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Principio di bigenitorialità e prassi giurisprudenziali in tema di affidamento condiviso e di visite del genitore non collocatario *

di Leonardo Lenti
già professore ordinario di diritto privato, Università di Torino

Tracciata l'origine del principio di bigenitorialità e del diritto dei figli e dei genitori alla relazione reciproca, se ne esaminano le principali applicazioni: l'affidamento e il regime delle visite. Dopo aver criticato la larghezza con la quale viene pronunciato l'affidamento condiviso, si affronta il tema delle condotte ostative del genitore collocatario: si sottolinea la necessità di distinguere attentamente tra quelle giustificate e quelle ingiustificate e si segnalano i provvedimenti opportuni atti a prevenire e a sanzionare queste ultime.

1. Il principio di bigenitorialità

La locuzione principio di bigenitorialità, sconosciuta nel nostro diritto fino circa 30 anni fa, ha iniziato ad affermarsi nel primo decennio del XXI secolo, per poi dilagare nei tempi più recenti. È strettamente legata a uno dei principi fondamentali delle relazioni familiari, costantemente ripetuto dalla Corte europea dei diritti umani (in seguito Ctedu): i figli minorenni anzitutto, ma poi anche i loro genitori – non si deve mai dimenticarlo – hanno il diritto, detto appunto relazionale, di intrattenere fra loro una relazione affettiva reciproca di tipo familiare, senza subire intromissioni indebite da parte dell'autorità pubblica.

Alla base di questo principio giuridico di bigenitorialità vi sono la configurazione culturale stessa d'oggi della paternità e la sua funzione nella famiglia e nella società, profondamente trasformate rispetto al passato. È ben noto che le funzioni delle due figure genitoriali, un tempo diverse e ben distinte, vanno facendosi nei fatti sempre più simili.

Gli atteggiamenti psicologici dei padri verso l'allevamento dei figli sono oggi molto diversi da quelli di un tempo: dinanzi ai bisogni di accudimento materiale quotidiano dei loro bambini, sono crescenti la disponibilità a occuparsene, il desiderio e la capacità di farlo. La somiglianza delle funzioni porta con sé la tendenza a un certo grado di intercambiabilità tra la figura materna e quella paterna, una volta conclusa la fase biologica dell'allattamento.

Non è un caso se i primi paesi nei quali il principio di bigenitorialità è stato affermato sono proprio quelli che per primi hanno iniziato a sviluppare questa trasformazione dei ruoli familiari, in particolare di quello paterno.

L'evoluzione socio-culturale accennata, purtroppo, ha dato anche adito una forte crescita della litigiosità fra i genitori separati per la gestione dei figli: le liti, spesso molto acrimoniose, hanno raggiunto una frequenza che ancora negli ultimi decenni del secolo scorso sembrava impensabile.

Nell'ordinamento italiano la proclamazione a gran voce del principio di bigenitorialità è legata soprattutto a due leggi, risalenti a poco meno di 20 anni fa[1]. La prima è la l. 40/2004, che ha fatto leva su tale principio per motivare l'esclusione delle donne singole dall'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. La seconda è la l. 54/2006, che ha posto l'affidamento condiviso come regola, che dev'essere sempre seguita quando la coppia genitoriale si separa, salvo sia opportuno farvi eccezione per il miglior benessere dei figli.

In caso di scissione della coppia, la garanzia giuridica della bigenitorialità si presenta principalmente sotto due diversi aspetti, cui sono dedicati i paragrafi successivi: l'affidamento condiviso e la regolazione delle visite.

 

2. Il diritto dei figli e dei genitori alla relazione reciproca

Il diritto dei figli ­– ivi compresi quelli nati fuori dal matrimonio – e dei genitori ad avere una relazione affettiva reciproca di tipo familiare è sancito al massimo livello dalla costituzione (art. 30 c. 1°). La sua titolarità in capo ai figli è da decenni pacifica e non merita quindi particolari osservazioni.

Ma non si può dire altrettanto della sua titolarità in capo ai genitori: oggi è pacifica, ma da un tempo non altrettanto lungo[2]. Negli anni '80 e ancora '90 del secolo scorso l'idea che un genitore avesse il diritto a una relazione con i propri figli era comunemente negato: «i figli non sono nostri», poneva come titolo di un suo celebre libro del 1974 Gian Paolo Meucci, uno dei “padri fondatori“ del diritto minorile italiano.

Ma occorre intendersi bene su che cosa esattamente significava, a quel tempo, questa locuzione e in quale atmosfera culturale si collocava.

Rinvango rapidamente cose note: la patria potestà, secondo una tradizione plurisecolare, era un diritto del padre, in quanto capofamiglia e quindi unico interprete autorizzato del bene dei figli e dell'intera famiglia; era pressoché insindacabile e gli permetteva di imporre loro ciò che voleva, anche ricorrendo, in caso di necessità, all'aiuto dell'autorità pubblica.

