1. La questione di costituzionalità oggetto della sentenza n. 161 del 2023
Con la sentenza n. 161 del 24 luglio 2023 (Pres. Sciarra; Est. Antonini), la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità dell’art. 6, 3° comma, ultimo periodo, della L. 40 del 2004 (recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita – PMA), laddove, disponendo che la volontà di entrambi i soggetti della coppia, che intende accedere a tale tecnica procreativa, è revocabile da ognuno degli stessi soggetti «fino al momento della fecondazione dell’ovulo», non prevede un termine per revocare il consenso successivamente alla predetta fecondazione e, quindi, impedire l’impianto dell’ovulo fecondato nell’utero[1]; e ciò anche quando (con riferimento alla fattispecie concreta pendente avanti al giudice remittente), per questioni inerenti la salute della donna, l’impianto dell’ovulo fecondato sia diventato possibile solo a distanza di un ampio lasso di tempo dalla fecondazione e, medio tempore, i componenti della coppia si siano separati[2].
L’eccezione d’incostituzionalità (sollevata dal Tribunale di Roma[3] nel corso di un processo promosso dalla donna, che, stante l’opposizione dell’uomo, si era vista opporre un diniego all’impianto da parte della struttura ospedaliera che avrebbe dovuto provvedervi), era stata proposta sotto quattro profili, ritenendosi che l’impossibilità di revocare il consenso all’impianto dell’ovulo fecondato si ponesse, per quanto concerne l’uomo, in conflitto:
a) col suo «diritto all’autodeterminazione in ordine alla decisione di non diventare genitore e a quello del rispetto della vita privata e familiare», garantiti dagli artt. 2 Cost. e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;
b) col principio d’eguaglianza, enunciato dall’art. 3, 1° comma, Cost., incidendo l’irrevocabilità del consenso sulla sua libertà, essendo, invece, alla donna (per motivi di salute) sempre consentito rifiutare l’impianto[4];
c) col principio d’inviolabilità della persona ex art. 13 Cost.;
d) col diritto alla salute garantito dall’art. 32 Cost.
La Corte ha esaminato solo i primi due profili, ritenendo inammissibili gli altri per mancanza di motivazione in merito da parte del giudice a quo.
2. La modifica, per declaratorie d’incostituzionalità, dell’impianto originario della L. 40 del 2004 in punto irrevocabilità del consenso della donna alla PMA
Nell’ordinanza con cui fu sollevata la questione di costituzionalità, il Tribunale rimettente aveva evidenziato (e la Corte costituzionale, nella sentenza in esame, al § 9 della motivazione, ha dato atto dell’esattezza del rilievo) che la diversa disciplina relativa al consenso alla tecnica di PMA (revocabile per la donna, irrevocabile per l’uomo), deriva dal mutamento intervenuto nella legislazione, rispetto al momento in cui era stata promulgata la L. 40 del 2004, in forza di due declaratorie d’incostituzionalità, intervenute con le sentenze n. 151 del 2009[5] e n. 96 del 2015[6].
Invero, con la sentenza n. 151 del 2009 la Corte costituzionale, esaminando il disposto del comma 2 dell’art. 14 della legge, secondo cui non si doveva «creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», dichiarò l’incostituzionalità della prescrizione connessa alle parole testé riportate in corsivo, precisando (in motivazione, § 6.1) che restava «salvo il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario, secondo accertamenti demandati, nella fattispecie concreta, al medico[7], ma esclude[ndo] la previsione dell'obbligo di un unico e contemporaneo impianto e del numero massimo di embrioni da impiantare» al fine di eliminare «sia la irragionevolezza di un trattamento identico di fattispecie diverse, sia la necessità, per la donna, di sottoporsi eventualmente ad altra stimolazione ovarica, con possibile lesione del suo diritto alla salute».
La Corte precisò, inoltre, che, introducendosi «una deroga al principio generale di divieto di crioconservazione di cui al comma 1 dell'art. 14, quale logica conseguenza della caducazione, nei limiti indicati, del comma 2» e determinandosi, quindi, la necessità del ricorso alla tecnica di congelamento con riguardo agli embrioni prodotti ma non impiantati per scelta medica», discendeva, di conseguenza, «la declaratoria di incostituzionalità del comma 3 [dell’art. 14], nella parte in cui non prevede[va] che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come previsto in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna».
