Magistratura democratica
Magistratura e società

Spese processuali e valore marginale del denaro

di Antonio Carbonelli
avvocato giuslavorista e filosofo a Brescia

1. La disciplina delle spese processuali

Nel 1742-43 Ludovico Antonio Muratori, nel saggio Dei difetti della giurisprudenza, individuava sostanzialmente due difetti della giustizia civile nel nostro paese.

Primo, «a quante deplorabili lunghezze sia condennata in alcun paese la giustizia», ossia la lentezza dei processi.

Secondo, «la giurisprudenza ridotta in un caos d’opinioni tanto diverse e fra lor contrastanti», ossia la divergenza degli orientamenti giurisprudenziali.

V’è da chiedersi quali progressi sostanziali abbiamo fatto su tali due difetti della giustizia civile.

Quanto all’onere delle spese processuali, in particolare, attualmente nel nostro paese la regolamentazione concreta dell’onere delle spese processuali in sede giudiziaria in alcuni casi denota la tendenza a uno sbilanciamento in danno della parte debole del rapporto di lavoro.

Per addentrarci in tale problematica, ripercorriamo innanzi tutto l’evoluzione degli articoli 91 e 92 del codice di procedura civile.

L’art.91, condanna alle spese, nella versione originaria, vigente dal 21.4.42 al 3.7.09, disponeva che «Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Eguale provvedimento emette nella sua sentenza il giudice che regola la competenza.

Le spese della sentenza sono liquidate dal cancelliere con nota in margine alla stessa; quelle della notificazione della sentenza, del titolo esecutivo e del precetto sono liquidate dall’ufficiale giudiziario con nota in margine all’originale e alla copia notificata.

I reclami contro le liquidazioni di cui al comma precedente sono decisi con le forme previste negli articoli 287 e 288 dal capo dell’ufficio a cui appartiene il cancelliere o l’ufficiale giudiziario».

A seguito delle modificazioni introdotte nel codice di rito dalla L.69/09, dal 4.7.09 al 21.12.11 il primo comma dell’art.91 ha disposto che «Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92».

E a seguito delle modificazioni introdotte nel codice di rito dal D.L. 212/11 (chissà perché, con decreto-legge), dal 22.12.11 all’art.91 è stato aggiunto un quarto comma, per cui «Nelle cause previste dall’articolo 82, primo comma [le cause davanti al giudice di pace il cui valore non eccede euro 1.100], le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda».

Veniamo all’articolo 92.

L’art.92, «condanna alle spese per singoli atti, compensazione delle spese», nella versione originaria, vigente dal 21.4.42 al 28.12.05, disponeva che «Il Giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art.88, essa ha causato all’altra parte.

Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti.

Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione».

A seguito delle modificazioni introdotte nel codice di rito dalla L.263/05, come modificata due giorni dopo dal D.L. 273/05, dal 29.12.05 al 3.7.09 il secondo comma dell’art.92 ha disposto che «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».

Come se l’art.111 della Costituzione non avesse disposto da sempre che i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

A seguito delle modificazioni introdotte nel codice di rito dalla L.69/09, dal 4.7.09 al 10.11.14 il secondo comma dell’art.92 è stato sostituito dal seguente: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».

A seguito delle modificazioni introdotte nel codice di rito dal D.L. 132/14 (di nuovo un decreto-legge), dall’11.11.14 il secondo comma dell’art.92 è stato nuovamente sostituito: «Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero».

 

2. L’intervento della Corte costituzionale

Ma con la sentenza 19.4.18, n.77, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo comma, nel testo modificato dal D.L. 132/14, «nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni».

Il Tribunale di Torino aveva rimesso la questione di costituzionalità sul rilievo che «si configurerebbe la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza, in quanto sussisterebbe una sproporzione tra il fine perseguito quello di “disincentivare l’abuso del processo” e lo strumento normativo utilizzato, consistito nella “limitazione estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione” delle spese di lite. Mentre il testo, come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), era già “del tutto sufficiente a scongiurare eventuali abusi, da parte del giudice, nell’uso dello strumento della compensazione contenendo essa già una regolamentazione del tutto rigorosa ed appropriata”».

E il Tribunale di Reggio nell’Emilia, istigato da un’azienda che aveva proposto opposizione avverso un’ordinanza “Fornero” soltanto per contestare l’intervenuta compensazione delle spese processuali, aveva rimesso analoga questione di costituzionalità, «evidenziando come un’interpretazione rigida» dell’art.92, secondo comma c.p.c. «determinerebbe un’illegittima riduzione della discrezionalità del giudice nella valutazione degli elementi idonei a giustificare la compensazione delle spese di lite».

Risulta pertanto importante ripercorrere l’iter argomentativo della decisione della Corte costituzionale.

La Corte, al punto 16 della motivazione, conclude che «Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni».