Successivamente, nel periodo tra metà anni '60 e metà anni '70 del novecento, le relazioni tra genitori e figli si erano trasformate nella società in modo radicale, incompatibile con la nozione tradizionale di patria potestà. A quel tempo scrivere che «i figli non sono nostri» era un modo retoricamente molto efficace per affermare che non erano di proprietà del padre, né della madre, né delle loro famiglie, e che dovevano essere rispettati e amati nella loro peculiare individualità. Ma non intendeva affatto significare che i genitori non avessero il diritto di avere una relazione affettiva con i propri figli, a meno che ciò fosse gravemente nocivo per questi ultimi.

La riforma del 1975 aveva sancito tale trasformazione, stabilendo che la potestà, oltre a spettare paritariamente a entrambi i genitori, non era un diritto, ma una funzione, un diritto-dovere. Doveva essere esercitata per il bene dei figli, per promuovere le loro capacità e farne degli adulti consapevoli e responsabili, rispettando al massimo le loro inclinazioni naturali e le loro aspirazioni; dunque non per plasmarli secondo la volontà del padre, né della madre. In quanto funzione, era soggetta al controllo pregnante dell'autorità giudiziaria, che aveva il compito di intervenire a protezione dei figli minorenni, in vista del perseguimento del loro miglior interesse.

Oggi è venuta evidentemente meno l'esigenza argomentativa di contrapporre la nuova potestà dei genitori – poco felicemente rinominata responsabilità – alla vecchia patria potestà, onde rimarcare i tratti salienti di quella nuova, così diversi. Non resta quindi alcuna ragione per negare l'esistenza di un diritto dei genitori di avere con i propri figli un rapporto affettivo di tipo familiare e di esercitare la loro funzione di educazione e di assistenza morale e materiale.

Nel riconoscimento di questo diritto e nell'esigenza di garantirne la tutela con mezzi adeguati ha avuto un ruolo propulsivo fondamentale la Corte di Strasburgo, nelle sue numerose sentenze che hanno toccato questi temi e hanno spesso condannato l'Italia.

Lo scopo di questo breve scritto non è quello dare soluzioni, ma solo quello porre problemi e suscitare discussioni, evitando di adagiarsi su formulette precostituite tanto tranquillanti quanto astratte.

 

3. L'affidamento condiviso

L'affidamento condiviso, come accennato sopra, è oggi la regola.

In estrema sintesi – tralasciando la retorica insita nell'aggettivo "condiviso"[3] – significa che entrambi i genitori esercitano di comune accordo la responsabilità genitoriale sui figli, come se il nucleo familiare fosse ancora unito, e che il giudice «determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore», dunque quale sia il genitore collocatario, presso il quale hanno la residenza anagrafica e per lo più trascorrono la maggior parte del tempo.

L'affidamento monogenitoriale, nel quale la responsabilità è esercitata solo dall'affidatario, è invece l'eccezione, cui si ricorre se l'esercizio comune della responsabilità (cioè l'affidamento a entram­bi) è contrario all'interesse dei figli. Le decisioni di maggiore importanza per la loro vita devono comunque essere discusse e concordate con il genitore non affidatario, a meno che il giudice lo escluda espressamente da questa funzione, stabilendo l'affidamento cosiddetto super-esclusivo.

Credo sia indubbio che l'affidamento condiviso – ovvero, in parole più chiare, l'esercizio comune della responsabilità, nonostante la separazione dei genitori – sia in linea di principio la decisione più opportuna nell'interesse dei figli, come pure di ciascuno dei genitori: sono cose ovvie e ben note, sulle quali non è il caso di soffermarsi.

Ricordo poi che la condivisione dell'affidamento – come più volte precisato dalla Corte di cassazione – non significa che i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore debbano essere paritari: l'affidamento condiviso non si identifica con quello alternato, previsto da tempo e molto raramente scelto, anche per i problemi di gestione pratica che pone, difficili assai difficili da superare.

Il modo in cui l'affidamento condiviso è concretamente applicato in giudizio mi suscita però forti perplessità.

La prima: i dati statistici ci dicono che l'affidamento è condiviso nel 90% circa dei casi. Ciò sembrerebbe disegnare un quadro idilliaco, nel quale 9 coppie di genitori su 10 sanno interagire reciprocamente per il benessere dei loro figli comuni e trovare soluzioni concordate. Ma poi si legge nella giurisprudenza di legittimità che l'esistenza di radicati e profondi disaccordi fra i genitori non è di per sé sufficiente per pronunciare l'affidamento monogenitoriale. Affermazione condivisibile, questa, purché non venga letta in modo estremizzante, come se significasse che i radicati e profondi disaccordi sono irrilevanti ai fini della scelta del tipo di affidamento.

Il dato quantitativo (90%) mi induce a pensare che nella realtà dei fatti, purtroppo, quest'ultima lettura sia spesso quella effettivamente recepita. Eppure è ben noto che l'esistenza di disaccordi molto forti rende concretamente ingestibile l'esercizio comune della responsabilità e produce la conseguenza, inevitabile, di moltiplicare a dismisura le richieste al giudice, per ottenere provvedimenti a volte coercitivi, altre volte modificativi.