Successivamente, con la sentenza 5 giugno 2015, n. 96, la Corte dichiarò l’incostituzionalità degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della L. 40 del 2004 nella parte in cui escludevano il ricorso alle tecniche di PMA alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità che, ai sensi dell’art. 6, comma 1, della L. 22 maggio 1978, n. 194, consentono l’interruzione volontaria della gravidanza anche dopo i primi 90 giorni[8]. La Corte osservò in merito: «Sussiste, […], un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell'indiscriminato divieto, che le denunciate disposizioni oppongono, all'accesso alla PMA, con diagnosi preimpianto, da parte di coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni», sottolineando la «palese antinomia normativa» (già rilevata anche dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Costa e Pavan contro Italia[9], espressamente richiamata), consistente nel fatto che «il nostro ordinamento consente […] a tali coppie di perseguire l'obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali […] quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto "accertati processi patologici ... relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna"». La Corte evidenziò, quindi, un grave aspetto della legge: «il sistema normativo, cui danno luogo le disposizioni censurate, non consente (pur essendo scientificamente possibile) di far acquisire "prima" alla donna una informazione che le permetterebbe di evitare di assumere "dopo" una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute», con violazione dell’art. 32 Cost.[10]
Si dava luogo, in tal modo, ad un altro caso di revoca del consenso alla prosecuzione del trattamento medico con l’impianto dell’embrione nell’utero.
Insomma, la dichiarata incostituzionalità di alcune norme della legge, in considerazione della necessità della tutela psicofisica della donna, ha comportato un’ampia possibilità di crioconservazione di embrioni, che nel testo originario della legge stessa poteva avvenire soltanto in via eccezionale. Nel sistema – come puntualizza la Corte (in motivazione al § 9.2 della sentenza in esame) – «si è […] determinata la possibilità di una eventuale dissociazione temporale, anche significativa, tra il consenso prestato […] e il trasferimento in utero. Mentre questo era normalmente destinato ad avvenire nel breve spazio di pochissimi giorni dalla fecondazione, cioè dal momento in cui il consenso prestato dalla coppia diveniva irrevocabile, è oggi possibile che la richiesta dell'impianto degli embrioni crioconservati venga manifestata dalla donna (in virtù del proprio stato psicofisico) non solo a distanza di molto tempo da quel momento, ma anche in presenza di condizioni soggettive assai diverse da quelle che necessariamente dovevano esistere in concomitanza all'accesso alle tecniche in discorso».
3. La decisione della Corte costituzionale: a) costituzionalità della differente disciplina del consenso tra uomo e donna
Nel decidere la questione sottopostale, la Corte costituzionale è partita da una precisazione: non è possibile ipotizzare nell’ordinamento giuridico italiano un impianto coattivo dell’ovulo fecondato nell’utero della donna, anche perché:
a) l’art. 1 della L. 22 dicembre 2017, n. 219 (recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) dispone: al 1° comma, che «nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge»; al 3° comma, che «ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento […] il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento;
b) essa stessa ha affermato, nella sentenza 229 del 2015 (in motivazione, al § 3, ult. cpv.)[11], che il divieto di soppressione dell’embrione non comporta l’impianto coattivo nell’utero della donna.
Alla luce di queste considerazioni la Corte ha affermato che la normativa relativa al consenso prestato in relazione alla fecondazione assistita presenta una diversa disciplina per i componenti della coppia: la donna può revocare il consenso all’impianto dell’embrione, l’uomo no. Tuttavia ciò non vìola il divieto di discriminazione in base al sesso sancito dall’art. 3 Cost., poiché, in questa fattispecie, vi è un’«eterogeneità di situazioni», che legittima la distinzione, essendo solo la donna che deve sottoporsi al trattamento, non l’uomo. Ricorda la Corte (in motivazione, al § 10), che «si è in presenza di una violazione dell'art. 3 Cost. solo "qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili" […]».
