Nelle pagine di questa rivista si è già accennato alle conseguenze che potrebbero sorgere in caso di omessa menzione nel decreto di citazione diretta a giudizio dell'avviso all'imputato della facoltà di chiedere la messa alla prova e si è escluso che ciò possa generare una nullità di ordine generale per violazione del diritto di difesa[1].
Orbene, su questo specifico argomento è adesso intervenuta la Corte Suprema con la sentenza che si annota.
Il caso è il seguente.
Con apposita ordinanza, il Tribunale di Firenze dichiarava la nullità del decreto di citazione diretta a giudizio emesso nei confronti di due imputati, in quanto privo dell'avviso della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova e, pertanto, disponeva la trasmissione degli atti al pubblico ministero al fine di emettere un nuovo decreto di citazione con al suo interno il su menzionato avvertimento.
Secondo il Tribunale, pur non prevedendo la lett. f) dell'art. 552 c.p.p. il compimento di alcun adempimento informativo[2], dall'omissione dell'avviso era derivata una menomazione del diritto di difesa degli imputati, con il conseguente sorgere di una nullità di carattere generale ai sensi dell'art. 178 c.p.p..
Avverso il provvedimento del Tribunale, il Procuratore della Repubblica proponeva ricorso per cassazione deducendo l'abnormità dell'ordinanza, avendo determinato un'indebita regressione del procedimento.
Con la pronuncia in esame, la Corte Suprema, pur rigettando il ricorso, ha escluso che la mancanza dell'avviso della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova all'interno del decreto di citazione diretta costituisca una lesione del diritto di difesa, integrante una nullità di carattere generale ai sensi dell'art. 178 c.p.p..
Più precisamente, la Corte prende le mosse dalla recente sentenza n. 201/2016 della Consulta, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 460 comma 1 lett e) c.p.p. “nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna debba contenere l'avviso all'imputato che ha facoltà di chiedere la sospensione del procedimento per messa alla prova unitamente all'atto di opposizione”.
Come si ricorderà, la Consulta con la su citata sentenza, considerando che nel procedimento per decreto il termine entro cui chiedere la messa alla prova è anticipato rispetto al giudizio, corrispondendo a quello entro il quale proporre opposizione, aveva affermato che dalla mancata previsione tra i requisiti del decreto penale di condanna di un avviso della facoltà dell'imputato di chiedere la messa alla prova, come previsto invece per i riti speciali, discendesse una compromissione del diritto di difesa, con conseguente violazione dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione.
“L'omissione di questo avvertimento”, scrivevano i giudici delle leggi, “può infatti determinare un pregiudizio irreparabile, come quello verificatosi nel giudizio a quo, in cui l'imputato nel fare opposizione al decreto, non essendo stato avvisato, ha formulato la richiesta in questione solo nel corso dell'udienza dibattimentale, e quindi tardivamente”[3].
Sulla base di questo insegnamento, dunque, con la sentenza qui annotata, la Corte Suprema, per ciò che concerne gli avvisi che devono essere dati all'imputato destinatario di un decreto penale di condanna, ha dedotto che “la sospensione del procedimento con messa alla prova è stata posta sul medesimo piano dei riti alternativi”.
Questa conclusione, però, proseguono i giudici di legittimità, “non appare esportabile nella fattispecie che ci occupa, nella quale l'omissione dell'avviso non può determinare alcun pregiudizio irreparabile per la parte non incorrendo la medesima in alcuna decadenza nella proposizione della richiesta, tranquillamente avanzabile in sede di giudizio nei limiti temporali in esso stabiliti”.
Sicché, nel caso di decreto di citazione diretta a giudizio, con riferimento agli avvisi da dare all'imputato, il procedimento della messa alla prova, pur costituendo un rito speciale a tutti gli effetti, subisce un trattamento diverso rispetto agli altri riti alternativi.
La Corte, da ultimo, chiude il suo ragionamento escludendo che il provvedimento impugnato possa ritenersi abnorme, atteso che semmai presenta i caratteri della nullità, derivante dalla violazione, seppure erroneamente supposta, di una norma processuale.
Conseguentemente il pubblico ministero, al quale il Tribunale, sbagliando, ha restituito gli atti, potrà proseguire nell'esercizio dell'azione penale “rinnovando l'emissione del decreto nella stesura originaria erroneamente sanzionata dall'organo giudicante”.
Ciò premesso, alcune brevi considerazioni si impongono.
La soluzione data dalla Corte di cassazione al problema era per certi aspetti prevedibile.
Infatti la Consulta, con la sentenza sopra ricordata, aveva già precisato che non è necessario alcun avvertimento quando il termine ultimo per avanzare la richiesta di un rito alternativo viene a cadere all'interno di un'udienza, sia essa dibattimentale o preliminare, a partecipazione necessaria, in cui l'imputato è obbligatoriamente assistito dal difensore.
Conseguentemente, poiché il decreto di citazione diretta sfocia in un'udienza a partecipazione necessaria, all'interno della quale viene a spirare il termine ultimo per formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, non può concretizzarsi alcun pregiudizio in capo all'imputato se il decreto di citazione risulti privo della indicazione dell'avviso che, qualora ne ricorrano i presupposti, l'imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, può presentare la richiesta prevista dall'art. 464 bis c.p.p., potendo appunto tale richiesta essere avanzata direttamente in udienza con l'assistenza obbligatoria di un difensore.
