Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

Quale sanzione per il licenziamento tardivo? Commento alla sentenza della Cassazione n. 30985/2017 (Sez. Unite)

di Anna Terzi
consigliere della Corte di appello di Trento
Attraverso l’esercizio del potere disciplinare il datore di lavoro può imporre l’esatto adempimento della prestazione, colpendo con la sanzione la condotta non conforme. Il trascorrere del tempo senza contestazioni è invece significativo di una valutazione datoriale di fiducia sull’esatto adempimento della prestazione per il futuro, senza necessità di un intervento sanzionatorio. Il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, massima sanzione disciplinare, presuppone un inadempimento talmente grave da far venire meno l’elemento fiduciario. Non vi può essere compatibilità tra l’assenza di contestazioni protratta per lungo tempo in ordine alla condotta pienamente conosciuta che si assume inadempiente e l’interesse del datore di lavoro a sanzionarla, e tanto meno tra l’assenza di contestazioni e l’elisione dell’elemento fiduciario del rapporto.

1. Premesse

Con la sentenza in commento si è tentato di inquadrare nel contesto della normativa sui licenziamenti introdotta con la legge n. 92/2012 (Legge Fornero) un’ipotesi di illegittimità del licenziamento disciplinare, quella che deriva dalla tardività della contestazione, che non è immediatamente riconducibile ad alcuna delle diverse fattispecie di cui all’art. 18 legge n. 300/1970, così come modificato.

L’analisi critica del percorso argomentativo della decisone implica però premesse irrinunciabili per comprenderne la rilevanza e per apprezzarne le conseguenze.

Il potere disciplinare, attribuito al datore di lavoro dall’art. 2106 cc, è funzionale ad ottenere l’esatto adempimento della prestazione contrattuale definita nel contenuto secondo le mutevoli esigenze nel tempo dell’attività d’impresa (art. 2104 cc). Attraverso l’esercizio del potere disciplinare, il datore incide variamente sul rapporto contrattuale, censurando l’errore commesso e così creando un precedente valutabile per future mancanze (rimproveri), decurtando la retribuzione (multa), interrompendo temporaneamente l’esecuzione della prestazione (sospensione) o determinando la cessazione del rapporto quando l’inadempimento sia di tale gravità da elidere radicalmente la fiducia nell’esatto adempimento futuro. Si tratta quindi di un potere conformativo, da esercitare con criteri di proporzionalità (art. 2106 cc), nei limiti di quanto è necessario per ottenere che l’inesatto adempimento degli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105 cc non si ripeta nel futuro.

Nella subordinazione la persona del lavoratore è coinvolta sul piano relazionale e sul piano della dipendenza economica, nella vita quotidiana e nelle proiezioni verso il futuro. La contestazione e la sanzione di un addebito disciplinare mettono in discussione la capacità professionale e la diligenza, esprimono la soggezione alla valutazione dell’altra parte circa la propria capacità di rispondere agli standard di rendimento e, se ingiuste, inducono immediatamente il disagio della scelta tra subire e reagire, con i connessi rischi nel contesto di un rapporto gerarchico di indiscutibile dipendenza di una parte dall’altra. Si può quindi affermare che l’esercizio del potere conformativo oltre i fini per i quali è attribuito offende la dignità della persona in violazione dell’art. 41 Cost.

Da questi non contestabili rilievi discende che il potere disciplinare (un unicum nei rapporti di diritto privato) intanto è riconosciuto dall’ordinamento in quanto sia finalizzato alla realizzazione dell’interesse contrattuale giuridicamente rilevante per il quale è attribuito. Al di fuori di questo ambito il potere disciplinare non ha presupposto giuridico. L’ordinamento non consente l’esercizio arbitrario di poteri punitivi privati.

Le considerazioni fin qui svolte mettono in evidenza la eterogeneità ontologica tra licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cd. per motivi economici) e licenziamento disciplinare e la diversa “nozione” di libertà di impresa che viene in considerazione quanto al bilanciamento dei valori ex art. 41 Cost. nella disciplina limitativa dell’uno e dell’altro. Il controllo giurisdizionale sui presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo implica un apprezzamento di fatti inerenti all’organizzazione della attività di impresa, suscettibile di determinare divergenze di valutazioni tra piano giuridico e opportunità economica che può indurre a una scelta politica liberista di non interferenza della decisione giudiziale nella sfera operativa, circoscrivendo la sanzione, ancorché con funzione dissuasiva, a una espressione pecuniaria quale possibile costo della non conformità del licenziamento al modello normativo.

