Magistratura democratica
Magistratura e società

Cesare che non ha mai tradito

di Paolo Borgna
già procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino

Recensione a Espulso per tradimento. Storia di un detenuto comunista che chiese la grazia al duce, di Aldo Agosti e Marina Cassi, Donzelli, 2023

Non si può non voler bene a Cesare Cassi, artigiano torinese comunista, dirigente del partito clandestino, che a 26 anni viene arrestato dalla polizia fascista per attività sovversive e condannato a quindici anni dal Tribunale speciale per “riorganizzazione del Partito comunista” e che nel 1934, dopo 2589 giorni trascorsi in carcere, senza rinnegare le idee per cui aveva lottato, chiede la grazia, per poter crescere il figlio che, il giorno in cui era stato arrestato, aveva un anno. E che per questo viene espulso dal partito per tradimento. E mai più riabilitato.

Così come 40 anni fa, leggendo le sue lettere, non potemmo non voler bene ad Emilio Guarnaschelli, operaio comunista ventiduenne che dall’Italia di Mussolini aveva scelto di andare a studiare e a lavorare nell’Unione sovietica, per portare la sua «piccola pietra alla costruzione del socialismo», alla ricerca di un mondo nuovo e dei «domani che cantano». E che invece fu inghiottito dalle purghe staliniane: accusato di deviazionismo trotzkista, inviato in un gulag siberiano e fucilato, a 27 anni, per ordine del Commissariato per gli affari interni dell’URSS[1].  

Così come non si può non voler bene a tutti i soldati che tutte le rivoluzioni (vincitrici o sconfitte) impietosamente sacrificano, come un implacabile dio Crono che mangia i propri figli.

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Cesare Cassi, iscritto fin da ragazzo al partito socialista e, dopo la scissione di Livorno, al Pcd’I, è stato, dopo la strage squadrista di Torino del 18 dicembre 1922, uno dei quadri che ha ricostruito il partito in Piemonte. Nell’estate del 1924 (siamo nei mesi del delitto Matteotti) diventa funzionario del partito, svolgendo funzioni sempre più importanti di collegamento organizzativo tra diverse regioni. Dopo le “leggi fascistissime” del 1926 che mettono fuori legge i partiti antifascisti, la sua attività è, ovviamente, clandestina, avendo come copertura il lavoro di «rappresentante». 

E’, a venticinque anni, un «rivoluzionario di professione». Che corrisponde perfettamente alla celeberrima definizione che Pietro Secchia ne darà nel 1970 e che tanto affascinava noi giovani militanti di sinistra di quegli anni: «Uomini e donne, per lo più giovani, che intendevano impegnare la loro vita e ogni loro energia per la causa della libertà e della rivoluzione socialista. Avevano abbandonato la loro professione, il loro mestiere, la loro abituale residenza, spesso la famiglia, e si erano dedicati completamente al lavoro di partito e alla lotta contro il fascismo…». Definizione affascinante e terrifica. Affascinante: perché risponde all’iconografia del rivoluzionario tramandata dall’epica comunista. Terrifica per chi, come noi, è passato in mezzo agli anni del terrorismo. Perché le biografie di tutti i ragazzi e le ragazze che in quegli anni si bruciarono le ali nella «scalata al paradiso impossibile» della lotta armata, ci dicono che quella definizione secchiana del rivoluzionario di professione fu, per quei giovani, un modello da emulare.  

La missione del rivoluzionario Cesare Cassi, il suo arresto e il processo, i suoi lunghi anni di carcere, sono oggi ricostruiti e raccontati, da Aldo Agosti e da Marina Cassi (pronipote di Cesare), in un piccolo-grande libro edito nella collana Saggine di Donzelli[2].  Fondato sulle lettere dal carcere alla famiglia di origine (una sola delle tantissime lettere inviate alla moglie Isabella è stata rinvenuta, in quanto all’epoca sequestrata) e su accurate ricerche di archivio, il libro fonde il rigore scientifico della ricerca storica con una delicata attenzione alla mutazione sentimentale di Cesare. Proprio quest’ultima è analizzata in modo acutissimo ed individuata come spiegazione del comportamento di Cesare, posto che le sue lettere nulla ci dicono di una mutazione di orientamento politico. 

