Domenico Gallo, Da sudditi a cittadini. Il Percorso della democrazia, Ed. Gruppo Abele, Torino, 2013, pp. 234, € 16,00.
Questo ultimo saggio di Domenico Gallo è un appassionato ed appassionante libro di storia. Impostato sì sul diritto e le regole democratiche e sulla loro difficoltà ad affermarsi in Italia nel lungo arco di tempo che va dal primo risorgimento fino all’avvento sulla scena politica della destra berlusconiana, però anche carico di analisi politiche e sguardi sulle dinamiche sociali.
Fin da subito, fra l’altro, colpisce il suggestivo corredo al testo dei tanti richiami di letteratura, canzoni, film che danno respiro molto ampio e solida concretezza alla narrazione, che procede per punti e per salti (sette parti, precedute dalla prefazione di Matteo Claudio Zarrella) ma è sempre lucida e supportata dalle “cifre” che distinguono stile di scrittura e di vita dell’autore: la passione per la libertà e la democrazia, per la giustizia ed i diritti.
L’apertura del saggio, la parte I, è dedicata alla formazione dello Stato italiano come sorto dal Regno di Sardegna e dal suo Statuto albertino in avanti. Qui il lettore non specialista sarà sorpreso dall’affermazione dell’autore essere radice fondante dell’oggi la Costituzione della Repubblica Romana, l’effimera esperienza democratica, nata dal pensiero di Mazzini e vissuta pochi mesi del 1848, nella quale Gallo rintraccia la fonte ispirativa di tanti principi e valori che torneranno quando, dopo la catastrofe del nazifascismo e della seconda guerra mondiale, i partiti e gli uomini della Resistenza scriveranno la Costituzione della Repubblica Italiana in vigore dal 1° gennaio 1948.
Già il titolo dell’opera, “da sudditi a cittadini”, è emblematico e dà il senso del percorso ricostruttivo e delle opzioni valoriali delineate e poste al centro della riflessione storica e giuridica. In tutto il volume si rincorrono le “parole” che sono al fondo del pensiero dell’autore: legalità, dignità umana, eguaglianza, pace; quindi separazione dei poteri e universalità dei diritti, “metro” di valutazione dei valori supremi incentrato sulla persona (p. 130).
La scansione storica che si sviluppa è sempre accompagnata sin dai titoli delle sei successive parti da valutazioni stringenti, da scelte di campo precise attraverso lenti attente ed analitiche del passato e talvolta della realtà più recente.
Merito importante di questo libro è che tutto ciò è squadernato in una prosa lineare, nitida, accattivante, a volta emozionante (quando riporta passi di Calamandrei o di Don Milani, di Dossetti o di Primo Levi), che non lo eleva a saggio accademico, ma restituisce al lettore percorsi chiari, passione civile, utili e necessarie riflessioni sullo ieri e sul presente.
Gallo, insomma, scrive una bella “storia” italiana, quella che ci ha condotto lungo accidentati percorsi alla Costituzione del 1947, scrive appunto di come il primo seme libertario e democratico della esperienza della Repubblica romana sia il fondamento dell’oggi. In fondo – dice Gallo, condiviso da tanti – la Costituzione del 1947 torna a quelle radici, viene da lontano, dalle sconfitte e dalle vittorie degli ultimi 160 anni, proprio perché non è un punto d’arrivo, un dato statico, è soprattutto un progetto di società, un continuo divenire, la ininterrotta ricerca di equilibrio tra principi e valori di una società plurale e partecipata, in cui il seme della democrazia è la fonte, l’eguaglianza è la parola d’ordine, la persona umana e la sua condizione di cittadino/a consapevole è il riferimento sostanziale.
Su questi snodi primari si sviluppa quindi il percorso del saggio.
Riprendendo Hanna Arendt e Stefano Rodotà, verrebbe da dire la storia raccontata è la storia del “Diritto ad avere Diritti”, la storia della “marcia dei diritti” (come scrive Zarrella nella prefazione), che s’arresta o arretra, appunto, ma riparte e si fa fondazione del nuovo stato, del nuovo progetto di società, giusta e solidale.
