Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Il danno ulteriore, patrimoniale e non patrimoniale, da licenziamento illegittimo nella recente giurisprudenza della Cassazione e nelle riforme legislative in materia

di Anna Terzi
già magistrato

Una recente pronuncia del giudice di legittimità offre lo spunto per svolgere riflessioni sull’inquadramento sistematico del danno da licenziamento diverso dal danno retributivo nella disciplina anteriore alla riforma cd Fornero, in relazione all’evoluzione della giurisprudenza sulla lesione di diritti a protezione costituzionale e in relazione all’incidenza per questi aspetti delle riforme successive (l. n. 92/2012 e d. lgs n. 23/2015).

1. L’ordinanza della Corte di cassazione n. 29335/2023

La recente l’ordinanza n. 29335/2023 della Corte di cassazione, Sezione lavoro, riepiloga e illustra, in continuità con precedenti risalenti e più recenti, i principi che governano le conseguenze patrimoniali e non patrimoniali del licenziamento illegittimo nel vigore della disciplina dell’art. 18 l. n. 300/70 testo originario e come poi modificata dalla l. n. 108/1990. Il percorso è lineare e conforme alle regole della responsabilità civile da inadempimento e illecito (artt. 1218, 1223, 1225, 1226, 2043, 2059 cc.).

Oggetto del giudizio è una pronuncia della Corte d’appello di Milano (sentenza n. 800/2018), su una domanda di risarcimento del danno ulteriore rispetto a quello retributivo, in una fattispecie di licenziamento disciplinare per una condotta risultata insussistente in sede penale e civile; domanda avanzata dal lavoratore illegittimamente licenziato a seguito dell’inottemperanza all’ordine di reintegrazione e avente per oggetto  il danno patrimoniale alla professionalità e quello non patrimoniale, per tutto il periodo dal licenziamento all’effettivo reinserimento in azienda. Il giudice d’appello aveva confermato la pronuncia di primo grado sia relativamente al capo con il quale era stata accolta la domanda per il danno alla professionalità e all’immagine professionale per il periodo successivo alla condanna alla reintegrazione, sia per i capi con i quali erano state invece respinte la  domanda per il danno alla professionalità per il periodo dal licenziamento alla sentenza di reintegrazione, in quanto già compreso nell’indennità risarcitoria di cui all'art. 18 Statuto, nonché la domanda per  i danni esistenziali e per quelli morali per licenziamento ingiurioso. 

La prima statuizione  di rigetto è stata cassata in quanto non motivata ed erronea in diritto, non essendovi alcuna disposizione o principio che consenta di negare il risarcimento del danno ulteriore rispetto a quello strettamente connesso alla mancata retribuzione, non solo per il periodo successivo all’ordine di reintegrazione non eseguito, ma anche per il periodo precedente e ciò sia per il danno patrimoniale sia per il danno non patrimoniale: non ha base normativa l’affermazione che per il periodo dal licenziamento alla sentenza di reintegrazione il diritto alle retribuzioni maturate esaurirebbe il ristoro di ogni pregiudizio in nesso causale con il recesso datoriale accertato illegittimo ovvero intimato e attuato al di fuori dei presupposti di legge. La seconda statuizione è stata cassata per omessa pronuncia quanto al danno esistenziale.

Se pure la decisione del giudice di legittimità è senza dubbio lineare e in continuità con i propri precedenti, essa si segnala perché offre  in alcuni  passaggi spunti per riflessioni di inquadramento sistematico nonostante sia in applicazione di una disciplina che andrà ad esaurirsi via via che termineranno i rapporti di lavoro cessati per licenziamento antecedentemente al 2012 (legge Fornero), da un lato lasciando aperte opzioni non scontate sui presupposti e l’estensione del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, dall’altro sollecitando un confronto con la normativa successiva per verificare quanto si sia inciso sotto questo profilo.