Quando viene arrestato, nel luglio 1927, il suo comportamento processuale è perfettamente consono alle indicazioni date dal partito ai propri militanti. Dichiara semplicemente d’essere stato «tratto in arresto perché sorpreso con materiale comunista». Per il resto, i numerosi verbali sono una costante ripetizione di frasi come: «Mi rifiuto categoricamente di fornire qualsiasi informazione circa…»; «Mi rifiuto pure di fornire qualsiasi informazione per la reperibilità…»; «Non voglio dire dove abbia alloggiato il giorno…»; «Non voglio dare spiegazioni con quali case…». 

Insomma: verbali da perfetto prigioniero politico. Ed infatti i solerti giudici carcerieri scriveranno che Cassi si è dimostrato «cinico e sprezzante, pervaso e fanatico delle più accese teorie sovversive» (anche se, a dire il vero, da quegli asciutti verbali non traspare alcuna traccia di fanatismo; a meno che si voglia interpretare come tale il sacrosanto diritto di non rispondere). 

Dopo la condanna del Tribunale speciale a 15 anni di reclusione, Cesare viene collocato nel carcere della fortezza di Volterra, noto a tutti i detenuti politici come uno dei «sepolcri dei vivi» (insieme a Santo Stefano e Portolongone). E’ posto in «segregazione cellulare», un regime così duro da essere abolito, nel 1931, con il codice Rocco: ventitré ore al giorno in una cella lunga due metri e cinquanta e larga un metro e sessanta; un’unica ora d’aria in un minuscolo cortiletto senza alcun contatto con gli altri detenuti politici; nessun quotidiano ma solo la possibilità di leggere tre riviste illustrate; senza poter leggere libri diversi da quelli della biblioteca del carcere. 

Trascorre trenta mesi in questo regime. Unica consolazione e fonte di informazione su quel che avveniva nel mondo (compatibilmente con la censura del carcere): le lettere dei familiari. 

Le cose cambiano, nel maggio 1931, con la fine della segregazione e il trasferimento al carcere di Spoleto: maggiore accesso ai libri; un direttore più umano; ripresa di qualche contatto con il partito; qualche scorcio di panorama e «la voce della gente che passa giù nella strada e il lontano gridio dei bambini che giocano». Tutte queste cose, dopo l’inferno di Volterra, sono sufficienti – scrive alla sorella - a dargli «un senso di contento al cuore perché queste cose significano la libertà che un bel giorno potrò rigodere ed apprezzare anch’io».    

Soprattutto: a Spoleto può lavorare. Cesare è diplomato come lavoratore del legno in una scuola tecnica di Torino. Ed è lì che - nel fermento degli anni seguenti alla Grande Guerra, nella Torino di Gramsci e dell’Ordine nuovo che gli Autori tratteggiano efficacemente in uno dei primi capitoli – è maturata la sua scelta politica. Ora, a Spoleto, può mettere a frutto la sua abilità artigiana. Lavora nella falegnameria del carcere, come intagliatore, per otto ore al giorno. Proprio l’impegno nel lavoro, insieme al trasferimento di molti compagni in altro penitenziario, creano un certo distacco dalla comunità carceraria dei comunisti. Nulla ci dice che si tratti di un allontanamento politico. E’, piuttosto, un bisogno di maggior «tranquillità e silenzio», come lui stesso scrive ai familiari. Aggiungendo, significativamente: «Già tante volte avevo pensato che la compagnia in questi posti spesso non ha che un solo merito: di far apprezzare l’isolamento». 

E’ – come viene sottolineato nel libro – una prima «breccia nella sua corazza». E’ il primo segno di quella che gli Autori acutamente mettono a confronto con quella che Antonio Gramsci, in una lettera alla cognata Tania, chiama la trasformazione «molecolare» compiuta dal carcere sul detenuto, creando in lui «impulsi, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti», per cui, al termine di questo processo, «le persone di prima non sono più quelle di poi».