La Corte sottolinea, infatti, che la donna che ricorre alla PMA viene «sottoposta a impegnativi cicli di stimolazione ovarica, relativamente ai quali non è possibile escludere l'insorgenza di patologie, anche gravi»; e precisa che «all'esito positivo di detta terapia, […] viene poi sottoposta, nell'ipotesi decisamente più ricorrente che è quella della fecondazione in vitro, al prelievo dell'ovocita, che necessariamente (…) consiste in un trattamento sanitario particolarmente invasivo, tanto da essere normalmente praticato in anestesia generale» e che, inoltre, ulteriori trattamenti farmacologici e analisi possono essere necessari dopo la fecondazione.
Sulla base di questi dati, la Corte sottolinea che, a differenza dell’uomo, «l'accesso alla PMA comporta quindi per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni. Corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo processo, che culmina nella concreta speranza di generare un figlio, a seguito dell'impianto dell'embrione nel proprio utero»[12].
L’irrevocabilità del consenso dell’uomo, prevista dalla legge, è, dunque, «funzionale a salvaguardare l'integrità psicofisica della donna» (che ha una tutela costituzionale nel disposto dell’art. 32 Cost.) «dalle ripercussioni negative che su di lei produrrebbe l'interruzione del percorso intrapreso, quando questo è ormai giunto alla fecondazione» e tiene conto del diverso coinvolgimento dei due componenti la coppia nell’intervento di procreazione medicalmente assistita. E tra le ripercussioni negative la Corte ricomprende esplicitamente quelle «ancor più gravi» laddove, «a causa dell'età (che già solo in relazione alla capacità di produrre gameti incide in misura ben maggiore rispetto all'uomo) o delle condizioni fisiche, alla donna – anche per effetto del tempo trascorso dalla crioconservazione dell'embrione "conteso" – non residuasse più la possibilità di iniziare un nuovo percorso di PMA». E in tal caso – sottolinea la Corte – si avrebbe «una preclusione […] assoluta della propria libertà di autodeterminazione in ordine alla procreazione»[13].
4. (Segue): b) infondatezza della supposta irragionevole violazione della libertà di autodeterminazione dell'uomo
Queste considerazioni, che portano la Corte a ritenere ragionevole la scelta del legislatore italiano relativamente all’irrevocabilità del consenso dell’uomo nella materia de qua e della revocabilità di quello della donna, le consentono anche di rigettare il dubbio d’incostituzionalità afferente alla seconda questione oggetto della sentenza in esame, concernente la violazione degli artt. 2 e 3 Cost. per la supposta «irragionevole violazione della libertà di autodeterminazione dell'uomo», che sarebbe costretto «a diventare genitore contro la sua volontà».
La Corte riconosce che, essendo oggi possibile che in molti casi tra la fecondazione dell’ovulo e l’impianto nell’utero trascorra un ampio lasso di tempo, ciò possa ripercuotersi «sulla libertà dell'uomo di autodeterminarsi», laddove, medio tempore, «sia venuta meno quell'affectio familiaris sulla quale si era, in origine, fondato il comune progetto di genitorialità», ma, ciò nonostante, la donna voglia comunque procedere all'impianto dell'embrione (cfr. in motivazione, § 11.1). Tuttavia – precisa – tale situazione non comporta l’incostituzionalità della differenza di discipline se soltanto si tiene conto che l’art. 6 della L. 40 del 2004 prescrive che il consenso del ricorso alla tecnica di fecondazione assistita sia prestato dai due soggetti della coppia che vi fa ricorso in forma scritta, previa una dettagliata informazione, il cui contenuto è stabilito da un decreto ministeriale, da parte della struttura ospedaliera. Tale informazione fa riferimento sia alla possibilità della crioconservazione dell’embrione, sia alle conseguenze giuridiche derivanti dalla fecondazione assistita (la Corte fa riferimento particolare agli effetti previsti dagli artt. 8 e 9 della L. 40/2004).
Di qui la conclusione della Corte: «in definitiva, se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell'irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA, comunque garantita dalla legge, fa sì che l'uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre; ciò che rende difficile inferire, […], una radicale rottura della corrispondenza tra libertà e responsabilità» (in motivazione, § 11.4).