La seconda perplessità riguarda la profonda differenza che si riscontra fra le prassi giudiziarie precedenti alla l. 54 e quelle successive. Prima del 2006 la prassi giudiziaria non aveva accolto con favore né l'affidamento congiunto, né tanto meno quello quello alternato, introdotti dalla l. 74/1987 di riforma del divorzio. La giurisprudenza largamente prevalente continuava a preferire l'affidamento monogenitoriale, motivando con la sua asserita maggiore idoneità a soddisfare l'esigenza dei figli di avere riferimenti affettivi ed esistenziali stabili e sicuri, rappresentati appunto dalla concentrazione di gran parte dei poteri decisionali nel genitore con il quale convivevano abitualmente, in quanto unico esercente della potestà parentale.

Intervenuta la legge 54/2006, la giurisprudenza ha abbandonato questa preferenza e l'ha sostituita in modo tanto improvviso quanto radicale con quella per la bigenitorialità, motivando con la necessità di avere sempre due genitori esercenti la responsabilità, se possibile, onde meglio garantire la conservazione dei rapporti con entrambi i genitori. L'esigenza di stabilità dei riferimenti, imperante fino al giorno prima dell'entrata in vigore della nuova legge, è sembrata così svanire nel nulla, senza però essere stata fatta oggetto di un'analisi critica degna di questo nome.

La terza perplessità riguarda il contenuto delle CTU incaricate di valutare quale fosse la scelta migliore: fino al 2006 l'indicazione più comune era quella dell'affidamento monogenitoriale, mentre dopo il 2006 è divenuta quella dell'affidamento condiviso. Le ragioni addotte erano le stesse dette sopra. Non mi risulta che proprio in quel fatidico 2006 nel mondo della psicologia si fosse aperta una discussione in tema e che l'orientamento consolidato da tempo fosse stato sottoposto a rimeditazione critica, in vista del suo abbandono.

Svolte così improvvise e così radicali come quelle appena segnalate tanto nelle sentenze quanto nelle CTU, senza un'approfondita discussione, né nel mondo del diritto né in quello della psicologia, mi inducono al sospetto.

La l. 54 – va sottolineato perché, pur essendo ovvio, mi sembra che ce ne si dimentichi spesso – non ha istituito un nuovo tipo di affidamento, prima sconosciuto, ma si è limitata a invertire il rapporto fra regola ed eccezione: dal monogenitoriale-regola con il congiunto-eccezione, al condiviso-regola e con il monogenitoriale-eccezione. Le possibilità sono rimaste dunque due, come prima, ma l'inversione tra regola ed eccezione ha cambiato la qualifica della maggior parte degli affidamenti. Al tempo stesso però, curiosamente, le regole consuete sulle visite, consolidatesi negli anni, non sono cambiate anch'esse altrettanto rapidamente in direzione di una maggiore parità: quasi la qualifica di condiviso fosse soltanto un'etichetta, una qualifica meramente formale. Ritornerò in tema nel paragrafo successivo.

La giurisprudenza di legittimità sembra vada ormai orientandosi verso una posizione alquanto estrema: la normalità dell'affidamento condiviso è giunta a un punto tale che la pronuncia dell'affidamento monogenitoriale sembra ormai limitata ai casi in cui il genitore non affidatario ha tenuto condotte che ne manifestano una comprovata inidoneità educativa, sfiorando il limite della decadenza di cui all'art. 330 c.c.[4]. Così ragionando, però, più che guardare al benessere dei figli e ai problemi di gestione del conflitto fra i genitori, mi sembra che si guardi all'inadeguatezze del genitore non collocatario: con il pensiero, implicito, che solo queste possano giustificarne l'esclusione dall'esercizio comune della responsabilità.

In tal modo l'affidamento esclusivo finisce per diventare una misura sostanzialmente punitiva del genitore non affidatario, piuttosto che protettiva per i figli minori; eppure la priorità dell'interesse del minore continua a essere sempre rumorosamente proclamata.

Su questa strada si rischia di arrivare a decisioni fondamentalmente contraddittorie, come la pronuncia dell'affidamento condiviso accompagnata da prescrizioni limitative nell'esercizio della responsabilità parentale a carico del solo genitore non collocatario.

Nella realtà concreta dei conflitti genitoriali ci si imbatte spesso in situazioni familiari nelle quali la bigenitorialità, intesa come esercizio comune della responsabilità, pone più problemi di quanti potrebbe risolverne: non è sempre vero che due decisori, che spesso faticano molto a trovare un modus vivendi accettabile per entrambi e non troppo nocivo per i figli, siano meglio che un solo decisore. Se si sceglie l'affidamento condiviso, senza troppo curarsi delle specifiche circostanze concrete del singolo caso, mi sembra si manifesti un atteggiamento ideologico e astratto, quasi l'affidamento condiviso fosse un assoluto, da applicare pressoché sempre.