Il controllo giurisdizionale sul licenziamento disciplinare non implica invece alcuna sovrapposizione di valutazioni sul merito della organizzazione aziendale, sulle scelte tecniche, sulle strategie imprenditoriali, sul dimensionamento dell’apparato produttivo, sulla economicità di gestione: implica solo una verifica sulla correttezza della interpretazione unilaterale del datore di lavoro circa l’ampiezza degli obblighi e dei diritti insiti nella esecuzione del rapporto di lavoro e nel vincolo della subordinazione. Non diversamente da qualsiasi altro rapporto contrattuale rispetto al quale una parte invochi l’inadempimento dell’altra per sciogliersi dal vincolo. Non vi è un posto di lavoro soppresso di cui viene imposto il ripristino, vi è la sostituzione del lavoratore licenziato con un nuovo assunto. Una tutela blanda sottintende una nozione di libertà di impresa ben diversa, che riconosce alla parte economicamente forte del rapporto la possibilità di incidere, estinguendolo, sul rapporto contrattuale anche al di fuori dei presupposti normativi, per il perseguimento di fini diversi (e non necessariamente illeciti) da quelli per i quali il potere disciplinare è attribuito: la mancanza di una reazione dell’ordinamento realmente dissuasiva a un uso distorto del potere disciplinare reintroduce una concezione della subordinazione quale assoggettamento della persona del lavoratore al semplice volere del datore di lavoro, sicuramente lesiva della sua dignità, in violazione dell’art. 41 della Costituzione.

Queste considerazioni conducono a un’altra necessaria premessa.

La disciplina del rapporto di lavoro si è sviluppata dal 1942 ad oggi attraverso una progressiva modificazione delle norme del codice civile o loro sostituzione con leggi speciali, passando da una tutela minima delle condizioni di lavoro alla tutela del contraente debole, il lavoratore, quale persona. Le norme derogatorie o speciali rispetto alla disciplina generale dei contratti, dirette a enucleare diritti non disponibili del prestatore e a consentire il controllo giurisdizionale sugli atti datoriali di gestione del rapporto con essi in conflitto, hanno costituito un sottosistema fondante nozioni e categorie proprie.

La deroga, che ha generato il sottosistema, ha però sempre avuto un fondamento costituzionale negli artt. 2; 3, comma 2; 4; 36 e 41, comma 2 della Costituzione: gli obblighi di forma e di motivazione degli atti datoriali, la procedimentalizzazione delle decisioni (art. 7 legge n. 300/70, legge n. 233/91), la disciplina limitativa dei licenziamenti e così via hanno tutti una giustificazione nei valori costituzionali, che impedisce di ravvisare una irragionevole disparità di trattamento rispetto a principi generali in materia contrattuale ad iniziare da quello della libertà di recesso dal rapporto a tempo indeterminato. È il vincolo costituzionale alla libertà di impresa di cui all’art. 41 della Costituzione che ha costituito la base e l’orizzonte del sottosistema: «Il potere di iniziativa dell’imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento, e in specie non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana» [1].

I mutamenti normativi intervenuti in questi ultimi anni, tutti diretti a eliminare o ridurre i precedenti vincoli e ad ampliare i poteri del datore di lavoro, attraverso una diminuzione della intensità della reazione dell’ordinamento all’esercizio illegittimo (ovvero al di fuori dei presupposti) di tali poteri, hanno sicuramente rideterminato quest’orizzonte ed espresso una opzione nel bilanciamento degli interessi contrapposti di cui all’art. 41 Cost. più spostata verso le ragioni del liberismo economico. In materia di licenziamenti in particolare, senza sottrarre formalmente al giudice il controllo sulla legittimità del recesso, se ne sono depotenziati gli effetti riducendo dapprima con la legge n. 92/2012 e poi, drasticamente, con il d.lgs n. 23/2015 (cd. Jobs Act) le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento economico. Non può quindi sorprendere che in questo recente contesto le nuove norme siano sottoposte alla tensione di prospettive di approccio contrastanti, una delle quali più “innovatrice” e meno “tradizionalista”, oggi espressa soprattutto dal giudice di legittimità, spinge per una interpretazione della legge Fornero secondo gli intenti del d. lgs n. 23 del 2015.

Ciò che però si sta verificando sul piano giurisprudenziale va oltre. Assumendo, se così si può dire, il punto di vista del “legislatore storico”, la specialità del sottosistema viene sviluppata a contrario rispetto alle ragioni giustificatrici delle sue origini per optare, nel bilanciamento degli interessi in conflitto, per la composizione più favorevole al datore di lavoro, talora in deroga ai principi generali in materia di contratti. Senza però indicare quale sarebbe la base costituzionale di questo trattamento di privilegio rispetto a ogni altro contraente [2].

