragionare come se si trattasse di valutare il rapporto tra il diritto processuale nazionale e i nostri principi costituzionali in materia. Poiché in tal caso i principi del giusto processo devono confrontarsi con un oggetto strutturalmente comparabile, ma comunque estraneo al nostro contesto normativo, è naturale che essi si concretizzino in maniera sempre diversa, a seconda dell'ordinamento da cui proviene la decisione da riconoscere.
E' ragionevole, quindi, che il codice di procedura penale, nel momento in cui enuclea i requisiti formali del riconoscimento della sentenza straniera, si muova in un orizzonte parzialmente diverso da quello dell'art. 111 Cost., limitandosi ad individuare soltanto aspetti di primissimo piano della procedura, in mancanza dei quali sarebbe effettivamente fuori luogo parlare di giusto processo, anche a prescindere dall'ordinamento giuridico di riferimento.
Inoltre l'art. 733 comma 1 lett. c) c.p.p. sembra porsi perfettamente in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. E' noto che l'ordinamento del Consiglio d'Europa, in cui si colloca la Corte di Strasburgo, abbraccia tradizioni giuridiche assai differenti tra loro, il che non può che ripercuotersi sui moduli procedimentali adottati in ambito penale e, specificamente, sulla struttura interna delle decisioni giurisdizionali in materia penale.
Non è quindi un caso che proprio la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia avuto modo di affermare che l'assenza di motivazione non costituisce di per sé una violazione dell'art. 6 CEDU, perché ciò che conta è che l'imputato e il pubblico siano messi nella condizione di comprendere le ragioni della decisione e quest'obiettivo si realizza non tanto attraverso l'esposizione scritta delle ragioni che il giudice pone a sostegno dell'eventuale condanna, ma soprattutto attraverso un'articolazione della dialettica processuale che consenta una partecipazione attiva dell'imputato e un'informazione adeguata dell'opinione pubblica sullo svolgimento del processo (su questo punto, la Cassazione richiama il precedente della Corte di Strasburgo, Taxquet c. Belgio, del 16 novembre 2010). Del resto, non può tacersi la circostanza che lo stesso art. 6 CEDU non fa alcun riferimento alla motivazione del provvedimento conclusivo, ma si concentra sulla struttura garantista del procedimento.
In quest'ottica si pone anche la disposizione del nostro codice di rito: i richiami alla citazione dell'imputato in giudizio, all'interrogatorio dell'imputato in una lingua a lui comprensibile e alla difesa tecnica sono volti proprio a garantire che l'interessato sia posto in una situazione tale da penetrare le ragioni del procedimento prima della decisione, il che costituisce una garanzia ben più solida di quella che si realizzerebbe allorché l'imputato fosse destinatario di una condanna pur ben motivata, ma frutto di una dinamica a cui egli sia rimasto sostanzialmente estraneo. Il perno delle garanzie del giusto processo non è nella struttura interna della sentenza, ma in quella delle fasi che la precedono, e una motivazione esaustiva non è condizione né necessaria né sufficiente di una procedura garantista.
Bisogna poi riflettere sull'eventualità che una sopravvalutazione del peso della motivazione nel giusto processo comporti degli effetti paradossali, cioè contrari alle sue stesse finalità garantiste. Si pensi all'ipotesi in cui la sufficienza e la congruenza dell'apparato motivazionale della sentenza straniera siano scambiate per indizi certi dell'elevato livello di garanzie nella procedura straniera, quando invece è più importante accertare quanto l'imputato abbia potuto concretamente incidere con le sue argomentazioni difensive sulla formazione del convincimento del giudice.
Necessità di una valutazione globale del procedimento
Si può quindi concludere che la motivazione è un requisito di per sé irrilevante ai fini del riconoscimento della sentenza straniera (cfr. Cassazione, sezione II penale, 18 marzo 1977, Romano, in Cass. pen., 1978, 1026; contra Cassazione, sezione II penale, 7 febbraio 1964, in Cass. pen. mass., 1964, 564) e che il giudice italiano deve piuttosto concentrarsi sulle possibilità di difesa riconosciute dall'ordinamento straniero all'imputato. In tal senso depongono sia il tenore letterale dell'art. 733 comma 1 lett. c) c.p.p., che non menziona la motivazione tra i requisiti formali della sentenza straniera, sia il fatto che la motivazione non rientra nel nucleo dei principi del giusto processo, come dimostra lo stesso art. 6 CEDU.
Ciò non toglie che la motivazione possa assumere un ruolo decisivo, ma, per così dire, indiretto, nella misura in cui proprio attraverso la motivazione si possa ripercorrere lo svolgimento del processo e verificare quanto la difesa abbia effettivamente potuto incidere sulla decisione. L'assenza della motivazione può certamente essere sintomatica di una condizione meramente passiva della difesa rispetto alla decisione assunta, tale da non consentire il riconoscimento della sentenza nell'ordinamento italiano, ma non può mai, se considerata in maniera assoluta, assurgere al ruolo di discrimine tra livello adeguato e inadeguato della garanzie processuali.
La decisione della Cassazione qui commentata è dunque pienamente condivisibile, specialmente se si considera che l'assenza della motivazione nella sentenza svizzera era dovuta non già ad un deficit di garanzie dell'ordinamento straniero, ma ad una consapevole scelta processuale dell'imputato.