 

2. Il risarcimento del danno ulteriore di natura patrimoniale

Il principio di diritto in ordine al risarcimento del danno ulteriore rispetto a quello retributivo è conforme al consolidato orientamento giurisprudenziale sulla disciplina di cui all’art. 18 l. n. 300/1970 nel testo originario e nel testo modificato nel 1990 e alla dottrina che di quel testo si è occupata all’epoca dell’entrata in vigore e nel periodo successivo fino al 2012 (cd riforma Fornero)[1].

Sin dall’emanazione dello Statuto e anche dopo la legge del 1990 vi è stato alcun dubbio che l’intento del legislatore non fosse stato quello di contenimento delle pretese di ristoro con esonero del contraente datore di lavoro dall’applicazione degli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 cc.,  e sottrazione ai lavoratori del conseguente diritto: il testo originario si limitava all’indicazione di un minimo a presunzione assoluta di cinque mensilità e la disciplina successiva ha articolato parametri fissi di liquidazione, corrispondenti al danno normalmente conseguente alla perdita delle retribuzioni, imponendo sotto questo profilo liquidazioni omogenee, senza però che questo potesse portare a concludere per l’esclusione del risarcimento per i danni diversi da quello strettamente retributivo, allegati e da accertare, sulla scorta delle prove dedotte, caso concreto per caso concreto. 

La disciplina originaria di cui si discute, dunque, era diretta, testualmente, al risarcimento e non era indennitaria; con la riforma del 1990, si era inteso dettare/esplicitare criteri obbligatori di riferimento per la liquidazione (di qui l’uso atecnico del termine indennità) del danno retributivo, esonerando il lavoratore dalla prova del quantum, come confermato dal riferimento alla retribuzione globale di fatto; si proponeva per tale via di fissare criteri obbligatori ma presuntivi, ammettendo la controprova dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum ex art. 1227 cc. secondo i principi generali[2], eccettuato un minimo non derogabile di cinque mensilità, svincolato questo dalla stessa esistenza di danni retributivi, con una presunzione assoluta iuris et de iure e in questo contesto quindi con una finalità oltre che compensativa anche sanzionatoria.

Muovendosi in questa ottica, di esonero dalla prova/presunzione semplice, ne deriva che essendo ammessa la prova contraria non può essere esclusa la prova di un danno ulteriore. Diversamente si creerebbe uno squilibrio tra le parti, non conforme all’art. 3 della Costituzione: al datore di lavoro sarebbe consentito di dimostrare il minor danno, al lavoratore sarebbe preclusa la prova del maggior danno. Una disparità di trattamento priva di base normativa, in forza della quale il datore potrebbe invocare l’applicazione della disciplina generale degli artt. 1223, 1227 cc.  eccependo l’aliunde perceptum ma anche l’aliunde percipiendum (danno che si sarebbe evitato con l’ordinaria diligenza), mentre al lavoratore l’applicazione di quella disciplina per i danni ulteriori e diversi sarebbe preclusa.

 

3. Il danno non patrimoniale da licenziamento illegittimo

Il nucleo inderogabile delle cinque mensilità («In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione…») dava e dà indicazione della volontà del legislatore di riconoscere un danno indipendente dalla prova di una diminuzione patrimoniale, che potrebbe non esserci, e quindi connesso all’insieme di pregiudizi alla vita del lavoratore in nesso causale con il licenziamento, a cui può essere ricondotto senza distinzioni anche il danno non patrimoniale alla persona. Una previsione idonea a integrare la disposizione di cui all’art. 2059 cod. civ., come all’epoca interpretata e in un certo senso precorritrice di quelle disposizioni di derivazione comunitaria in materia di atti discriminatori, compreso ovviamente il licenziamento, che espressamente prevedono il risarcimento del danno non patrimoniale anche a fini sanzionatori e dissuasivi (art. 17 direttiva 2000/78/CE, 2000/43/CE, 54/2006/CE, art. 28 decreto legislativo n. 150/2011).