In Cesare il desiderio di tornare agli affetti della famiglia aumenta come un’impetuosa alta marea e, ad un certo punto, sovrasta tutto. Quando era stato arrestato, suo figlio Sergio stava muovendo i primi passi. Lo rivedrà, in sporadici e troppo brevi colloqui in carcere che, subito dopo, gli lasciano un vuoto e un senso di soverchiante tristezza. Quando, nell’ottobre 1932, Sergio comincia la prima elementare e Cesare riceve dalla moglie una sua foto «vestito da scolaretto», scrive alla famiglia: «Siate sicuri che non penso certo di non arrivare a tempo ad aiutarlo nelle sue fatiche scolastiche». 

Ciononostante, nei suoi rapporti con l’amministrazione penitenziaria non vi è alcuna traccia di un cedimento politico. Al contrario, quando nell’ottobre del ’33 la sorella Tina in una lettera fa un cenno alla possibilità di chiedere la grazia, la reazione di Cesare è netta. Dice che, quando sarà possibile, avanzerà la domanda di libertà condizionale (istanza che il partito in certi casi ammetteva) ma – aggiunge – «ad altro, cara Tina, non rispondo … ti prego di non farne più cenno». 

Invece, pochi mesi dopo, Cesare maturerà, autonomamente e inaspettatamente, la decisione di chiedere la grazia. E’ una decisione autonoma ma non improvvisata. Semplicemente, la trasformazione «molecolare» di cui parlava Gramsci è giunta a compimento: la personalità del Cesare della primavera del ‘ 34 non è più quella di qualche anno prima, e neppure di pochi mesi prima. 

«Un desiderio solo è ormai in me: di ritornare, di ricostruire la nostra casetta e di vedervi tutti un pochino lieti dopo tanti dolori che avete avuto per me», scrive il 13 aprile ’34. E il 28 aprile precisa: «…la realtà delle cose volenti o nolenti finisce di imporsi e di far maturare propositi nuovi e di far sentire le responsabilità che abbiamo». Pochi giorni dopo, il preannuncio della domanda di grazia è ormai evidente. «Certi propositi pare che nascano all’improvviso nel pensiero ed invece non sono che il logico risultato di un profondo lavorio mentale che, in parte, quasi si svolge a nostra insaputa» (ed è impressionante, in queste parole, la perfetta corrispondenza con le riflessioni che, nel carcere di Turi, sta svolgendo Gramsci). Ciò che lo ha investito – spiega Cesare – è la necessità di «voler guardar lontano, di voler precisare su chi e per che cosa, per che fine impiegare la mia volontà».  

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La domanda di grazia viene formulata il 12 maggio 1934. Ed è molto interessante leggerne il contenuto. E’ una domanda sobria. Non c’è nessuna abiura, come invece era frequente in tante altre domande di grazia. Nessun inno al regime. Nessun pentimento e nessuna dichiarazione di essere stato traviato e irretito da cattivi compagni che lo avevano portato ad aderire alla dottrina comunista. Nessuna promessa di essere, in futuro, un ardente patriota riconoscente verso il duce e la santa causa del fascismo. 

Al contrario, Cesare rivendica di avere, in gioventù, aderito con profonda convinzione al movimento socialista e poi comunista, credendo di «servire un ideale degno dei più grandi sacrifici e destinato a realizzarsi». Semplicemente, con parole sincere – non a caso quasi perfettamente corrispondenti a quelle scritte nelle lettere ai familiari – dice che la realtà delle cose e il trascorrere del tempo, gli ha imposto di «porsi il problema del suo avvenire ed a fare una scelta definitiva», facendosi carico del dolore della mamma vedova, della moglie con cui aveva potuto convivere solo tre anni e del figlio che «più che mai ora si trova ad avere bisogno del padre». Promette dunque – qualora la domanda fosse accolta – di «dedicarsi esclusivamente al lavoro per sopperire ai bisogni della propria famiglia» e di abbandonare definitivamente ogni attività politica. 

Non è un’abiura. Semplicemente, è una dichiarazione di resa.