Vi è anche un altro aspetto da considerare: la bigenitorialità, con tutto ciò che ne consegue, viene costantemente declamata, con un forte afflato retorico, come posta nell'interesse del figlio, a sua volta declamato come “superiore” e via dicendo. Tuttavia è poi frequente che sia messa in pratica a tutela del diritto del genitore a frequentare i figli, senza troppo curarsi degli sconvolgimenti che può portare nella loro vita la litigiosità continua, frutto dell'incessante discordia fra i genitori. Certo, lo prescrive la Corte di Strasburgo, molto attenta a tutelare i diritti dei genitori che le fanno ricorso[5]; ma la Corte stessa ripete costantemente che nel decidere si deve sempre guardare al caso concreto, senza restar prigionieri di ideologie astratte.

Perché allora la preferenza per l'affidamento condiviso è così smaccata?

Azzardo qualche risposta un po' provocatoria, giusto per agitare un po' le acque e promuovere la riflessione critica.

Per le decisioni giudiziarie la ragione potrebbe essere la ricerca della via “facile“.

Prima della legge 54 questa era costituita dall'affidamento monogenitoriale, perché l'onere di motivare era leggero: poteva bastare anche una motivazione succinta e stereotipata. Successivamente per la medesima ragione la via “facile“ è divenuta quella dell'affidamento condiviso.

Quanto alle CTU psicologiche, la ragione potrebbe essere l'intento, magari non ben consapevole, di portare ulteriori argomenti al giudice per confermare il suo eventuale orientamento iniziale, acquisito a priori (una sorta di pre-comprensione), che non di rado traspare dalle modalità stesse dell'incarico e soprattutto dall'insieme dei quesiti posti.

La decisione “facile“ mi sembra che spesso rischi di essere, in realtà, una non-decisione.

Se infatti il conflitto tra i genitori continua, come per lo più accade, e si incancrenisce con una lunga sequenza di ricorsi al giudice, la decisione “facile“ si rivela, appunto, una non-decisione: prima o poi il giudice finirà col doverla superare, assumendo proprio quella decisione “difficile“ che sperava di evitare, ma in una situazione ulteriormente deteriorata, che non ha certo giovato al benessere dei figli minori.

Oppure – credo questa sia l'alternativa più frequente – per evitare continui ricorsi giudiziari può finire con l'invogliarlo a delegare la gestione di una lite ormai cronicizzata ai servizi sociali, oppure alla nuova figura del curatore del minore nominato «all'esito del procedimento» (art. 473-bis.7 c.p.c.)[6]. Con buona pace, oltre a tutto il resto, di un principio affermato con costanza dalla Corte europea dei diritti umani, secondo il quale le decisioni che incidono su diritti fondamentali della persona ­– quali sono quelle qui in esame – devono essere prese dal giudice e non delegate al di fuori della funzione giurisdizionale.

 

4. Le condotte ostative e le visite

La determinazione dei tempi e dei modi della permanenza dei figli presso il genitore non collocatario, cioè il regime delle cosiddette visite, ha un'importanza essenziale per conservare in modo adeguato la loro relazione reciproca, credo anche più della condivisione dell'affidamento, soprattutto se tale condivisione è meramente formale.

È ben noto che il regime delle visite ponga frequenti e serie difficoltà di attuazione, per più diverse ragioni.

Molte volte le difficoltà sono imputabili a condotte del genitore non collocatario stesso, come quella di non presentarsi ripetutamente agli incontri o di non rispettarne gli orari senza un'adeguata giustificazione; o di comportarsi durante il loro svolgimento in modo distratto, non comunicativo, poco amorevole, non abbastanza attento alle richieste e alle aspettative dei figli. Spesso a tali atteggiamenti di disinteresse si aggiunge l'inadempimento, totale o parziale, dell'obbligo di collaborare al loro mantenimento.

Altre volte le difficoltà sono imputabili al genitore collocatario, che viene allora comunemente qualificato dai servizi sociali, e per conseguenza dai giudici, come “non collaborativo“: possono nascere come ritorsioni contro gli inadempimenti economici dell'altro, tanto verso di sé quanto verso i figli; o come desiderio di vendetta per i torti subiti nella relazione di coppia, veri o supposti che siano, desiderio che spesso si traduce nel tentativo, illecito, di cancellare l'altro genitore dalla vita dei figli, e non solo dalla propria; o come cautela per evitare che i figli rischino di subire violenza da parte dell'altro genitore o che, incontrandolo, rivivano dolorosamente episodi di violenza familiare cui hanno assistito.

Altre volte ancora sono i figli stessi che non vogliono incontrare il genitore non collocatario e rifiutano di avere un rapporto affettivo con lui. Anche qui le possibili ragioni sono molte e diverse: dalla percezione del suo disinteresse nei loro confronti, che li fa sentire poco amati, o anche soltanto tale da far sì che si annoino in sua compagnia, alla paura di suoi comportamenti aggressivi, sprezzanti o addirittura violenti, al fatto di aver assistito, magari ancora quando i genitori convivevano, a violenze dirette contro l'altro genitore. In tutti questi casi è frequente che il genitore collocatario si opponga in modo più o meno rigido e costante agli incontri, oppure che adotti tecniche di sabotaggio volte a proteggere i figli da una minaccia, vera o supposta che sia, o anche soltanto a evitar loro di doversi trovare in una situazione che comunque non gradiscono.