Partendo da questo rilievo, e una volta ammesso il risarcimento del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale, quale è ormai principio consolidato a partire dalla nota risistemazione dogmatica del danno alla persona operata dalle sezioni unite della Corte nel 2008, non vi è motivo per non riconoscere il danno non patrimoniale da licenziamento illegittimo, sussistendone i presupposti ex artt. 2043, 2059 cc.

Con la sentenza n. 26972/2008 le Sezioni unite hanno dato la definizione concettuale di danno non patrimoniale, con riferimento a tutte le componenti che confluiscono nello stesso, che condividono la natura di pregiudizio a interessi costituzionalmente protetti non connotati da rilevanza economica, immediatamente incidente sulla integrità della persona e sulla sua vita di relazione e hanno altresì individuato i presupposti per il risarcimento ex art. 2059 cc. ivi comprendendo le lesioni derivanti da un inadempimento contrattuale: ‹‹Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale››.

In questa operazione di ricognizione del sistema il giudice di legittimità ha rilevato: ‹‹Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore. L'individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell'area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio … L'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge. È questo il caso del contratto di lavoro››. E ancora: ‹‹In particolare, dalla violazione dell'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all'art. 32 Cost., quanto alla tutela dell'integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione dà luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista››.

È vero che di questi principi si è fatta per lo più applicazione in materia di lavoro per il danno da mobbing, da dequalificazione e da licenziamento ingiurioso, tutte ipotesi peraltro nelle quali ricorrono condotte intenzionali che potrebbero autonomamente integrare un illecito ex art. 2043 cc. Ciò peraltro non comporta che, una volta ammesso che il contratto di lavoro è intrinsecamente un contratto destinato a soddisfare anche interessi non strettamente patrimoniali, non si debba considerare il licenziamento illegittimo, quale inadempimento contrattuale, anche sotto il profilo di condotta idonea a causare un danno ingiusto, fermi restando gli oneri di allegazione e prova del pregiudizio, della sua rilevanza ed entità. Del resto sono le stesse Sezioni unite che in questa materia indicano la strada dell’interpretazione evolutiva, della rilettura dei diritti e in definitiva della stessa giurisprudenza in chiave costituzionale: ‹‹La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost., ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana››.

E in questo perimetro viene precisato quale correttivo a pretese non giustificate che: ‹‹La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.U. n. 16265/2002)››.

Nell’ottica del possibile apprezzamento di un danno non patrimoniale da licenziamento si pone la stessa pronuncia in oggetto n. 29335/2023 della Corte di cassazione, dove richiama la recente sentenza Cass. n.25191/2023 (relativa ad una fattispecie di totale inidoneità lavorativa con cessazione forzosa dell’attività) ed osserva che: ‹‹anche in relazione al licenziamento il giudice deve apprezzare le ricadute negative dell’illecito vuoi sul piano  relazionale – del fare redittuale e aredittuale rilevanti sotto il profilo del danno patrimoniale, biologico ed esistenziale – vuoi sulla distinta sfera della sofferenza morale; attesa la polifunzionalità del lavoro sul piano assiologico, tutelato  dall’ordinamento costituzionale non solo nella dimensione contrattuale sinallagmatica (artt. 35 e 36) e dell’integrità psicofisica (artt. 32 e 38), ma anche sui diversi piani della sfera collettiva e sociale (3,2 comma, 40 e 41 Cost.) e di quella individuale e della dignità personale (artt.2 e 4 Cost.) essendo il lavoro inseparabile dall'essere umano che lo presta››. 

Vi è quindi coerenza con i principi enunciati dalla Corte costituzionale e ripetutamente richiamati nelle sue sentenze. Benché sia stata esclusa la copertura costituzionale del diritto alla prosecuzione del rapporto e affermato che appartiene alla discrezionalità del legislatore la misura della reazione al licenziamento illegittimo, dal 1965 la copertura costituzionale del diritto al lavoro, ex artt. 4 e 35 Cost., con riferimento al singolo rapporto in corso è stata ripetutamente affermata, trattandosi di «fondamentale diritto di libertà della persona umana», che comporta la «garanzia costituzionale [del] diritto di non subire un licenziamento arbitrario» e «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenze n. 45 del 1965, n. 60 del 1991, n. 541 del 2000, ordinanza n. 56 del 2006, sentenza n. 194/2018).