2. La sentenza delle Sezioni unite n. 30985/2017

La sentenza in commento ha affrontato una questione, rimessa alle Sezioni unite per la particolare importanza, già oggetto di riflessioni su questa rivista [3], scaturita da un caso concreto estremo, che ha evidenziato l’insufficienza del sistema introdotto dalla legge n. 92/2012, a incasellare tutte le varie ipotesi di illegittimità del licenziamento: un impiegato di banca riceve un’ispezione da cui emergono chiaramente e indiscutibilmente operazioni in violazione di norme interne, che integrano in astratto la fattispecie di grave inadempimento; la datrice di lavoro non assume alcuna iniziativa e nel biennio successivo gli affida altri incarichi fiduciari, con valutazioni positive; dopo due anni viene attivato il procedimento disciplinare e il dipendente viene licenziato.

La peculiarità del caso porta a decisioni contrastanti.

Il giudice della fase sommaria riconduce l’enorme tardività della contestazione a una illegittimità sostanziale e ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro; il giudice della fase di opposizione ravvisa un mero vizio procedurale e condanna al pagamento della indennità dimezzata ex comma 6 art. 18 legge n. 300/1970; il giudice d’appello esclude il vizio procedurale, trattandosi di un vizio che determina «il venir meno di uno degli elementi costitutivi del diritto di recesso», esprimendo l’inerzia protratta per tanto tempo, letta alla luce degli obblighi di correttezza e buona fede, una rinuncia al relativo diritto, con conseguente nullità di diritto comune dell’atto, in quanto non riconducibile ad alcuna delle fattispecie dell’art. 18 novellato: «Un’ipotesi siffatta, a giudizio del Collegio, che discende direttamente dalla disciplina codicistica in materia di obbligazioni si pone “prima” e al di fuori della casistica di cui all’art. 18 Statuto, come novellato dalla legge 28.6.2012, n.92».

Il giudice di legittimità viene quindi chiamato a pronunciarsi a Sezioni unite, sulla questione della individuazione della tutela, indennitaria o reintegratoria, applicabile in caso di tardività della contestazione disciplinare, al fine di prevenire un possibile contrasto tra due diversi orientamenti, quello che nega e quello che afferma il carattere sostanziale del vizio.

Dopo avere lungamente illustrato le difese delle parti e le ragioni della rimessione alle Sezioni unite, la Corte procede all’esame della questione controversa senza un inquadramento teorico della tardività quale causa di invalidità del licenziamento e senza premesse sistematiche sulla disciplina generale dei licenziamenti, ma semplicemente esaminando una per una le ipotesi di illegittimità a cui l’art. 18 legge n. 300/1970, a seguito delle modificazioni introdotte con la legge n. 92/2012, connette sanzioni diverse.

Esclude innanzi tutto la Corte l’applicabilità della tutela reintegratoria piena di cui al comma 1 dell’art. 18, in quanto la tardività non è tra le ipotesi di nullità o inefficacia espressamente previste e in quanto vizio non riconducibile alla nullità perché integrerebbe una forma di inadempimento del datore di lavoro agli obblighi di correttezza e buona fede «che attiene alla fase successiva ed attuativa della comunicazione del provvedimento espulsivo, senza alcun concorso alla formazione della causa che ha dato origine al recesso datoriale», vizio funzionale, dunque, e non genetico dell’atto. Afferma di conseguenza che non è condivisibile l’orientamento espresso dalla sentenza della Cassazione n. 2513/2017 [4], della riconduzione della tardività alla insussistenza del fatto, essendo il «fatto disciplinare» sempre valutabile dal giudicante, che deve solo verificare se la violazione della immediatezza della contestazione integri un vizio, e quale, del licenziamento. Esclude la tutela reintegratoria attenuata in quanto la tardività della contestazione non è riconducibile alla insussistenza del fatto, né a un illecito disciplinare punibile con una sanzione conservativa in base alle previsione dei contratti collettivi o dei codici disciplinari; affermazione che viene poi argomentata traendo riscontro dalla disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo che pure consente la tutela reintegratoria attenuata solo «per il caso di licenziamento ritenuto gravemente infondato in considerazione dell’accertata insussistenza … del fatto». Rileva che, negata l’applicabilità delle due forme di tutela reale, la questione attiene a quale tipo di tutela indennitaria debba essere applicata: se la tardività debba essere ricondotta al vizio formale del procedimento di contestazione ex art. 7 legge n. 300/1970, con tutela indennitaria attenuata, o al quinto comma dell’art. 18, con tutela indennitaria forte.