La Corte europea dei diritti umani ha condannato più volte il nostro paese proprio per non aver saputo garantire in modo adeguato la conservazione dei rapporti tra i figli e il genitore non collocatario, giungendo di recente a un'affermazione pesantissima: in Italia sul punto vi sarebbe addirittura un «problema sistemico»[7].

Queste lunga serie di condanne ha portato la giurisprudenza ad adottare con crescente frequenza provvedimenti tesi a tentar di garantire sempre e comunque la conservazione dei rapporti tra i figli e il genitore non collocatario. In linea di principio è certamente giusto sforzarsi affinché i rapporti permangano. Tuttavia in molti casi le decisioni sono connotate da molta rigidità e soprattutto da troppa astrattezza; e non sembrano prestare sufficiente attenzione alle peculiarità del caso di specie, soprattutto alle ragioni dell'opposizione del genitore collocatario e alla condizione esistenziale e psico-emotiva dei figli minori.

In ottemperanza alle sollecitazioni della Ctedu, la giurisprudenza ha sperimentato nell'ultimo decennio provvedimenti molto duri al fine di disincentivare queste condotte, sul presupposto implicito che quelle del genitore collocatario fossero illecite e quelle dei figli ingiustificate: (a) il drastico cambio dell'affidamento del figlio, dal genitore non collaborante all'altro; (b) l'affidamento ai servizi sociali, con collocazione presso il genitore ostacolato; (c) l'affidamento ai servizi sociali, con collocazione in comunità per un periodo di tempo limitato, stabilendo le modalità di ripresa dei contatti con il genitore ostacolato e limitando al massimo o impedendo del tutto i rapporti con il genitore ostacolante.

Mi sembra lecito dubitare che decisioni giudiziali di tale contenuto siano effettivamente efficaci per raggiungere l'obiettivo perseguito, salvo forse quando intervengono immediatamente, fin dalla prima avvisaglia dei rifiuti e degli ostacoli, nella fase iniziale della separazione fra i genitori. Va anche rilevato che incontrano pressoché sempre l'opposizione dei figli, via via più forte man mano che il tempo passa: questi manifestano così la loro lealtà psicologica ed emotiva verso il genitore con cui sono abituati a convivere e che continuano comunque a percepire come il loro protettore naturale[8].

La condotta non collaborativa del genitore, anche quando è illegittima, non dovrebbe essere di per sé sola sufficiente per giustificare provvedimenti di tale durezza e radicalità, ogniqualvolta il rifiuto dei figli appaia ben radicato come posizione ormai loro propria, qualunque ne fosse stata la causa originaria, e non soltanto come frutto esclusivo e transitorio di direttive eteronome forse reversibili, se ancora non ben interiorizzate[9].

È necessario considerare le ripercussioni sulla condizione dei figli minorenni derivanti dal loro allontanamento dal genitore collocatario, di solito la madre, «con lacerazione di ogni consuetudine di vita». In generale la Corte di cassazione afferma che l'attuazione concreta del diritto del genitore ad avere rapporti significativi e continuativi con il figlio minore ha «carattere recessivo» se confligge con il miglior interesse dei quest'ultimo[10].

È un'affermazione di principio di importanza fondamentale, che indica con chiarezza la linea di condotta da seguire. Non deve mai essere dimenticata.

Quanto alla collocazione in comunità, pur se programmaticamente temporanea, in astratto è certamente ipotizzabile; ma in concreto è abbastanza raro che possa essere giustificata come conforme al miglior interesse del minore e quindi tale da giustificare quel cambiamento drastico di vita del minore che è l'allontanamento dal genitore non collaborativo o supposto tale.

Va infine aggiunto che tali provvedimenti, se adottati, ben difficilmente possono essere eseguiti senza ricorrere alla violenza sul minore stesso[11], quanto meno se ha raggiunto l'età cosiddetta scolare, cioè della scuola elementare. Ne consegue che sono destinati a restare spesso ineseguiti, essendo in linea di principio vietato il ricorso alla violenza.

In conclusione sul punto, il cambio di affidamento dal genitore non collaborativo all'altro, volto a tutelare il suo diritto di visita e a garantire così la bigenitorialità, va maneggiato con estrema cautela e sensibilità. Non può essere fondato sul semplice fatto della condotta non collaborativa del collocatario o affidatario, anche se ne è stata accertata l'illegittimità, accompagnato dalla presunzione che avere una relazione con entrambi i genitori debba essere sempre garantito, in quanto prioritario.

L'art. 473-bis.39 c.p.c. prevede altri rimedi per disincentivare le condotte ostacolanti: l'ammonimento (c. 1° n. 1), la sanzione amministrativa pecuniaria (c. 1° n. 3) il risarcimento del danno (c. 2°), il pagamento di una somma di denaro per ogni successiva inosservanza o ritardo (c. 1° n. 2, che richiama espressamente l'art. 614-bis c.p.c.), la condanna penale per l'inosservanza dolosa di un provvedimento del giudice (art. 388 c.p.). A queste vanno aggiunte le prescrizioni nell'esercizio della responsabilità genitoriale (art. 333 c.c.). 