E ciò, sul rilievo che (punto 15) «la rigidità delle due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa.

La prevista ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia. 

Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» sta appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte, in particolare se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia.

Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l’assoluta novità della questione – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a “gravi ed eccezionali ragioni”.

Pertanto, contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti».

La motivazione della decisione fa dunque un riferimento preciso a) ai casi nei quali «risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia», nelle ipotesi in cui, ovviamente, esso «altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti», nonché b) ai casi nei quali sussista una «situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza: che, come tali, non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate».

E ciò, in quanto «la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti».

Questi sono i casi ai quali la Corte costituzionale ha esteso la possibilità di compensazione delle spese processuali anche in favore della parte totalmente soccombente.

Con la precisazione che (punto 18) «la condizione soggettiva di “lavoratore” non ha mai comportato alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse nei confronti del datore di lavoro».

Ma che, tuttavia, c) la circostanza «che il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite».

E che d) (punto 19) «La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte “debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che quest’ultima è resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. con l’innesto della clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”».

Con riguardo specifico alle controversie di lavoro, pertanto, ai casi nei quali a) «risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia», nelle ipotesi in cui esso «altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti», nonché ai casi nei quali b) sussista una «situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza», vanno aggiunti i casi nei quali c) «il lavoratore, per la tutela di suoi diritti», si trovi costretto a «promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro», e quelli nei quali d) «il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali».

Come ha rilevato acutamente autorevole dottrina (R. Sanlorenzo, in Questione giustizia 1.5.18), «con la sentenza n. 77 del 2018, la Corte costituzionale cancella la riforma del 2014 che limitava fortemente la possibilità di compensazione fra le parti all'esito del giudizio civile e affida al giudice, ed in particolare a quello del lavoro, uno strumento efficace di adeguamento del regolamento delle spese alle peculiarità del caso concreto».

 

3. Le (non) applicazioni pratiche

Eppure, nonostante la pronuncia della Corte costituzionale risalga al 2018, nella realtà concreta del contenzioso in sede giudiziaria si assiste talora a decisioni punitive nei confronti dei lavoratori anche in presenza dei presupposti indicati come rilevanti dalla Corte costituzionale.

Si assiste a decisioni di compensazione delle spese processuali in favore del datore di lavoro, o di un ente previdenziale, pur nell’assenza dei presupposti prescritti dall’art.92.

Si assiste a decisioni che confondono ancora l’accoglimento parziale della domanda con il concetto di soccombenza reciproca, quando invece le Sezioni Unite hanno chiarito già nel 2022 che, «in tema di spese processuali, l'accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza» (cass. SS.UU. 32061/22).

Non si vede applicare praticamente mai il primo comma dell’art.92, per il quale il giudice «può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art.88, essa ha causato all’altra parte».

Nelle proposte di conciliazione, non si vede applicare praticamente mai l’art.4, comma 6 della tariffa professionale promulgata con DM 55/14, per il quale, «Nell'ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, il compenso per tale attività è determinato nella misura pari a quello previsto per la fase decisionale, aumentato di un quarto, fermo quanto maturato per l'attività precedentemente svolta».

Esiti realmente disastrosi hanno sortito, in materia di lavoro, condanne alle spese, per esempio, di un lavoratore che abbia subito un infortunio sul lavoro grave, magari nell’ambito di lavorazioni in appalto, e si sia visto condannare alle spese nei confronti del committente, dell’appaltatore e dei rispettivi assicuratori della responsabilità civile chiamati in causa.

Oppure, nel caso di cause riunite e di condanna alle spese in via solidale di tutti i lavoratori per un’unica ingente cifra complessiva, casi nei quali uno solo dei ricorrenti risulti non insolvente e si trovi condannato in concreto a pagare per tutti quanti.

Nei casi di domanda proposta da più ricorrenti, o anche solo di riunione di procedimenti diversi di lavoro ai sensi dell’art.151, disp. att. c.p.c., infatti, appare assai discutibile il principio di sostanziale insindacabilità dell’attribuzione dell’onere delle spese processuali in via solidale (enunciato, per esempio, da cass. 3102/23).

Persino in Corte di cassazione, inoltre, ci si permette di rilevare che meriterebbe di essere soppesato l’automatismo con il quale paiono irrogate condanne alle spese processuali nei confronti dei lavoratori anche in presenza di assoluta novità di una questione giuridica dirimente.

A ciò si aggiunga che l’attuale tariffa professionale forense è fortemente regressiva, e sproporzionata sui valori medio-bassi rispetto ai valori più alti, con conseguente penalizzazione maggiore della parte soccombente proprio nei casi più frequenti di contenzioso in materia di lavoro, che solo in casi numericamente marginali superano i centomila euro. 