Così individuato il punto focale, la Corte, sempre senza tentare una definizione di tardività e senza porsi il quesito se la tardività possa avere significati giuridicamente diversi a seconda di come si esplichi in concreto, affronta in astratto il principio della tempestività della contestazione e lo riconduce a una previsione implicita dell’art. 7 legge n. 300/1970, individuandone la ratio non nel semplice rispetto delle regole, ma contestualmente nella necessità di garantire una difesa effettiva e nella esigenza di «tutelare il legittimo affidamento del prestatore … sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile». La Corte si esprime letteralmente in questi termini: «A ben vedere il fondamento logico-giuridico della regola generale della tempestività della contestazione disciplinare non soddisfa solo l’esigenza di assicurare al lavoratore incolpato l’agevole esercizio del diritto di difesa, quando questo possa essere compromesso dal trascorrere di un lasso di tempo eccessivo rispetto all’epoca di accertamento del fatto oggetto di addebito, ma appaga anche l’esigenza di impedire che l’indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori, nonché quella di tutelare l’affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia dello stesso datore di lavoro a sanzionare una mancanza disciplinare allorquando questi manifesti, attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente».

Alla «tardività notevole e ingiustificata» della contestazione viene quindi connessa la sanzione del quinto comma dell’art. 18, in quanto «da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale». E questa conclusione viene ulteriormente spiegata esplicitando che ciò che rileva sul piano disciplinare è un inadempimento, «vale a dire una mancata o inesatta esecuzione della prestazione che abbia arrecato pregiudizio all’interesse del datore di lavoro-creditore», il quale però non può contravvenire nell’esercizio del potere disciplinare, diretto a tutelare il suo interesse al «funzionamento complessivo dell’impresa», ai principi di correttezza e buona fede «scolpiti negli artt. 1175 e 1375 cc», la cui violazione, per l’ingiustificato notevole ritardo della contestazione disciplinare, non è più riconducibile all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori: «Invero, posto che l’obbligazione dedotta in contratto ha lo scopo di soddisfare l’interesse del creditore della prestazione, l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse».

L’argomentazione della riconducibilità della tardività al quinto comma e non al sesto comma dell’art. 18 si chiude con un richiamo alla giurisprudenza di legittimità sulla rinuncia al diritto per comportamento concludente e con questo passaggio: «Diversamente, qualora le norme di contratto collettivo o la stessa legge dovessero prevedere dei termini per la contestazione dell’addebito disciplinare, la relativa violazione verrebbe attratta, in quanto caratterizzata da contrarietà a norma di natura procedimentale, nell’alveo di applicazione del sesto comma del citato art. 18 che, nella sua nuova formulazione, è collegato alla violazione delle procedure di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 e dell’articolo 7 della legge n. 604 del 1966».

3. Alcune riflessioni critiche

L’approccio metodologico alla questione da decidere porta con sé una frammentazione di argomentazioni non inserite in un contesto sistematico che consenta di ricondurle immediatamente a una unitarietà di pensiero, fondante la decisione.

L’esordio che esclude l’applicabilità del primo comma dell’art. 18, a parte l’ovvio rilievo che la tardività non è fra le ipotesi di nullità esplicitamente previste (diversamente non si vede perché si sarebbe posta la questione) è ostico e non si confronta con la nozione di nullità ex art. 1418 cc.

Non è chiaro quale sia il profilo dell’atto di recesso, che è atto unilaterale di esecuzione del contratto (esercizio di un diritto o potere), che viene in esame per distinguerne il momento genetico da quello funzionale, così come non è chiaro perché la tardività dovrebbe risolversi in una semplice violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, criterio questo che, peraltro, la Corte d’appello ha utilizzato non come violazione «in sé» da cui sarebbe derivata una nullità, ma sotto il profilo dell’affidamento, ai fini della interpretazione della condotta del datore di lavoro quale rinuncia. E in ogni caso non veniva affatto in considerazione nel caso in decisione «la fase … attuativa della comunicazione del provvedimento espulsivo» ma la contestazione dell’illecito disciplinare ovvero l’atto anteriore con il quale il datore di lavoro rende noto al lavoratore di avere riscontrato una sua condotta contraria agli obblighi ex art. 2104 e 2105 cc e di avere interesse a sanzionarla.

L’affermazione è poi apodittica perché non argomenta le ragioni per le quali sarebbe da escludere un vizio strutturale dell’atto e segnatamente della causa dell’atto unilaterale, che viene ovviamente in considerazione ex artt. 1322, 1325 cc quale causa concreta dell’atto negoziale ossia sotto il profilo della realizzazione di un interesse tutelato e non contrastante con l’ordinamento, determinandosi diversamente una nullità ex art. 1418 cc. E nemmeno accenna al perché eventualmente l’atto di recesso dal rapporto di lavoro dovrebbe sottrarsi a questi principi generali in materia di contratti e atti negoziali unilaterali, così come elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina [5].