Fra tali sanzioni, il pagamento di una somma di denaro per ogni inosservanza, secondo l'art. 614-bis c.p.c., mi sembra quella di gran lunga più efficace in concreto, purché sia applicata fin dalla prima comparsa della condotta ostacolante, potenziale causa del rifiuto dei figli, e sia di un'entità tale da incidere effettivamente sulle condizioni economiche della parte obbligata.

La tempestività dell'intervento del giudice è espressamente imposta dall'art. 473-bis.6 c.p.c.: dinanzi a condotte di un genitore che ostacolino il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo del minore con l’altro genitore o con i suoi parenti (c. 2°), o al rifiuto del minore di incontrare un genitore (c. 1°), il giudice deve immediatamente ascoltare il minore e assumere sommarie informazioni; può anche «disporre l’abbreviazione dei termini processuali».

Una considerazione finale: comunque l'autorità intervenga, mi sembra che in questi casi lo strumento “diritto” manifesti un'impotenza di fondo che credo sia purtroppo ineliminabile, come spesso accade nelle controversie in cui i sentimenti e gli affetti hanno un ruolo prioritario.

 

5. La violenza e le condotte ostative

Le modalità atte a garantire la conservazione dei rapporti dei figli con il genitore non collocatario, accennate nel paragrafo che precede, hanno il presupposto implicito che le condotte non collaborative, ostative, siano ingiustificate e quindi illecite.

Ma non è sempre così, ovviamente: vi sono anche circostanze nelle quali sono invece giustificate, quindi lecite, se non addirittura doverose.

I casi più rilevanti riguardano le condotte violente in famiglia. Tra questi, i più delicati sono due: la violenza verso i figli e la cosiddetta violenza assistita, cioè le condotte violente di un genitore contro l'altro, cui i figli hanno assistito. Sono casi nei quali, se le allegazioni di violenza corrispondono a verità, la non collaborazione è pienamente legittima, anche nella sua forma più estrema di radicale opposizione.

Per quanto riguarda la violenza verso i figli, trattandosi di condotte costituenti reato, le relative accuse danno origine a indagini penali: queste, soprattutto se la violenza ha contenuto sessuale, possono durare anche a lungo. Ed è noto che, quando tali accuse sono formulate nel corso di una separazione molto acrimoniosa, risultano molto spesso false. Intanto però nella gran maggioranza dei casi, se non appaiono subito manifestamente e inequivocabilmente infondate, è frequente che il giudice ordini l'immediata cesura dei rapporti tra il genitore accusato e i figli: sia in modo completo, sia riducendoli a un simulacro, per la loro rarità (per esempio un'ora al mese) unita alle loro modalità (luogo neutro e presenza di figure controllanti, come assistenti sociali o educatori).

Questa regolazione, che in linea di principio può essere giustificata quando l'indagine penale è in corso, è però frequente che sopravviva al proscioglimento in sede penale; e che sopravviva a volte anche a lungo, soprattutto per la scarsa fiducia dei servizi sociali (e dei giudici minorili) verso il proscioglimento penale, argomentando che questo significa soltanto che le accuse non sono state provate, ma lasciano il sospetto, indimostrato, che la verità sostanziale sia diversa da quella processuale. Questo atteggiamento, oltre a essere stato più volte condannato dalla Ctedu[12], mi sembra confligga con uno dei principi basilari dello stato di diritto.

Per quanto riguarda la violenza domestica, in particolare contro le donne, e le correlative condotte ostacolanti tenute dalle vittime, motivate come reazione alle violenze cui i figli hanno assistito, dev'essere anzitutto segnalata la sentenza I.M. c. Italia[13]: la Ctedu ha condannato l'Italia per aver violato le sue obbligazioni positive (art. 8 Cedu) sotto due aspetti. Il primo vede come vittime i figli minorenni: l'effettuazione dei loro incontri con il padre aveva continuato a essere imposta dal tribunale, benché nel caso di specie non vi fosse la possibilità materiale di svolgerli secondo le modalità tecniche protettive, che il tribunale stesso aveva invece giudicate necessarie. Il secondo vede come vittima la madre: il tribunale per i minorenni l'aveva sospesa dalla responsabilità genitoriale per tre anni, pur lasciando i figli a vivere con lei, addebitandole unicamente il fatto di essersi opposta agli incontri con il padre, dunque di essere stata una madre non collaborativa. Tale condotta – secondo la Corte – avrebbe invece dovuto considerarsi giustificata, proprio a causa della persistente atmosfera di violenza e dell'insufficiente protezione garantita ai figli durante lo svolgimento degli incontri.