Cesare Cassi conosce molto bene le conseguenze che avrà la sua domanda. Le direttive del partito sono chiarissime: richiedere la grazia significa tradire. E i traditori sono equiparati alle spie e ai provocatori. L’espulsione per tradimento è automatica. Ed essere espulsi per tradimento dal partito comunista non significa soltanto non essere più iscritti. Significa pagare un prezzo umano enorme. Significa damnatio memoriae. Significa ripulsa, disprezzo, immediato e inesorabile, a cominciare dai compagni del carcere. Non a caso coloro che chiedevano la grazia, prima ancora che la domanda fosse accolta, erano assegnati dalla direzione in stanzoni separati che i detenuti chiamavano “cameroni merda”. Significa essere inserito nelle “liste nere” di sospetti, spie e traditori che ogni regione deve compilare e che vengono raccolte nell’archivio del partito e poi inviate a Mosca, all’Ufficio quadri del Comintern. 

Questa automatica equiparazione tra richiesta di grazia ed abiura si era accentuata, all’interno del partito, proprio all’inizio degli anni ’30, con la “svolta” staliniana che in Italia aveva portato all’espulsione, per trotzkismo, di Alfonso Leonetti, Pietro Tresso e Paolo Ravazzoli (e si noti che Leonetti e Ravazzoli erano stati inizialmente coimputati di Cesare nello stesso processo ma poi “stralciati” soltanto perché latitanti all’estero). Cassi dunque formula la sua domanda proprio nel momento della più intransigente severità del partito.  

Cesare sa che questo sarà il suo futuro. Ma, una volta presa la decisione, lo affronta senza tentennamenti.

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C’è qualcosa che rende le conseguenze di questa decisione ancora più strazianti. I quindici anni di reclusione della sua condanna erano stati ridotti a dieci grazie all’indulto (di cinque anni) del 1932 per il decennale della marcia su Roma. Dunque, nel maggio del 1934 il suo “residuo pena” era di tre anni. Nel settembre di quello stesso anno nasce Maria Pia, figlia del principe Umberto e di Maria José. E la notizia della gravidanza della principessa è nota già in primavera (ad essa si fa riferimento in una lettera ai familiari del marzo). E’ praticamente certo che per il lieto evento vi sarà un provvedimento di clemenza. E’ vero che l’amnistia e l’indulto concessi nel gennaio del ’30 (per il matrimonio di Umberto e Maria José) aveva escluso i reati politici. Ma vi sono buoni motivi per credere che questa volta l’indulto riguarderà tutti i reati. E infatti sarà così: l’amnistia e l’indulto di due anni che verranno concessi il 25 settembre 1934 non solo non escluderà i “politici” ma sarà soprattutto indirizzato a loro. In particolare agli esuli, che verranno esplicitamente evocati da Mussolini «coloro che, forse più illusi che colpevoli, si sono lasciati attrarre da evanescenti miraggi, inducendosi ad abbandonare il sacro suolo della Patria senza l'osservanza delle norme dalla legge stabilite». Tant’è che già il 28 settembre gli esuli parigini di Giustizia e Libertà insorgono, bollando le parole del duce come «sozza grossolanità mussoliniana». 

Fatto sta che cinque mesi dopo la domanda di grazia di Cesare, la sua pena sarebbe stata automaticamente ridotta di due anni. E sarebbe uscito dal carcere il 30 giugno 1935. 

Anziché un indegno traditore, Cesare sarebbe stato un eroe del partito, un monumento, il frutto esemplare di quella “università del carcere” di cui amavano parlare i dirigenti comunisti. Per il resto della sua vita sarebbe stato avvolto dal calore di una comunità che lo avrebbe guardato con ammirazione e riconoscenza. Probabilmente sarebbe diventato parlamentare.  

E invece – come sottolineano gli Autori – Cesare Cassi sarà seppellito in un «oblio avvenuto quasi come un fenomeno naturale». Non sarà neppure citato da Paolo Spriano nella sua Storia del Pci, che minuziosamente elenca i nomi degli arrestati dopo le leggi eccezionali del 1926. Né in tutti gli altri numerosi volumi di memorialistica dei comunisti, anche se torinesi. L’unica a ricordarlo, incidentalmente, sarà Ada Gobetti che, nel suo Diario di trent’anni, pubblica una lettera di Camilla Ravera del 1932 in cui si fa cenno al «buon Cassi» che, nel carcere di Spoleto, legge e lavora e conserva uno «spirito molto elevato, nonostante i cinque anni ormai!».  