È noto il dibattito dottrinale ultracentenario sulla causa del negozio giuridico e sulla estensione della nozione all’atto unilaterale e non è questa la sede per approfondire la problematica. Ma è altresì noto che la giurisprudenza, con la maggior parte della dottrina, ha da tempo elaborato la nozione di causa dell’atto giuridico con riferimento agli interessi concretamente perseguiti, che, per gli atti tipici, devono corrispondere a quelli sottesi alla disciplina degli stessi, venendo in difetto a configurarsi una questione di meritevolezza ex art. 1322 cc [6].

In definitiva il quesito che avrebbe dovuto essere posto e risolto è se, essendo definiti i presupposti per il legittimo esercizio del potere di recesso dal rapporto di lavoro per motivi disciplinari ciò comporti conseguentemente anche la definizione degli interessi tutelati e se la tardività sia compatibile o no con la sussistenza di tali interessi. Se la tardività è significativa della insussistenza in radice (e non per mera sproporzione) dell’interesse tutelato con il potere di licenziamento disciplinare, perché la prosecuzione del rapporto di lavoro per due anni dopo l’accertamento della condotta è incompatibile con l’interesse a sanzionarla e a maggior ragione con la lesione dell’elemento fiduciario del rapporto, manca la causa giuridica tipica dell’atto negoziale riconosciuta dall’ordinamento e contestualmente, risolvendosi l’atto in una volontà di recesso in assenza dei presupposti, la causa concreta non merita tutela e confligge con una norma imperativa quale è sicuramente l’art. 41, comma 2 Cost., posta a tutela della dignità del lavoratore nel rapporto di lavoro, la cui natura immediatamente precettiva non può essere negata.

E forse, ancor prima di porsi questi quesiti, per una chiarezza di inquadramento, avrebbe dovuto essere definito a monte di quale tardività si stesse discutendo e se con il termine tardività non potessero, come si vedrà, essere indicate fattispecie diverse da tenere distinte quanto a natura ed effetti, sia per ciò che attiene alla contestazione sia per ciò che attiene alla successiva intimazione del licenziamento.

Gli argomenti con i quali viene esclusa la tutela reintegratoria attenuata non sono ugualmente convincenti.

L’insistenza sulla «insussistenza del fatto» quale nozione di riferimento, al fine di escluderne la ricorrenza, senza prendere alcuna posizione, nel passaggio della sentenza in cui ad essa viene fatto riferimento, in ordine al significato da attribuire a questa locuzione, si risolve in una petizione di principio. A meno di non voler leggere in quel passaggio una implicita adesione alla teoria della «insussistenza del fatto» come insussistenza della condotta contestata nella sua materialità, a prescindere dalla natura della condotta stessa. Si tratta di una lettura che non è condivisa dalla quasi totalità della dottrina e della giurisprudenza per l’assurdità delle conseguenze a cui darebbe luogo, ad iniziare dalla possibilità di sanzionare con la sola indennità risarcitoria un licenziamento per una condotta in sé esistente ma irrilevante sul piano disciplinare, non attinente agli obblighi che derivano dal rapporto di lavoro, lecita o addirittura doverosa, con palese irrazionalità non solo rispetto al licenziamento intimato per una condotta effettivamente inadempiente punita con sanzione conservativa dal contratto collettivo, ma anche rispetto allo scopo stesso della previsione di una tutela reintegratoria per tale ipotesi, quando sarebbe nell’arbitrio del datore di lavoro eluderla semplicemente contestando condotte estranee all’ambito di disciplinare e quindi proprio per questo non previste dai contratti collettivi. E questo senza tralasciare, a monte, il paradosso di una disciplina limitativa del recesso che contestualmente lo consentirebbe (in violazione dei principi generali in materia di contratti) per condotte che non costituiscono inadempimento.

L’argomento di riscontro per analogia con la previsione della «manifesta insussistenza del fatto» per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non può che aumentare le perplessità.

Nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo il «fatto» (nella accezione assunta dal comma 7 dell’art. 18) è una modificazione della realtà esterna operata dal datore di lavoro attraverso un cambiamento della organizzazione/produzione aziendale con soppressione di un posto di lavoro. È quindi davvero un «fatto» che deve essere oggettivamente riscontrabile. Nel licenziamento disciplinare invece il «fatto» è una condotta inadempiente rispetto agli obblighi contrattuali, principali o strumentali, funzionali alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte e consiste necessariamente in una valutazione giuridica. Il termine «fatto» ha nelle due previsioni due accezioni diverse ed eterogenee.