Nel processo penale svizzero è possibile che l'imputato scelga liberamente un modello procedimentale semplificato, in base al quale il provvedimento definitivo contiene soltanto una ricapitolazione dell'accusa e degli aspetti salienti del giudizio, senza una motivazione specifica della decisione. E' quanto si è verificato nel caso Camerin, in cui l'imputato, evidentemente ritenendo già sufficiente ai fini della comprensione dell'accusa e dell'eventuale condanna il modo in cui si era concretamente svolto il procedimento, ha rinunciato sua sponte ad una motivazione esaustiva della decisione. In questo caso, addirittura, l'assenza della motivazione diviene espressione del rispetto del diritto di difesa, in quanto testimonia un'adeguata partecipazione dell'imputato alla dialettica processuale e ciò conferma l'impossibilità di valutare il rapporto tra il rispetto dell'obbligo di motivazione e il giusto processo, decontestualizzando la decisione dalla struttura del procedimento in cui s'inserisce.
In sostanza, ciò che conta è una considerazione complessiva del procedimento, al fine di valutarne la conformità ai principi fondamentali enucleati sia dall'art. 111 Cost. sia dall'art. 6 CEDU.
Questa considerazione vale sia per il processo penale che per il processo civile, come dimostra la sua corrispondenza allo spirito che anima una recente sentenza della stessa Corte di cassazione, sezione I civile, n. 11021/2013.
In riferimento a quest'ultima pronuncia, il discorso deve tener conto di una leggera differenza rispetto al caso descritto finora: la limitazione dei diritti difensivi non conseguiva ad una rinuncia volontaria della parte, ma costituiva una sanzione processuale disposta dal giudice inglese nei confronti del convenuto, per essersi questi ripetutamente sottratto all'esecuzione di provvedimenti interinali nel corso del giudizio civile.
Esiste nell'ordinamento inglese l'istituto del debarment, che comporta di fatto l'esclusione della parte dal giudizio qualora ella sia ritenuta responsabile di contempt of Court: l'inadempimento delle ordinanze emesse nel corso del procedimento può costituire un'ipotesi di oltraggio alla Corte tale da giustificare questa drastica misura, che sostanzialmente recide la possibilità per la parte di articolare le sue difese.
I giudici italiani sono stati chiamati a verificare se l'istituto del debarment sia contrario all'ordine pubblico processuale, cioè se si traduca in una compressione ingiustificata dei diritti della parte, tale da determinare un contrasto insanabile con i principi del processo civile italiano.
Si noti che, in tema di processo civile, il limite del contrasto con l'ordine pubblico è previsto dall'art. 27 n. 1 della Convenzione di Bruxelles del 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, conclusa dagli allora Stati membri delle Comunità europee e, in seguito, ratificata dall'Italia con l. n. 804/1971. Questa Convenzione è stata sostituita dal Regolamento CE n. 44/2001, a sua volta abrogato dal Regolamento UE n. 1215/2012: in quest'ultimo testo normativo, all'art. 45 n. 1 lett. a), si legge che il riconoscimento è negato, su istanza della parte interessata, se esso è manifestamente contrario all'ordine pubblico nello Stato membro richiesto.
In ogni caso, nella controversia qui menzionata ha trovato applicazione, ratione temporis, la Convenzione del 1968 e, pertanto, bisogna tener conto dell'interpretazione della clausola dell'ordine pubblico fornita dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea in riferimento a tale accordo internazionale: in particolar modo, il riferimento va alle sentenze 28 marzo 2000, causa C-7/98, Krombach e 2 aprile 2009, causa C-394/2007, Gambazzi (quest'ultima resa su rinvio pregiudiziale della Corte d'appello di Milano, nel medesimo procedimento che ha portato alla sentenza della Cassazione n. 11021/2013).
In entrambe queste decisioni la Corte di giustizia ha affermato che la nozione di ordine pubblico non può essere enucleata in maniera unitaria per tutti gli Stati che aderiscono alla Convenzione, poiché essa deve adattarsi ai principi caratterizzanti i singoli ordinamenti. Il compito della Corte di giustizia, pertanto, non può andare oltre la verifica dei “limiti entro i quali il giudice di uno Stato contraente può ricorrere a tale nozione per non riconoscere una decisione emanata da un giudice di un altro Stato contraente” (cfr. CGUE, sentenza C-394/2007, Gambazzi, punto n. 26).
Ebbene, rispetto al provvedimento di debarment tipico dell'ordinamento inglese, la Corte di giustizia, proprio nella sentenza Gambazzi, sostiene che in tanto può parlarsi di contrasto con l'ordine pubblico processuale italiano in quanto la misura risulti, ad un esame condotto ovviamente dal giudice cui il riconoscimento è richiesto, manifestamente sproporzionata “rispetto allo scopo perseguito, che consiste nell’assicurare l’efficace svolgimento del procedimento al fine di una corretta amministrazione della giustizia” (cfr. CGUE, sentenza Gambazzi, cit.,punto n. 32).
Una valutazione di proporzionalità che tenga conto, da un lato, della gravità della condotta processuale della parte e, dall'altro, dell'adeguatezza della misura conseguenzialmente adottata a garantire il buon funzionamento dell'amministrazione della giustizia, non può che concretizzarsi in un giudizio complessivo sul procedimento svoltosi all'estero.
Ne consegue che un atto processuale, il quale, isolatamente considerato, può apparire come una manifesta e inaccettabile lesione del diritto di difesa – tali sono certamente la previsione di una sorta di contumacia forzata (caso Gambazzi) e una sentenza priva di motivazione(caso Camerin)– deve sempre e comunque essere adeguatamente contestualizzato per verificare se effettivamente una simile lesione si sia verificata e se essa sia o meno ingiustificata.
Il contrasto insanabile con l'ordine pubblico processuale, in sostanza, non può mai inferirsi sulla scorta di un superficiale accostamento tra norme processuali italiane e straniere: le apparenti aporie del procedimento straniero rispetto ai canoni del giusto processo possono rivelarsi, ad un esame globale della fattispecie, come moduli ragionevoli e giustificabili di articolazione del giudizio.