Quanto, infine, alla sinteticità degli atti processuali, l’art. 46, ultimo comma disp. att. c.p.c. dispone ora che «Il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell'atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo».

Ma meriterebbe applicazione anche nel processo civile il principio proprio del processo amministrativo, per cui, «Ai sensi degli art. 3 e 26 c.p.a., le spese del giudizio devono essere liquidate seguendo non solo la regola della soccombenza, ma anche il principio di sinteticità degli atti processuali, il quale costituisce uno dei modi - e forse tra i più importanti - per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace» (Cons. St. IV, 2963/14).

 

4. Alcuni malintesi sul principio di deflazione del contenzioso?

Probabilmente, a monte di tutto ciò non v’è soltanto una reazione in senso diametralmente opposto a talune decisioni estreme cui è toccato di assistere negli scorsi decenni in materia di lavoro, ma vi sono anche alcuni malintesi riguardo al principio di deflazione del contenzioso. 

Primo malinteso: la giustizia è una risorsa limitata? 

Vero. Ma ciò non implica che la si riservi solo a chi se la può permettere.

Quanto meno, in certe materie, che toccano più da vicino la vita delle persone.

Secondo malinteso: nel nostro paese v’è un numero di avvocati assai maggiore che altrove?

Vero, anche questo. Ma smettiamola, per favore, di dare tutta la colpa agli avvocati. 

Nel nostro paese v’è anche un numero assai maggiore che altrove di leggi e di fonti normative oscure e contraddittorie. 

E spesso si tratta di norme di qualità assai discutibile. 

Si pensi, per restare nella materia del lavoro, alla decorrenza del termine di 180 giorni per la proposizione del ricorso giudiziale in tema di licenziamento e materie assimilate: il legislatore non s’era premurato di precisare se il termine dovesse decorrere dal licenziamento, dall’impugnazione del licenziamento, o dal termine per impugnare il licenziamento. 

S’è dovuti arrivare in Corte di cassazione per chiarire … com’è scritta la legge.

 

5. Il valore marginale del denaro

Inoltre, v’è un altro fattore che meriterebbe di essere preso in considerazione tra le «gravi ed eccezionali ragioni» che giustificato la compensazione – totale o parziale – delle spese processuali.

E probabilmente non soltanto in materia di lavoro.

Nel linguaggio degli economisti, «utilità marginale è l’incremento dell’utilità totale ricavato dal consumo di un’unità o dose aggiuntiva di un bene o servizio». 

E si definisce «legge dell’utilità marginale» quella per cui «l’utilità marginale ricavata dal consumo di un bene o servizio va decrescendo al crescere delle dosi consumate».

In effetti, anche prima degli economisti, se n’era accorto già Democrito, autore presocratico, quando rilevava che «i piaceri, sia nei cibi, sia nelle bevande, sia nei piaceri amorosi, dopo aver varcato la misura giusta, diventano meno intensi e duraturi».

Ma il problema diventa più serio quando andiamo a trattare dell’utilità marginale del denaro.

L’economista inglese Jevons, nella sua Teoria dell’economia politica (1871-79), rileva che «per una famiglia povera l’utilità di una singola somma di denaro è molto più alta, deve soddisfar bisogni più urgenti: dunque per un povero l’utilità della moneta varia più rapidamente con il variare dell’importo».

L’economista svedese Wicksell, nelle sue Lezioni d’economia politica (1901-11), rileva che «lo stesso bene può aver gradi diversi d’utilità per persone diverse».

L’economista inglese Marshall, il maestro di Keynes, nei suoi Principi d’economia (1890-1920), rileva che «si può chiamare utilità marginale il fatto che il beneficio aggiuntivo di un aumento d’una quantità d’una cosa diminuisce a ogni aumento della sua quantità. E che, quanto più uno è ricco, tanto minore è per lui l’utilità marginale della moneta».

Dunque, tanto per fare un esempio, togliere un dollaro in tasse a chi ha milioni di euro non è come toglierlo a chi ha solo il minimo di sussistenza vitale: ne deriva la giustificazione teoretica in termini economici, e non solo etici, anche del principio della progressività della tassazione.

L’economista inglese Keynes, nella sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), rileva a propria volta che «la legge psicologica fondamentale è che, di norma, gli uomini sono disposti ad accrescere il loro consumo con l’aumentare del reddito, ma non tanto quanto l’aumento del loro reddito».

Con l’aumentare del reddito, infatti, aumenta la propensione al risparmio, essendovi una quantità maggiore di denaro disponibile, e muta anche il livello qualitativo dei beni acquistati.