E benché la sentenza sul punto, in questo passaggio, sia anodina, che si tratti di inadempimento e non di condotta materiale risulta dalla argomentazione di chiusura che diversamente sarebbe intrinsecamente contraddittoria: «In definitiva, la insussistenza o la manifesta insussistenza che legittima l’accesso alla tutela reintegratoria attenuata non può non riguardare il difetto − nel medesimo fatto − di elementi essenziali della giusta causa o del giustificato motivo, tanto più che la riforma in esame di cui alla legge n. 92 del 2012 non ha modificato, per quel che qui interessa, le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla legge n. 604 del 1966».

Il rilievo è sicuramente esatto, ma, se così è, è indefettibile il riferimento all’art. 3 legge n. 604/1966 che definisce il presupposto del licenziamento disciplinare come «notevole inadempimento degli obblighi contrattuali». Ed allora si dovrebbero indicare, per dare compiutezza al ragionamento, quali siano gli elementi essenziale dell’inadempimento il cui difetto (insussistenza del fatto) giustifica la tutela reintegratoria, così dando contenuto all’art. 1176 cc quanto all’esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, per poi rispondere al quesito del se e del perché questi elementi essenziali invece sussistano in una ipotesi di tardività, di due anni, quale quella oggetto della sentenza.

E di nuovo, anche in questa prospettiva, è la nozione di «interesse giuridicamente tutelato» che fa capolino quale parametro di riferimento ex art. 1455 cc.

È, però, nel terzo passaggio della sentenza, quello in cui viene vagliata la questione di quale tipo di tutela indennitaria debba essere riconosciuta nell’ipotesi di tardività della contestazione disciplinare, che emergono chiaramente tutti i nodi non risolti nei due passaggi precedenti.

In un sistema che contempla sanzioni diverse che dovrebbero essere graduate in progressione secondo il diverso grado di illegittimità del recesso datoriale, la scelta, nel silenzio della norma, tra l’una e l’altra sanzione, nelle ipotesi non espressamente contemplate, dovrebbe seguire lo stesso ordine logico e portare ad individuare il regime da applicare per similitudine di gravità. Diversamente si introducono elementi di irrazionalità e disparità di trattamento.

La sentenza in commento non si pone, come si è visto, il problema in questi termini, ma precede per esclusione fino a questo passaggio dove individua la sanzione nella tutela indennitaria forte e dove opera una ponderazione comparativa tra le violazioni formali e sostanziali nella applicazione del provvedimento espulsivo.

È interessante notare che all’omessa definizione della tardività e della unicità o molteplicità delle fattispecie di tardività fa da contrappeso la definizione di tempestività della contestazione (che con la prima non coincide e non le è semplicemente speculare), desunta per implicito dall’art. 7 legge n. 300/1970, alla quale vengono correlate ragioni giustificative diverse e concorrenti: l’effettività del diritto di difesa, «l’esigenza di impedire che l’indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori», la tutela dell’affidamento del lavoratore sulla mancanza di connotazioni disciplinari nella sua condotta o sulla rinuncia del datore di lavoro a sanzionarla «allorquando questi manifesti attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente». Sono queste esigenze che indicano che la tardività comporta la violazione non di regole procedimentali formali, ma di un «principio generale di carattere sostanziale» ed è per questo che «quindi, la violazione derivante dalla tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare è sanzionabile alla stregua del quinto comma del citato art. 18, da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale».

Se si espunge, però, il riferimento alla «volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale», l’esame comparativo e le evidenziate esigenze sottostanti al principio di tempestività danno conto di una assenza di spiegazione del perché la tardività «notevole e ingiustificata» non debba essere assimilata alle ipotesi più gravi di illegittimità del licenziamento.

Se la tardività, e si sta discutendo di una ritardo di due anni, può sottendere un effetto intimidatorio, se può consentire l’esercizio arbitrario del diritto di recesso, se genera il legittimo affidamento su un comportamento concludente di rinuncia, se l’interesse del datore di lavoro che deve ricevere tutela è quello «al funzionamento complessivo dell’impresa» e se «l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, della insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse» (pag. 17) ci si deve chiedere qual è la ragione per la quale un licenziamento così intimato non debba essere assimilato alle ipotesi di totale assenza dei presupposti per il recesso.

Nuovamente torna la questione dell’esercizio del diritto in assenza dell’interesse tutelato e, di conseguenza, trattandosi di licenziamento disciplinare, della violazione dell’art. 41 della Costituzione. Del resto, se l’inerzia significa rinuncia, e questa è l’altra faccia della medaglia messa in luce dalla sentenza della Corte d’appello di Firenze, vi è una autovalutazione da parte del soggetto creditore della prestazione sulla insussistenza di una lesione del suo interesse e, contestualmente e conseguentemente, di una lesione dell’elemento fiduciario, valutazione di insussistenza che, come osserva la Corte fiorentina, sta al di fuori e viene prima della disciplina delle varie ipotesi di sanzione del licenziamento illegittimo.