‹‹Il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele…Il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.) e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa» (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che «il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti» (punto 3. del Considerato in diritto)›› (sentenza n. 194/2018).

 

4. I fondamenti costituzionali  

Per ricondurre la lesione da licenziamento illegittimo all’art. 2059 cc., vigente la disciplina dell’art. 18 Statuto ante legge Fornero, la prospettiva possibile è duplice.

In un primo approccio di ricostruzione teorica il diritto del lavoratore a un licenziamento legittimo è espressione del diritto costituzionale al lavoro ex art. 4, inteso come diritto della persona a protezione costituzionale, nel cui contesto vengono esercitati gli altri diritti, sempre a protezione costituzionale, di espressione della personalità nella formazione sociale in cui il lavoratore è inserito e di partecipazione attraverso il lavoro all'organizzazione economica sociale e politica del paese; diritto rispetto al quale, con la conclusione del contratto, il datore di lavoro assume  l’obbligo  di prevenire un esercizio del suo diritto di recesso fuori dai presupposti di legge. Una sorta di posizione di garanzia che riconduce la condotta di prevenzione nell’alveo dell’art. 2087 cod. civ. di tutela anche della personalità morale (richiamato dalle SSUU), quest’ultima potenzialmente lesa da una interruzione illegittima del rapporto sotto molteplici profili tutti attinenti a interessi costituzionalmente protetti (si vedano le pronunce della Corte Costituzionale richiamate). In questa prospettiva la lesione di questi interessi in violazione degli obblighi della posizione di garanzia comporta il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale compreso il danno esistenziale. Ed è anche in questa prospettiva che, come sopra rilevato, è normativamente previsto (art. 2059 cc.) il risarcimento del danno per il licenziamento discriminatorio, immediatamente correlato alla lesione della dignità della persona.

La prospettiva è accattivante, riflette una lettura dei diritti costituzionali, compreso l’art. 41 Cost., proiettata verso una visione solidaristica, rispetto alla quale si possono però esprimere dubbi sulla corrispondenza all’attuale sensibilità culturale giuslavoristica, che è poi quella che in ultima analisi impronta l’ermeneutica facendo vedere, o non vedere, o addirittura negare, le possibili implicazioni della normativa conformi o non conformi a tale sensibilità.

Questo approccio determina poi inevitabilmente alcuni automatismi valutativi, perché, se pure è vero che, come sopra già detto, vi sarebbe un necessario passaggio di allegazione e prova del pregiudizio non patrimoniale, anche escludendo in linea teorica il cd danno in re ipsa, inevitabilmente, essendo il licenziamento illegittimo fatto di per se stesso immediatamente idoneo a creare sofferenza, disistima, autosvalutazione, preoccupazione per il futuro proprio ed eventualmente dei familiari,  diviene assai arduo contenere la domanda di risarcimento attraverso la prova dell’effettiva esistenza ed estensione della lesione. In definitiva, la non esistenza quanto meno del danno esistenziale (peggioramento della vita quotidiana, danno dinamico relazionale) che costituisce una delle componenti del danno non patrimoniale, sarebbe eccezione rispetto alla sussistenza dello stesso. 