Ed è su una base teorica di questo tipo che convincentemente Gallo ricostruisce, ragionando sull’esperienza “legale” dell’avvento nazista e delle leggi razziali di Mussolini, il concetto risaputo ma di difficile declinazione di “legalità costituzionale”.
Concetto ritenuto capace di superare l’antica contrapposizione fra legalità e giustizia che dalla democrazia greca e per i secoli a venire affatica filosofi, scienziati della politica, giuristi: lo spiega con parole chiare affermando (p. 115) che “nel nostro ordinamento è attraverso la Costituzione che la legalità cambia pelle”. Essa “è il canale attraverso il quale la giustizia è penetrata nell’ordinamento giuridico ed è stata realizzata quella saldatura fra giustizia e diritto che ha cambiato il volto della legalità”. Mi sembra corretto rimarcare: Giustizia costruita dagli uomini, si badi, e non da un indeterminato diritto “naturale”.
Una nuova legalità, dunque, patrimonio dell’umanità quando “all’alba di un nuovo mondo” (così Gallo chiama la svolta del 1945 dopo l’orrore della guerra e dell’olocausto) viene descritta quella che a me sembra corretto chiamare la “irruzione del diritto e dei diritti” che l’occidente prova a immaginare nell’orizzonte politico mondiale, certo quello dei vincitori. A partire dalla Carta atlantica del 1941 e dalla Carta dell’Onu e la sua Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, alla Convenzione europea sui diritti umani. Un percorso che, mi piace sottolineare, continua anche oggi nel nostro continente con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la quale – a differenza delle tante precedenti – ha finalmente ricevuto il valore cogente, pari a quello attribuito in ambito eurounitario ai Trattati.
Il racconto presto abbandona questo versante internazionale per concentrarsi nuovamente sulla “storia” italiana; forse avrebbero meritato qualche considerazione la persistente utopicità e la deludente incapacità di concretezza che molte di queste Carte o Bills of Rights – pur forti di un impianto assiologico ancora robusto ed attuale (basti pensare a tutto il mondo che non è occidente evoluto) del tumultuoso secondo dopoguerra e dei decenni a seguire - non sono riuscite a superare.
Però è proprio su questo costrutto valoriale che viene individuata la radice profonda della Costituzione Italiana e del suo “plasmare cittadini” e giustamente afferma l’autore come il Patto del 1947 non sia frutto di un compromesso precario fra culture politiche ma abbia espresso esigenze universali e intramontabili con radici profonde che incidono sulla identità di un popolo. Insomma – conclude Gallo – la Costituzione italiana è difficile da demolire “perché non è scritta sulla sabbia” (p. 124).
Nella prefazione ad un altro recente volume sul tema, curato da M. Imperato e M. Turazza (Dialoghi sulla Costituzione, Effepi Libri, Monte Porzio Catone, 2013) Valerio Onida dichiara un’analoga e stringente definizione della nostra Carta fondamentale: “La Costituzione … non è ’neutrale’: è l’espressione del ‘nucleo forte’ di ideali e di valori intorno a cui si costruisce ogni giorno la convivenza civile, lo spazio in cui opera la politica, il tessuto con cui si confronta ogni giorno la produzione legislativa. Ci ricorda le nostre conquiste storiche, i traguardi raggiunti … gli obiettivi da perseguire, le lacune da riempire, i traguardi verso cui tendere”.
Da queste convergenti affermazioni non può che conseguire il pensiero di quanto poco o nulla di questa consapevolezza resti nei reiterati tentativi di “apprendisti stregoni” di vario colore che dalla metà degli anni novanta del novecento si sono “applicati” a riscrivere parti importanti della Carta, finora senza troppo successo, occorre dire, ma comunque erodendo la sua legittimazione.