L’argomento della “volontà del legislatore” inteso come legislatore storico è, poi, come noto, il più debole argomento interpretativo che possa essere speso. Soprattutto in una democrazia parlamentare, soprattutto per testi di legge come la legge Fornero, oggetto di intense trattative tra i partiti e con le parti sociali, tutti portatori di interessi contrapposti, la cui composizione ha prodotto un testo legislativo scarsamente apprezzabile sul piano della formulazione del testo delle varie disposizioni. La “volontà del legislatore” storico, id est del governo che ha promosso il provvedimento, non può poi prevalere sui principi costituzionali. Sembra infine che in questa citazione vi sia una sovrapposizione tra la “volontà del legislatore” del 2012 e la “volontà del legislatore” del 2015, sicuramente quest’ultima, a differenza della prima frutto di grandi compromessi, diretta a espandere nella massima misura la tutela solo indennitaria. Ed in ogni caso, nel contesto di una pronuncia non appagante sul piano sistematico, questo argomento della “volontà del legislatore” appare essere l’unico reale argomento che regge tutta la sentenza.

Infine, il passaggio finale rimarca il limite della pronuncia ossia l’avere abdicato sin dall’inizio al tentativo di dare una definizione della nozione di tardività.

Si legge nella sentenza: «Diversamente, qualora le norme di contratto collettivo o la stessa legge dovessero prevedere dei termini per la contestazione dell’addebito disciplinare, la relativa violazione verrebbe attratta, in quanto caratterizzata da contrarietà a norma di natura procedimentale, nell’alveo di applicazione del sesto comma del citato art. 18 che, nella sua nuova formulazione, è collegato alla violazione delle procedure di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 e dell’articolo 7 della legge n. 604 del 1966». Letteralmente questa affermazione starebbe a significare che, se il contratto collettivo o la legge avessero dettato scansioni temporali per la contestazione, un ritardo di due anni potrebbe essere sanzionato solo come vizio formale (art. 18 comma 6, legge n. 300/1970).

Ora, per quanto si è fin qui osservato, si deve ritenere che la Corte si sia male espressa, anche perché non si può contestualmente affermare che la tardività notevole e ingiustificata è violazione di un principio generale di carattere sostanziale e che la stessa, se vi sono termini per la contestazione previsti dal contratto collettivo, è invece un vizio formale. In realtà con il termine «tardività», e quel passaggio lo rende palese, si indicano fattispecie diverse, di cui quella rientrante nel comma 6 è una tardività di mera inosservanza di termini in un contesto o in un continuum procedimentale che non ha determinato alcuna lesione sostanziale del diritto di difesa, né alcun affidamento.

E da questa tardività si deve poi distinguere quella che si verifica per una dilatazione del procedimento disciplinare, che, pure aperto e a conoscenza del lavoratore, si prolunghi irragionevolmente, prima della contestazione o dopo la contestazione e prima del licenziamento, senza mai però ingenerare, per le caratteristiche del caso concreto, alcun affidamento sul disinteresse del datore di lavoro a sanzionare la condotta. A queste ipotesi si potrebbero forse riferire una parte degli argomenti spesi nella sentenza in commento, potendo essere il prolungamento ingiustificato della procedura, senza allontanamento del dipendente, significativo della mancanza non solo di una giusta causa ma anche di un giustificato motivo con sproporzione della sanzione espulsiva.

Sicuramente non è assimilabile a queste possibili “tardività” quella di due anni di ritardo nella contestazione, a fatti compiutamente accertati, senza alcuna reazione, con prosecuzione del rapporto in incarichi fiduciari.

La sentenza non è dunque una sentenza appagante perché non indica un percorso soddisfacente sul piano sistematico e non affronta le questioni nodali che pure emergono dall’argomentare. Non spiega perché l’esercizio del diritto di recesso dal rapporto di lavoro in assenza della lesione dell’interesse tutelato, quale è evidente nel caso trattato, non debba essere assimilato alla assenza dei presupposti per il recesso e dunque o ricondotto alle nullità ex art. 1418 cc, come pure dovrebbe essere secondo i principi generali, o, quanto meno, ricondotto alla insussistenza del fatto inteso come inadempimento giuridicamente rilevante e debba invece essere assimilata alle ipotesi di tutela minore, di sproporzione tra sanzione espulsiva e inadempimento [7], quando l’illecito disciplinare non sia punibile con sanzione conservativa in base al contratto collettivo o al codice disciplinare. E le medesime questioni, sia pure probabilmente non in casi così eclatanti, sono destinate a riproporsi anche con la disciplina introdotta con il d.lgs n. 23/2015, e segnatamente in relazione alla esistenza di una nullità espressa ex artt. 2, comma 1 e 1418, 1322 cc per mancanza di causa (interesse giuridicamente tutelato) o in relazione alla insussistenza del fatto materiale ex art. 3, comma 2 qualora inteso non come mera condotta assunta in un contesto avalutativo, ma come inadempimento giuridicamente rilevante [8].