5. (Segue): c) infondatezza della supposta violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dell’uomo
Infine la Corte ha ritenuto insussistente anche una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dell’uomo, sollevata dal Tribunale di Roma, con riferimento al disposto dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, assumendo che il rispetto per la vita privata e familiare ricomprende, secondo la giurisprudenza della Corte europea, anche il diritto a non avere figli[14]. La Corte costituzionale non contesta tale assunto; rileva, peraltro, come proprio la Corte europea, nella sentenza della Grande Camera del 10 aprile 2007, relativa al caso Evans contro il Regno Unito[15], analogo a quello sottopostole (ma in un contesto legislativo in cui era prevista la revocabilità del consenso), dato atto che gli Stati europei hanno legislazioni sul punto della fecondazione in vitro molto differenti, aveva ritenuto che gli stessi Stati hanno un ampio margine di apprezzamento «nel risolvere un dilemma a fronte del quale […] qualsiasi soluzione adottata dalle autorità nazionali avrebbe come conseguenza la totale vanificazione degli interessi dell'una o dell'altra parte». E se nel caso Evans contro Regno Unito la Corte europea ha ritenuto, quindi, che la disposizione della legge inglese, che prevede la revoca del consenso dato dall’uomo all’impianto dell’ovulo fecondato col suo seme, non vìola il principio stabilito dall’art. 8 (e nel caso specifico la donna non avrebbe più potuto avere figli, non potendo più produrre ovuli, a causa dell’asportazione dell’ovario), alla stessa stregua quel principio non è violato dalla disposizione, in senso opposto, della legge italiana.
6. Un invito a riforme legislative
Queste essendo le motivazioni della Corte costituzionale, occorre, peraltro, evidenziare come la stessa riprenda il tema delle possibili diverse soluzioni legislative e del dilemma tragico che si pone in materia ad ogni legislatore. Infatti, dopo aver illustrato, come si è visto, quali sono gli interessi in conflitto tra loro nel caso di sopravvenuta volontà di revoca del consenso da parte dell’uomo; e dopo aver ricordato come l’embrione (che «ha in sé il principio della vita» e non è riconducibile a «mero materiale biologico»[16]) ha una tutela legislativa (per quanto non assoluta, poiché cede di fronte alle esigenze della salute psicofisica della donna[17]) ed una sua dignità, riconducibile al principio sancito dall’art 2 Cost.[18] (in motivazione, § 12.2), che lo rende partecipe del dilemma e del conflitto, la Corte costituzionale osserva conclusivamente: «Non sfuggono, tuttavia, a questa Corte la complessità della fattispecie e le conseguenze che la norma oggetto del presente giudizio, in ogni caso, produce in capo all'uomo, destinato a divenire padre di un bambino nonostante siano venute meno le condizioni in cui aveva condiviso il progetto genitoriale. // Ciò perché la regola giuridica in esame ha cristallizzato il consenso prestato prima che si disgregasse l'unità familiare, benché, in fatto (a differenza della procreazione naturale), sia ancora possibile evitare l'impianto dell'embrione a suo tempo fecondato e crioconservato. // Questa Corte è consapevole che lo status di genitore comporta una modifica sostanziale dei diritti e degli obblighi di una persona, idonea a investire la maggior parte degli aspetti e degli affetti della vita. // È altrettanto consapevole che il panorama del diritto comparato mostra soluzioni anche molto diversificate, sia a livello legislativo che giurisprudenziale».
Ciò premesso, la Corte sembra sollecitare il legislatore ad una riconsiderazione della materia, ricordando che è a tale potere dello Stato che spetta «la ricerca, nel rispetto della dignità umana, di un ragionevole punto di equilibrio, eventualmente anche diverso da quello attuale, fra le diverse esigenze in gioco in questioni che toccano "temi eticamente sensibili" […] "alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale"», ovviamente «ferma restando [da parte della stessa Corte] la sindacabilità […] delle scelte operate, al fine di verificare che con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole» (motivazione, § 15).
Non manca, al riguardo, un suggerimento sulla base di esperienze maturate in altri Paesi: la Corte costituzionale ricorda che se la Corte Suprema israeliana, nella sentenza del 12 settembre 1996 (caso Nahmani v. Nahmani) – menzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel citato caso Evans v. Regno Unito (al § 49) – in un caso di revoca del consenso da parte dell’uomo per sopravvenuta separazione, a maggioranza ha ritenuto che gli interessi della donna prevalevano su quelli dell’uomo, in particolare perché, nel caso specifico (fecondazione in vitro dell’ovulo e del seme maschile, ma impiantato nell’utero di altra donna, per problemi fisici della madre biologica), ella non aveva più la possibilità di far fecondare altri suoi ovuli, dal canto suo, la Corte costituzionale colombiana, in una vicenda analoga, ha permesso l’assimilazione del padre biologico a quella di un donatore anonimo.