Al suo funerale, nel 1968, il partito non si farà vivo. 

Eppure, in tutti gli anni dopo l’uscita dal carcere, Cassi non aveva mai accennato ad un gesto o ad una parola di ostilità verso il partito. E probabilmente per tutta la vita si era sentito fedele ai valori che avevano ispirato la sua scelta di gioventù. E a questi valori aveva educato il figlio Sergio, che sarà giovanissimo partigiano garibaldino, sindacalista, militante del Pci e infine licenziato «per rappresaglia politica e sindacale» dalla Fiat negli anni Cinquanta.

Neppure questi “meriti familiari” varranno, da parte del partito, una qualche “riabilitazione”. Che certamente Cesare non chiese mai. Ma che neppure gli fu mai offerta. 

Anche a chi, come noi, ha nostalgia del ruolo degli antichi partiti, in grado di penetrare nella società, di leggerla e di creare comunità di persone capaci di un agire collettivo, questa squassante invasività del partito nelle vite dei suoi militanti fa venire un brivido alla schiena. Un’invasività che, come nel caso di Cesare, può essere fatta anche di silenzi sprezzanti, di saluti ritirati. Bianca Guidetti Serra ci raccontava di quando, dopo la sua uscita dal partito per i fatti di Ungheria del ’56, funzionari e funzionarie del partito con cui aveva lavorato nella Resistenza e fatto tante lotte nel sindacato, all’improvviso smisero di salutarla: «forse questa è stata la massima delusione»[3].

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Il tema centrale del libro di Aldo Agosti e Marina Cassi non è soltanto il destino individuale di Cesare ma, più in generale, l’estensione del fenomeno delle domande di grazia formulate dai comunisti (tra il 1927 e il 1940 furono ben ottocento!) e delle sue conseguenze. Molte altre storie personali vengono rievocate e confrontate. 

Ma è indubbio che la sorte di Cesare – che mai aveva tradito i compagni, aveva resistito ai trenta mesi di segregazione di Volterra, persino nella domanda di grazia non aveva ceduto alla tentazione di omaggiare il regime – è tra le più crudeli.

Come non confrontare l’intransigenza severa nei suoi confronti con il “nicodemismo” predicato e praticato nel partito di Togliatti – come ricordano gli Autori - «per penetrare le organizzazioni di massa del fascismo per influenzarle ed esasperarne le contraddizioni»? 

Come non pensare alla generosità con cui, dopo il 25 aprile, molti fascisti in camicia nera furono accolti e vezzeggiati, divenendo dirigenti stimati e amati del partito (basti ricordare l’autobiografico Voltagabbana di Davide Lajolo)?   

Come non ricordare che Togliatti (che il 31 ottobre 1931 aveva emanato una circolare che sarà alla base dei provvedimenti interni che comporteranno l’espulsione dei richiedenti la grazia) una volta nominato Guardasigilli del governo Parri confermerà alla guida dell’ufficio legislativo di via Arenula quel Gaetano Azzariti, che era stato presidente del Tribunale della razza (e terminerà la sua carriera come presidente della Corte costituzionale)? 

«Se il tempo è galantuomo, io son figlio di nessuno», cantava Sergio Endrigo nella Ballata dell’ex

A volte, però, il tempo può davvero essere galantuomo. Bisogna soltanto avere pazienza e aspettare un libro come questo. 


 
[1] E. Guarnaschelli, Una piccola pietra. L’esilio, la deportazione e la morte di un operaio comunista italiano in Urss 1933-1939, Garzanti, 1982.

[2] Espulso per tradimento. Storia di un detenuto comunista che chiese la grazia al duce, Donzelli, 2023.

[3] B. Guidetti Serra, con Santina Mobiglia, Bianca la rossa, p. 84, Einaudi, 2009. 

16/09/2023
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