 


[1] Corte Cost., n. 103/89.

[2] In occasione di incontri presso la Scuola superiore della magistratura e in alcune sentenze si sono sentite e lette anche affermazioni fideistiche sulla naturale propensione dell’impresa a prendere decisioni nell’interesse complessivo di tutti i lavoratori, in palese contraddizione con i dati di realtà economici e sulla distribuzione del reddito che attestano che l’utile di impresa non viene reinvestito ma tesaurizzato, tanto che, dopo studi durati anni commissionati per dimostrare il contrario, Fmi e Ocse hanno dovuto ammettere che non vi è alcuna correlazione tra diminuzione delle tutele per i lavoratori (subordinati e non subordinati) e aumento dell’occupazione e che l’Ocse ha invitato i governi a intervenire tassando le rendite finanziarie o i patrimoni a fini redistributivi. Vds. Cass. n. 25201/16; Emiliano Brancaccio, Flessibilità del lavoro, crescita economica e distribuzione del reddito, Scuola superiore della magistratura «La riforma del mercato del lavoro tra diritto ed economia», 26 ottobre 2016 Scandicci (Firenze); Rapporto Ocse 1918 Growing unequal?: Income Distribution and Poverty in OECD Countries; FMI World Economic Outlook 2016; World Bank, World Development Report 2013.

[3] A. Terzi, La nuova disciplina dei licenziamenti e le categorie del diritto civile. Una nuova stagione per il diritto del lavoro?, in questa Rivista on-line, 17 febbraio 2016, http://questionegiustizia.it/articolo/la-nuova-disciplina-dei-licenziamenti-e-le-categor_17-02-2016.php.

[4] M. Nardin, Il datore di lavoro e l’asso nella manica. Il licenziamento per giusta causa e la tardività della contestazione, in questa Rivista on-line, 20 febbraio 2017, http://questionegiustizia.it/articolo/il-datore-di-lavoro-e-l-asso-nella-manica_il-licenziamento-per-giusta-causa-e-la-tardivita-della-contestazione_20-02-2017.php.

[5] Cass. n. 1898/00, n. 10490/06, n. 23941/09, n. 8100/13, n. 16213/15. Sui contratti atipici Cass., Sez. unite, n. 3947/10, in materia di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale Cass., Sez. unite, n. 26972/00. In qualsiasi commentario al codice civile sono riportate le costruzioni teoriche dei massimi studiosi del negozio giuridico ed è illustrato dapprima il contrasto e poi il prevalere (per tutti Betti Giorgianni e Bianca) della nozione di causa quale funzione di regolamento in concreto degli interessi con estensione anche ai contratti tipici dell’art. 1322 cc.

[6] Vedi ad es. Cass., Sez. lav., n. 3121/2015: «Quanto fin qui detto, tuttavia, presuppone pur sempre che il licenziamento rechi motivazione coerente e sia fondato su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, che escludano l’arbitrarietà del recesso: in altri termini, il recesso deve pur sempre ricollegarsi ad interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento e dunque a ragioni obiettive ed effettive (che permettano la verifica dei detti interessi), operando sempre il principio di buona fede e correttezza (ex artt. 1175 e 1375 cc) quale limite al potere datoriale di recesso; per altro verso, la libertà di iniziativa economica non è in grado ex se di offrire copertura a licenziamenti immotivati o pretestuosi».

[7] La sanzione dell’articolo 18 comma 5 appare inoltre disallineata rispetto alla fattispecie che vi si vuole ricondurre sotto il profilo della quantificazione in concreto della sanzione tra 12 e 24 mensilità in base a indici calibrati anche sulla maggiore o minore gravità della condotta inadempiente del lavoratore, che, in astratto, nel caso in esame sarebbe secondo le stesse Sezioni unite idonea a giustificare il licenziamento.

[8] Sul punto hanno già scritto in modo incisivo vari autori e fra questi Giovanni Amoroso, Le tutele sostanziali e processuali del novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori tra giurisprudenza di legittimità e jobs act, relazione tenuta all'incontro di studio su La disciplina dei licenziamenti: un primo bilancio, Scuola superiore della magistratura, Corso P. 15023 del 13-15 aprile 2015.

21/05/2018
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