L’altra prospettiva pone in correlazione l’obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale con la violazione di un obbligo contrattuale che qualifica come ingiusto il pregiudizio che ne derivi a interessi costituzionalmente protetti. Nel contesto di una disciplina del licenziamento, quale quella di cui all’art. 18, nel testo originario e in quello successivo al 1990, sin qui delineata, l’esercizio del recesso datoriale comporta una valutazione di presupposti che si pone come atto esecutivo del contratto e che deve avvenire in conformità agli obblighi di correttezza. È la violazione di questi obblighi che determina una responsabilità per la lesione di interessi costituzionalmente protetti. L’estensione e il contenuto della correttezza dovuta ed esigibile, campo non indagato dalla giurisprudenza al di fuori della ipotesi di natura ingiuriosa del licenziamento ed altre assimilabili (nelle quali l’atto lesivo integra autonomamente oltre che la violazione dell’obbligo di correttezza anche un illecito civile), devono poi, come ogni clausola generale, essere definiti attraverso l’applicazione alle singole fattispecie concrete.

L’estensione e il contenuto della correttezza dovuta appaiono di più difficoltosa definizione in astratto rispetto alla loro individuazione nelle fattispecie concrete, che comprendono tutte le possibili ipotesi di licenziamento, ma che sono di particolare evidenza nel licenziamento disciplinare, nelle quali viene immediatamente in considerazione la dignità professionale del lavoratore. E così ad esempio: quando il licenziamento appaia pretestuoso per la palese insussistenza della soppressione del posto di lavoro; quando non vi sia stata alcuna considerazione di un ricollocamento in altre mansioni; quando l’assoluta sproporzione tra inadempimento e sanzione palesi una interpretazione del rapporto gerarchico e del vincolo fiduciario non funzionale all’interesse aziendale ma espressione di un potere di supremazia sulla persona del cui destino lavorativo si può disporre; quando nel licenziamento disciplinare non vengono verificate le circostanze indicate dal lavoratore per negare il fatto o a discolpa e si procede ugualmente al recesso, e così via. In questa prospettiva l’ingiustizia del danno non consegue automaticamente all’errore nel momento valutativo dei presupposti, possibile oggetto di divergenze nella verifica in sede giudiziaria come prevista dal testo dell’art. 18 di cui si discute, ma a una specifica violazione dell’obbligo di correttezza prodromico all’intimazione del recesso. 

 

5. Il danno ulteriore dopo la modifica dell’art. 18 con la legge Fornero ed il suo superamento con il cd. Jobs act  

Procedendo quindi a un raffronto tra questo inquadramento della questione del risarcimento del danno ulteriore, patrimoniale e non patrimoniale, e la normativa successiva di riforma dell’art. 18 di cui alla l. n. 92/2012 (cd Fornero) e poi di cui al d. lgs n. 23/2015, ci si può chiedere se e in che misura possano essere estese queste conclusioni.

L’art. 18 comma 3 come modificato dalla l. n. 92 /2012 e l’art. 2 comma 2 del d. lgs n. 23/2015 riproducono per le ipotesi di licenziamento illegittimo ritenute, rispettivamente, di maggior gravità, la stessa formulazione dell’art. 18 come modificato nel 1990, salvo che per l’indicazione, nell’art. 2 del d. lgs n. 23 della retribuzione base per il calcolo del tfr in luogo della retribuzione globale di fatto,  quale base per la liquidazione del danno, scelta volta a sostituire un criterio, per sua struttura variabile, di definizione giurisprudenziale con un altro a definizione normativo sindacale (art. 2120 cod. civ.), con intento sicuramente riduttivo dell’importo dovuto ma con un esito non tale da porre in dubbio che si tratti sempre di risarcimento del danno, così come testualmente definito anche per il minimo («In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità…»). Non vi è quindi alcuna ragione per non estendere alle fattispecie considerate, oltre quelle di licenziamento discriminatorio che, come detto, hanno una disciplina autonoma, le stesse conclusioni.

Dal lato opposto, pare si debba escludere che per le ipotesi di cui all’art. 18, comma 5 l. n. 92/2012 e agli art. 1. 3 comma 1 del decreto n. 23/2015 si possa parlare di risarcimento del danno. Sono fattispecie in cui l’atto negoziale nonostante sia illegittimo per mancanza del presupposto sostanziale, produce ugualmente l’effetto a cui è diretto della cessazione del rapporto. All’atto illegittimo ma efficace viene riconnesso solo un obbligo indennitario. 