 In generale sul tema della violenza assistita, soprattutto domestica, segnalo le considerazioni contenute nel rapporto sull'Italia del GREVIO, pubblicato nel 2020, riguardante il rispetto della Convenzione di Istanbul del 2011 sulla protezione contro la violenza di genere e la violenza domestica[14]. Il rapporto, mentre dà un parere per la maggior parte positivo sulla nostra legislazione, è invece fortemente critico sulle prassi delle autorità italiane – dei servizi sociali e dell'autorità giudiziaria, soprattutto di quella inquirente[15] – che dovrebbero dare concreta attuazione alla difesa delle donne e dei figli minorenni, con particolare riguardo, per questi ultimi, alla violenza assistita[16].

Nel rapporto si legge che «i magistrati di diritto civile tendono ad affidarsi alle conclusioni dei consulenti tecnici d’ufficio (CTU) e/o dei servizi sociali, che spesso assimilano gli episodi di violenza a situazioni di conflitto e dissociano le considerazioni relative al rapporto tra la vittima e l’autore di violenza da quelle riguardanti il rapporto tra il genitore violento e il bambino»; non solo, ma «incolpano le madri per la riluttanza dei figli ad incontrare il padre violento» (§ 182 del rapporto). Ne consegue che «alcuni tribunali civili e CTU non solo non riescono a individuare i casi di violenza, ma tendono a ignorarli». Si sottolinea «con estrema preoccupazione la diffusa prassi dei tribunali civili di considerare una donna che solleva la problematica della violenza domestica come un motivo per non partecipare agli incontri e opporsi all'affidamento o alle visite, come un genitore “non collaborativo” e quindi una “madre inadatta” che merita di essere sanzionata» (§ 185 del rapporto).

Il rapporto afferma poi con forza che «la violenza nelle relazioni intime è un fattore chiave per definire l’affidamento del bambino», al punto che perfino l'accordo dei genitori «si rivela inadeguato per le coppie la cui relazione è stata viziata dalla violenza». Vi è infatti «uno squilibrio di potere nella relazione che può influenzare negativamente la capacità di negoziare in modo equo e di arrivare ad un accordo reciprocamente accettabile». La donna vittima di violenza domestica ha necessità di avere uno «specifico sostegno» per negoziare gli accordi con l'altro genitore violento (§ 184 del rapporto).

Il dettato dell'art. 48 della Convenzione di Istanbul, sul quale sono fondate le ultime osservazioni riportate, è stato recepito dal d.lgs. 149/2022: in caso di violenza domestica non è ammesso il ricorso alla mediazione familiare (art. 473-bis.42 c. 3° e 473-bis.43 c.p.c.). Tuttavia si deve ricordare che recepirlo sul piano legislativo non basta per garantire che sia poi accolto in modo altrettanto pieno, attento e costante sul piano delle prassi operative.

Anche in caso di condotte ostative legate a episodi di violenza assistita, si pone la questione del rapporto tra il procedimento civile riguardante le visite e gli eventuali procedimenti penali riguardanti la violenza. Tra i rimproveri alle autorità italiane – ampiamente recepiti della Ctedu nella sentenza I.M. c. Italia, citata sopra – il GREVIO segnala come dato molto negativo l'inadeguatezza dei canali di comunicazione tra i giudici civili, soprattutto minorili, e i giudici e i pubblici ministeri penali, tanto sul piano della normativa vigente prima del d.lgs. 149/2022, quanto su quello delle prassi operative.

Per tentare di rimediarvi, il d.lgs. 149/2022 ha introdotto alcune norme sulla circolazione delle informazioni tra i diversi organi giudicanti.

L'art. 473-bis.41 c.p.c. stabilisce che la parte ricorrente, se allega «abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere poste in essere da una parte nei confronti dell’altra o dei figli minori», deve indicare anche «gli eventuali procedimenti, definiti o pendenti, relativi agli abusi o alle violenze»; deve inoltre allegare al ricorso «copia degli accertamenti svolti e dei verbali relativi all’assunzione di sommarie informazioni e di prove testimoniali, nonché dei provvedimenti relativi alle parti e al minore emessi dall’autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità».

 L'art. 473-bis.42 c. 5° c.p.c. stabilisce poi che «con il decreto di fissazione dell’udienza, il giudice chiede al pubblico ministero e alle altre autorità competenti informazioni circa l’esistenza di eventuali procedimenti relativi agli abusi e alle violenze allegate, definiti o pendenti, e la trasmissione dei relativi atti», purché non coperti dal segreto di cui all'art. 329 c.p.p.; l'informazione richiesta dovrebbe essergli trasmessa entro 15 giorni.

Queste disposizioni pongono le basi normative affinché l'un giudice non possa più ignorare quanto l'altro giudice ha fatto o fa: nella speranza che poi le prassi operative vi si adeguino.


 
[1] Si potrebbe obiettare che anche la disciplina dell'adozione piena, come impostata nel 1967 (l. 431) e confermata nel 1983 (l. 184), vuole una famiglia composta da due genitori. In questo caso, però, il tratto decisivo non era stato il principio di bigenitorialità, ma il dato sociale e culturale del 1967 – confermato nel 1983 e ben lontano da quello attuale – secondo il quale soltanto una coppia unita in matrimonio poteva essere considerata una famiglia d'accoglienza idonea ad allevare un bambino in stato di abbandono.