A buon intenditor poche parole, si potrebbe dire, ma non senza sfiducia, atteso che il Parlamento italiano sembra decisamente insensibile alle sollecitazioni della Corte: caso Cappato docet[19].
[1] In realtà, se questo era il sistema nell’impianto originario della legge, tale è rimasto solo per l’uomo, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 151 dell’8 maggio 2009, su cui tornerò infra nel testo, nel § 2.
[2] Una questione simile era stata affrontata da Cass., 18 dicembre 2017, n. 30294, in Famiglia e diritto, 2019, 21 con nota di Figone, Revoca del consenso alla fecondazione eterologa, che aveva affermato: «Nella fecondazione assistita eterologa, così come per l'omologa, il preventivo consenso manifestato dal coniuge o convivente può essere revocato fino al momento della fecondazione dell'ovulo, sicché ove la revoca intervenga successivamente, ai sensi dell'art. 9, comma 1, della l. n. 40 del 2004, il partner non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione».
[3] Trib. Roma, 5 giugno 2022, n. 131, che si può leggere, oltre che sulla G.U. n. 46 del 2022, prima serie speciale, in https://onelegale.wolterskluwer.it/
[4] Vedi infra nel testo al § 2.
[5] Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, in Corriere Giur., 2009, 1213 e segg. con nota di Ferrando; in Fam. e Dir., 2009, 761 con nota di Dogliotti; in Giur. It., 210, 281 con note di Trucco, Chinni e Razzano; in Giust. Civ. 2009, 1184 e segg. con nota veementemente critica della Giacobbe. Su detta sentenza si veda anche Sanlorenzo, La disciplina della procreazione medicalmente assistita e la Costituzione, in Questione Giustizia, 2009, 179 e segg. e il volume Aa.Vv., I diritti delle coppie infertili, a cura di D’Amico e Pellizzone, Milano, 2010, in cui, si parva licet, una mia nota (ibid., 134 e segg., spec. 142 e segg.) con rilievi in senso critico agli assunti della Giacobbe.
[6] Corte cost., 5 giugno 2015, n. 96. Su queste sentenze (nonché su Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162, in Corriere Giur., 2014, 1062, con nota di Ferrando e Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229 mi permetto di rinviare al mio Principi fideistici e leggi positive: storia di una legge sbagliata, in Aa.Vv., Dal ritmo alla legge, a cura di Cambria, collana Mappe del pensiero, 2019, 216 e segg., spec. 220 e segg. e 226).
[7] La Corte ritenne che non potesse essere predeterminata in sede politica una valutazione di carattere medico. Occorre evidenziare che la Corte aveva già in passato enunciato il limite del legislatore in questo àmbito con due sentenze, esplicitamente richiamate, e precisamente la n. 282 del 20 giugno 2002 e la n. 338 del 14 novembre 2003. Nella prima sentenza la Corte precisò che «salvo che entrino in gioco altri diritti o doveri costituzionali, non è, di norma, il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche ammesse, con quali limiti e a quali condizioni. Poiché la pratica dell'arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione, la regola di fondo in questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione». Ovviamente «ciò non significa che al legislatore sia senz'altro preclusa ogni possibilità di intervenire. Così, ad esempio, sarebbe certamente possibile dettare regole legislative dirette a prescrivere procedure particolari per l'impiego di mezzi terapeutici "a rischio", onde meglio garantire – anche eventualmente con il concorso di una pluralità di professionisti – l'adeguatezza delle scelte terapeutiche e l'osservanza delle cautele necessarie. Ma un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l'elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati, dato l'"essenziale rilievo" che, a questi fini, rivestono "gli organi tecnico-scientifici"».