L’art. 18 comma 5 prevede il pagamento di «un'indennità risarcitoria onnicomprensiva», da un minimo di dodici a un massimo di ventiquattro mensilità, non suscettibile di essere parametrata in base a circostanze diverse da quelle indicate: anzianità del lavoratore, numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e delle condizioni delle parti. 

Il d. lgs n. 23 prevedeva un automatismo meramente matematico parametrato sulla sola anzianità, con un tetto minimo e uno massimo. A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 questo automatismo è stato dichiarato illegittimo, in quanto in violazione del principio di uguaglianza (trattamento uguale di situazioni eterogenee) e del principio di ragionevolezza (difetto di adeguata compensazione del pregiudizio correlata al caso concreto e possibile difetto di efficacia dissuasiva), senza però modificare la natura indennitaria del ristoro patrimoniale, che anzi è confermata e ritenuta legittima. Nella stessa sentenza la determinazione dell’indennità, che espressamente si ritiene “onnicomprensiva” come quella dell’art. 18. comma 5, viene rimessa al giudice tra un minimo e un massimo (oggi tra le sei e le trentasei mensilità) in base ai «criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)», oltre che all’anzianità ovvero agli stessi criteri di cui all’art. 18 riformato (e all’art. 8 l n. 604/66).

Fermo restando, secondo l’oramai consolidato l’orientamento (Cass. n. 18508/2016, n.  14192/2018), l’autonomo diritto all'indennità sostitutiva del preavviso ricorrendone i presupposti che non sono assorbiti dall’indennità di cui si sta trattando, quest’ultima esaurisce ogni altro possibile pregiudizio, patrimoniale e non patrimoniale, salvo che al recesso illegittimo si accompagni una condotta illecita ex art. 2043 cc, che rilevi autonomamente rispetto all’atto negoziale (ingiuria, diffamazione, lesioni come pure si è visto nella casistica).  

Queste considerazioni vanno poi estese all’illegittimità da vizi formali o procedurali di cui all’art. 18 comma 6 e all’art. 4 del d. lgs n. 23, per le quali è previsto il dimezzamento dell’indennità.

Rimangono dubbie le fattispecie previste dall’art. 18 comma 4 e dall’art. 3 comma 2 d. lgs n. 23/2015, nelle quali il recesso è illegittimo, mantiene la natura di inadempimento contrattuale rispetto a un rapporto che con la pronuncia giudiziale viene ricostituito senza soluzione di continuità, salvo che per il risarcimento del danno del lavoratore per il quale è previsto il pagamento delle retribuzioni dal licenziamento alla reintegra, ma con tetto massimo di dodici mensilità.

Entrambe le norme definiscono il ristoro patrimoniale come indennità risarcitoria, prevedendo nel contempo il risarcimento integrale del danno contributivo e la detrazione dall’indennità risarcitoria dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum, con una ibridazione di disciplina a vantaggio del datore di lavoro.

Indipendentemente da ogni altra considerazione su questa scelta, la previsione di un tetto massimo all’indennità lascia intendere chiaramente la volontà di circoscrivere il possibile danno da compensare a un ammontare certo, ma l’assenza della definizione “onnicomprensiva” e il richiamo implicito dell’art. 1227 cod. civ. dovrebbero essere intesi come indicativi di un ambito di applicazione al solo danno patrimoniale, senza estensione quindi al danno non patrimoniale nei termini sopra descritti.


 
[1] L. Sanseverino, in Commentario del Codice civile a cura di Scialoja e Branca, 1986, ed Zanichelli Foro Italiano, Libro quinto: Lavoro, pag. 686 e seg., giurisprudenza e dottrina ivi citate.

[2] Per giurisprudenza pacifica anche per la prima volta nel giudizio di rinvio, v. Cass. n. 20500/2008.

07/02/2024
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