Un esempio di applicazione di tali principi, come rileva Michael Sandel, professore a Harvard, nel suo Quel che i soldi non posson comprare – I limiti morali del mercato (2012), è quello per cui «le multe finlandesi per eccesso di velocità variano con il reddito: è il giudizio che violare i limiti di velocità è sbagliato. La sanzione per eccesso di velocità di 170.000 euro della Finlandia mostra che la società non vuole solo coprire i costi della condotta pericolosa: vuole anche commisurare la punizione al conto corrente di chi commette l’illecito».

 

6. Valore marginale del denaro e parte economicamente debole

In applicazione di tali principi economici, due parole meritano pertanto anche la liquidazione dell’ammontare delle spese processuali, nei casi di condanna alle spese di un lavoratore, o comunque di un soggetto economicamente debole e svantaggiato.

Per esempio, stride con considerazioni sia economiche, sia di equità fiscale, la liquidazione di spese processuali nella misura di € 4.000 oltre spese generali, Iva e cpa (pari a complessivi € 4.000 x 1,15 + 4% cpa + 22% Iva, il tutto per complessivi € 5.836,48) a carico di un lavoratore, poniamo, con qualifica di operaio metalmeccanico di qualifica bassa. 

Sul piano dell’equità fiscale, si omette di considerare che, attualmente, come pure rileva l’autorevole dottrina sopra citata, per il datore di lavoro imprenditore le spese legali sono un costo dell’attività di impresa, con conseguente detrazione dell’Iva e della sottrazione, in bilancio, dai ricavi, della somma residua sborsata, circostanza che per una società di capitali comporta una decurtazione complessiva del 45,9% (18,03% di scorporo Iva, 24% Ires e 3,9% Irap), e per una società di persone o una impresa individuale una decurtazione di almeno il 44,9% (18,03% di scorporo Iva, 3,9% Irap più la percentuale corrispondente all’aliquota massima Irpef applicabile in base al reddito personale, che non può essere inferiore all’aliquota minima del 23%). 

Ne risulta che € 1.000 di imponibile fiscale a un’impresa finiscono per costare € 541 a una società di capitali ed € 551 a una società di persone.

Per il lavoratore subordinato non vi sono deduzioni di sorta. 

E per il primo sono deducibili quale costo dal reddito d’impresa anche le spese da rifondere in caso di soccombenza.

Per il privato cittadino, invece, e tipicamente per il lavoratore di bassa qualifica, € 1.000 di imponibile fiscale, aggiungendovi il 15% per spese generali, il 4% per cpa e il 22% per Iva, finiscono per costare € 1.459,12.

Da pagare, per giunta, con somme già percepite al netto della relativa tassazione e senza deducibilità di sorta. 

Detto in termini brutali, a una società con milioni di fatturato e di utili d’esercizio le spese processuali spesso fanno solo il solletico.

Sul piano economico, inoltre, equità impone di considerare anche il differente valore marginale del denaro per il privato cittadino che percepisce un reddito modesto, rispetto al privato che percepisce un reddito di € 5.000 netti mensili, o all’imprenditore che ricava anche solo € 100.000 di utile annuo.

Il privato cittadino che percepisce un reddito annuo netto di € 12.000, se si trova a dover pagare € 6.000, si vede privare di sei mesi – mezza annualità – della retribuzione, con cui deve mantenere se stesso e la propria famiglia. 

Il privato che percepisce un buon reddito di € 5.000 netti mensili, si vede privare di poco più di due mensilità.

E l’imprenditore che ricava anche soltanto € 100.000 di utile annuo, al netto delle deducibilità fiscali si vede privare di solo 1/30 di tali utili: l’utile di un paio di settimane di attività.

Non solo. Ma il privato che percepisce un buon reddito, o l’imprenditore in attivo, di regola, come rileva Keynes con il principio sopra citato, hanno anche dei risparmi da parte, e spesso delle attività finanziarie su cui fare conto nel caso di necessità.

Il lavoratore che a stento arriva alla fine del mese, di regola su un conto corrente bancario ha pochi spiccioli, e non ha nessuna risorsa su cui fare conto nel caso di spese impreviste.

E ancora di più, si trova privo di risorse nel caso di condanna al pagamento di una somma che lo priverebbe di ben sette mesi e mezzo della retribuzione. 

Figuriamoci se deve affrontare due o tre gradi di giudizio, o se si ritrova più di una controparte.

Donde la necessaria rilevanza della condizione economica delle parti sia ai fini dell’an dell’attribuzione dell’onere delle spese processuali ai sensi degli artt.91 e 92 cpc, sia anche ai fini della commisurazione del quantum, delle spese processuali.

E ciò, anche in relazione al principio di eguaglianza posto dall’art.3 Cost. e al principio di solidarietà posto dall’art.2 Cost. 

È infatti contrario al principio di eguaglianza trattare allo stesso modo situazioni diseguali.

V’è dunque da auspicare, per il futuro, una riflessione profonda su tali problematiche anche da parte della giurisprudenza.

22/02/2025
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