[8] Riporto il testo della norma: «L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: […]; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relative a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
[9] Corte Eur. Dir. Uomo, 28 agosto 2012, in Foro It., 2012, IV, 473. Con detta sentenza la Corte evidenziò l’incoerenza del sistema italiano e condannò l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ritenendo (§ 57) che «il desiderio dei ricorrenti di mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia genetica di cui sono portatori sani e di ricorrere, a tal fine, alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi preimpianto rientra nel campo della tutela offerta dall’articolo 8», poiché «una tale scelta costituisce, infatti, una forma di espressione della vita privata e familiare dei ricorrenti»; ciò premesso, considerato (§ 61) che la difesa del Governo italiano aveva sostenuto che l’ingerenza era giustificata dalla «preoccupazione di tutelare la salute del “bambino” e della donna nonché la dignità e la libertà di coscienza delle professioni mediche, e l’interesse ad evitare il rischio di derive eugeniche», affermò (con motivazione tranchant): «non [si] vede come la tutela degli interessi menzionati dal Governo si concili con la possibilità offerta ai ricorrenti di procedere ad un aborto terapeutico qualora il feto risulti malato, tenuto conto in particolare delle conseguenze che ciò comporta sia per il feto, il cui sviluppo è evidentemente assai più avanzato di quello di un embrione, sia per la coppia di genitori, soprattutto per la donna» (§ 62).
[10] Va precisato che cinque mesi dopo questa pronuncia, Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229 dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 13, commi 3, lett. b) e 4 , «nella parte in cui contempla[va] come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l'impianto nell'utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma 1, lettera b), della L. 22 maggio 1978, n. 194».
[12] La Corte ricorda inoltre che anche in relazione all’interruzione volontaria della gravidanza la legge attribuisce rilievo esclusivamente alla volontà della donna e che tale scelta legislativa fu da essa ritenuta Corte insindacabile poiché «coerente al disegno dell'intera normativa e, in particolare, all'incidenza, se non esclusiva sicuramente prevalente, dello stato gravidico sulla salute sia fisica che psichica della donna» (Corte cost., ord., 31 marzo 1988, n. 389).
[13] Questione drammatica a cui fa riferimento anche la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Evans v. Regno Unito del 10 aprile 2007 (su cui v. infra al § 4).
[14] Sul punto v. CEDU, 10 aprile 2007, caso Evans v. Regno Unito al § 71: «La Grande Chambre souscrit au point de vue de la chambre selon lequel la notion de “vie privée”, notion large qui englobe, entre autres, des aspects de l’identité physique et sociale d’un individu, notamment le droit à l’autonomie personnelle, le droit au développement personnel et le droit d’établir et entretenir des rapports avec d’autres êtres humains et le monde extérieur (…), recouvre également le droit au respect des décisions de devenir ou de ne pas devenir parent». Il passo è richiamato anche nella sentenza CEDU, 22 gennaio 2008, caso E.B. v. Francia al § 43. Sul principio per cui l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ricomprende il diritto ad avere figli, cfr. anche CEDU, 4 dicembre 2007, caso Dickson v. Regno Unito (con cui la Grande Chambre ha ritenuto ha ritenuto che vi fosse stata violazione dell’art. 8 da parte del Regno Unito nel diniego opposto ad una coppia di coniugi nel 2002 – la donna aveva già 44 anni e il marito, di 14 anni più giovane, doveva scontare una condanna all’ergastolo, che non gli permetteva di godere di permessi prima di 7 anni – di ricorrere alla fecondazione in vitro); CEDU, 1° aprile 2010, caso S.H. v. Austria (su cui, se si vuole, il mio Profili di incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa, in Questione Giustizia, 2011, 1, 37 e segg.); CEDU, 24 gennaio 2017, caso Paradiso e Campanelli v. Italia (ai §§ 159 e 161); CEDU, 16 aprile 2018, caso Nedescu v. Romania.
[16] Le espressioni sono riprese rispettivamente da Corte cost., 13 aprile 2016, n. 84 in Giur. It., 2017, 307 e segg. con note di Carusi e Rivera e Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229 cit..
[17] «La tutela dell'embrione non è comunque assoluta e del resto "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute [psicofisica] proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare"» (Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27, che dichiarò costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 31 comma 2 e 32 Cost., l'art. 546 c.p. nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando l'ulteriore gestazione avesse comportato danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile per la salute della madre, anche se non fossero stati presenti tutti gli estremi dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cod. pen.).
[18] Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229, cit.
[19] Cfr. Corte cost. (ord.), 29 novembre 2018, n. 207 e Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242.