[2] La sua espressa previsione nell'art. 30 c. 1° cost. era motivata come espressione dell'autonomia della famiglia, intesa a impedire che genitori potessero essere obbligati a educare i figli secondo prescrizioni dell'autorità pubblica, come il «sentimento nazionale fascista» del testo originario dell'art. 147 c.c..

[3] Opportunamente priva di retorica mi sembra sia invece la modalità per esprimere queste stesse regole adottata dal code civil francese: la parola garde, corrispondente alla nostra parola affidamento è sparita, e il giudice si limita a stabilire il principale luogo di abitazione dei figli e le regole sulle visite, salvo ritenga opportuno attribuire l'esercizio dell'autorité parentale a un solo genitore.

[4] Vd., tra le molte in tal senso, Cass., 6 ottobre 2021, n. 27147.

[5] Credo sia sempre più necessaria una rimeditazione generale sugli atteggiamenti della Ctedu in materia: nell'ultimo decennio mi sembra vada emergendo un'attenzione vieppiù crescente ai diritti dei genitori, benché declamati – in modo a mio avviso mistificatorio – come diritti e interessi dei figli. Segnalo due sentenze esemplari di questa tendenza: Strand Lobben c. Norvegia, 2019 (Grande camera; ric. 37283/13), in materia di allontanamento e adozione, e Mandet c. Francia, 2016 (ric. 30955/12), in materia di impugnazioni della paternità, divenute ormai entrambe precedenti cui la giurisprudenza successiva si richiama. Ma già in precedenza vd. anche le proccupanti sentenze Anayo c. Germania (2010, ric. 20578/07) e Schneider c. Germania (2011, ric. 17080/07). Vd. inoltre il mio Diritto della famiglia, Giuffrè, 2021, 95 sgg.

[6] Su questa figura, che mi sembra tenda a privatizzare una funzione pubblica, vd. R. Senigaglia, Prima lettura sistematica della disciplina del curatore speciale del minore, in DSF, 2023, 229; M.G. Ruo, Il nuovo curatore ex art. 473-bis.7 c.p.c., in Curatore del minore e avvocato, a cura di Id., Maggioli, 2023, 345; Id., Il curatore del minore nel processo, in La nuova giustizia familiare e minorile, a cura di M. Bianca e F. Danovi, in Nuove leggi civ. comm., 2023, 993; C. Calabrese, Il curatore e il curatore speciale del minore, in La riforma del diritto di famiglia: il nuovo processo, a cura di R. Giordano, A. Simeone, Giuffrè, 2023, 173; M. Velletti, Il tutore e il curatore del minore, in La nuova giustizia familiare e minorile, cit., 935; L. Lenti, Curatore del minore e curatore «all'esito del procedimento», in Jus civile, Oss. dir. fam., 2023, 1; G.O. Cesaro, Il curatore del minore e il curatore speciale del minore: esame delle figure come delineate nella legge n. 206/2021 e nel decreto legislativo n. 149/2022, in Min.giust., 2022, n. 2, 131.

[7] Così si legge in una recente sentenza in tema, Terna c. Italia, 2021 (ric. 21052/18), § 97.

[8] Di tale opposizione il giudice non può non tener conto: vd. Cass., 11 aprile 2024, n. 9839.

[9] In questo senso vd. Cass., 16 maggio 2019, n. 13274, 17 maggio 2021, n. 13217, 23 marzo 2022, n. 9691.

[10] Così si legge in Cass. 9691/2022, cit.

[11] Ricordo quale esempio di esecuzione forzata con la violenza, per la sua notorietà mediatica, il caso noto come del “bambino di Cittadella“, sul quale vd. Cass., 20 marzo 2013, n. 7041.

[12] Vd. per esempio la sentenza Manuello e Nevi c. Italia, 2015 (ric. 107/2010).

[13] Ctedu, I.M. c. Italia, 2022 (ric. 25426/20), sulla quale vd. anche il mio breve commento Violenza assistita e condotte ostative, in Nuova giur. civ. comm., 2023, 349 sgg., dal quale ho ripreso molto di quanto scritto in questo quinto paragrafo.

[14] Il GREVIO (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence) è il comitato internazionale che controlla l'attuazione dei principi della convenzione di Istanbul nei paesi firmatari.

[15] Manifesta invece apprezzamento per la tempestività e la pregnanza degli interventi delle autorità di pubblica sicurezza.

[16] In tempi recenti, con un'impressionante aumento nel 2022, la Ctedu ha inflitto all'Italia molte condanne per non aver saputo tutelare adeguatamente le donne e i figli vittime di violenza domestica: Talpis, 2017 (ric. 41237/14), Landi, 2022 (ric. 10929/19), De Giorgi, 2022 (ric. 23735/19), M.S., 2022 (ric. 32715); vd. una sintesi nel documento (https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Raccolta_Report/Giornata_internazionale_eliminazione_violenza_contro_donne25.11.2022.pdf).  

[*]

Lo scritto è una rielaborazione, aggiornata, di una relazione tenuta nel 2023 alla Scuola superiore della magistratura.

11/10/2024
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