Sennonché questo ragionamento non sembra tenere nel dovuto conto le particolari caratteristiche che connotano il rito speciale della messa alla prova rispetto ai restanti riti alternativi dell'abbreviato e del patteggiamento, oppure, rispetto ad una semplice domanda di oblazione.
Il nuovo istituto della messa alla prova costituisce un congegno particolarmente complesso: prova ne sia che la sequenza procedimentale che lo caratterizza è stata fatta oggetto di numerosi protocolli operativi adottati da svariati Tribunali[4].
Di talchè, per un migliore suo funzionamento, sarebbe di sicuro necessario che la persona sottoposta a procedimento venga quanto prima informata adeguatamente sulle sue caratteristiche, modalità operative e finalità, affinché sia posta nelle condizioni di operare una scelta consapevole e meditata e non frutto di improvvisazione, atteso che la messa alla prova comporta la prestazione di condotte assolutamente impegnative[5].
Già questo dovrebbe far dubitare della scelta del legislatore di non incidere sulla lett. f) dell'art. 552 c.p.p., sanzionando con la nullità anche l'omessa indicazione dell'avviso della facoltà di chiedere la messa alla prova, non potendosi fra l'altro escludere che la mancanza dell'avviso potrebbe portare con sé il rischio che l'imputato non si avvalga del nuovo probation, semplicemente, per ignoranza.
A tale riguardo non si può pensare di fare esclusivo affidamento sul difensore e sui suoi obblighi informativi, atteso che non sempre il patrocinatore riesce a entrare in contatto con l'indagato o imputato.
Nello specifico il pensiero non può non correre al difensore di ufficio che spesso si trova ad assistere persone con le quali non vi è mai stato un contatto.
A fronte dell'inerzia del legislatore potrebbe bastare che ogni pubblico ministero inserisse nel decreto di citazione diretta a giudizio l'avviso in questione e, nel contempo, che ogni difensore, fin dal primo contatto con il proprio assistito, avvisasse quest'ultimo della nuova facoltà di chiedere la messa alla prova, sempre che ne ricorrano i presupposti, al preciso scopo di garantire un'informazione la più ampia possibile e, soprattutto, anticipata rispetto al giudizio, in ragione degli importanti benefici che dal nuovo istituto derivano a favore dell'interessato.
Ovviamente, però, la scelta di fare menzione nel decreto di citazione diretta dell'avviso della facoltà di chiedere la messa alla prova è rimessa alla discrezionalità del Pubblico Ministero, non avendogli la legge sul punto imposto alcun obbligo di tipo informativo.
Lo stesso legislatore, con l'art. 141 bis disp. att. c.p.p., pare confermare questo dato, avendo statuito che “il pubblico ministero, anche prima di esercitare l'azione penale, può avvisare l'interessato, ove ne ricorrano i presupposti, che ha la facoltà di chiedere di essere ammesso alla prova, ai sensi dell'art. 168 bis del codice penale, e che l'esito positivo della prova estingue il reato”.
Dunque il pubblico ministero può avvisare l'interessato che ha la facoltà di chiedere la messa alla prova, ma non è obbligato a farlo.
È inutile dire che, anche per prevenire il formarsi in futuro di eventuali contrasti interpretativi in seno alla giurisprudenza, sarebbe meglio per il pubblico ministero inserire comunque l'avviso, fin da subito, magari già nella stessa informativa sul diritto di difesa, atteso che l'operazione costerebbe l'aggiunta di poche righe ai modelli prestampati degli atti[6].
[1] Si veda nella parte conclusiva, F. Piccichè, Messa alla prova e decreto penale di condanna, Questione Giustizia, 5 settembre 2016.
[2] Imposto, invece, a pena di nullità, in forza del comma 2 dell'art. 552 c.p.p., per gli altri riti alternativi e la domanda di oblazione.
[3] Sulla sentenza n. 201 del 6 luglio 2016 (dep. il 21 luglio 2016) si veda anche: G. Zaccaro, La messa alla prova e la non punibilità per speciale tenuità del fatto nella giurisprudenza di legittimità, Questione Giustizia, 6 ottobre 2016. Nell'articolo viene tracciata, in modo chiaro e completo, una panoramica sui principali nodi interpretativi in materia di messa alla prova e tenuità del fatto.
[4] Sul fiorire di protocolli e linee guida in tema di messa alla prova adottati da diversi uffici giudiziari, si veda: V. Bove, Brevi riflessioni su protocolli e linee guida: è a rischio il principio di legalità?, Diritto Penale Contemporaneo, 17 luglio 2015.
[5] Basti pensare, in proposito, come stabilito dall'art. 464 bis comma 4 lett. b) c.p.p., agli “impegni specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all'attività di volontariato di rilievo sociale”.
[6] In generale su questo punto sono assolutamente da condividere le osservazioni contenute in questo articolo: A. De Francesco, Non è necessario l'avviso della facoltà dell'imputato di chiedere la sospensione per la messa alla prova, Diritto e Giustizia, 27 gennaio 2017