Descrittive e per punti salienti sono le parti V e VI dedicate alla esposizione dei principi costituzionali (centralità della persona, eguaglianza, laicità, il principio lavorista e quello pluralista, e così via) ed alla “vita” della Costituzione, ossia alla lenta attuazione nelle leggi ordinarie (che sappiamo parziale e mai conchiusa) dei principi e valori di essa, fermandosi l’attenzione dell’autore sui temi del lavoro; della famiglia e dei minori; della salute; su quello, che gli è particolarmente caro, della pace e della conseguente obiezione di coscienza rispetto alla leva militare, connessa al principio di autodeterminazione personale. Tema quest’ultimo quanto mai attuale in molteplici campi, che Gallo non espone e giustamente perché tuttora magmatici: le questioni della fine-vita e del testamento biologico; dell’orientamento sessuale e del matrimonio omosessuale; della realtà digitale e della sua regolazione. Temi che tutti rimandano, appunto, alla questione cruciale, al nocciolo duro del principio personalistico della dignità umana, insito nella costruzione costituzionale, e che pur attendono soluzioni chiare e definite.
Ragionando della “vita” della Costituzione, là dove viene tratteggiata la fase di quello che chiama il “disgelo costituzionale” dopo gli anni di inattuazione ed interpretazione restrittiva della forza innovativa dei diritti sanciti nella Carta, Gallo rende conto dell’essenziale contributo a questa nuova fase di realizzazione di tanti principi del potere giudiziario, della magistratura nel suo complesso. In precedenza aveva fortemente criticato l’atteggiamento di questa durante il ventennio fascista e nel primo decennio postbellico, allorché fu ad essa affidato il compito di diffidare della nuova Costituzione e tenerla sotto “tutela”. Qui, in positivo, ci ricorda l’importanza della istituzione nel 1958 del Consiglio superiore della magistratura, organo di autogoverno indispensabile per realizzare la declamata indipendenza dell’ordine giudiziario e la svolta dell’associazionismo dei giudici che a Gardone, nel famoso congresso del 1965, approvò la “rivoluzionaria” (l’aggettivo, adeguato, è dell’autore) mozione di apertura integrale ai valori della Costituzione nella interpretazione e nell’applicazione delle leggi, affermandosi il dovere del giudice di imparzialità e indipendenza, secondo tre principi che ancora oggi rappresentano i pilastri dell’agire quotidiano di un ceto professionale che continua ad interrogarsi in maniera critica sul senso della sua autonomia ed indipendenza: applicazione diretta, quando possibile, delle norme della Costituzione; diffuso controllo di costituzionalità delle leggi; interpretazione costituzionalmente orientata di tutte le leggi in conformità ai principi della Carta “che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale”.
Si chiude con queste ultime analisi quello che può chiamarsi il percorso acquisitivo nelle coscienze e nella realtà della ispirazione costituzionale.
L’ultima parte del saggio parla invece delle “patologie” della Repubblica e dei conseguenti tradimenti costituzionali. Un elenco drammatico ed inquietante delle gravi anomalie democratiche succedutesi nei decenni trascorsi.
Se c’è una mancanza nel libro di Gallo, peraltro, è quella di arrestare l’analisi lucida e severa dei tanti “frutti avvelenati” (si parla della stagione dei servizi deviati e delle stragi, dei tentati golpe di destra, degli anni di piombo, dello strapotere delle mafie) ai primi anni novanta del secolo scorso. Disseminati vi sono, nelle 220 e passa pagine del testo, richiami al ventennio berlusconiano ed ai suoi guasti; ci sono – com’è ovvio – en passant prese di distanza e critiche, ma non si analizza e non si tocca il nucleo duro di questa patologia, che può essere nominata a buona ragione della democrazia autoritaria ed a-costituzionale, che ha dimenticato e mira a cancellare l’humus politico e culturale della Carta del 1947, i valori scritti ma da tempo poco praticati e, alcuni, anche molto vilipesi.
Forse è giusto così. Questi nostri ultimi 15-20 anni, i primi “vagiti” del terzo millennio, per l’Italia sono ancora cronaca, è troppo presto e difficile darne una valutazione storica.
Auguriamoci il sequel di questo racconto, quello in cui l’autore narri con la stessa verve e legga con le lenti della storia e della quotidianità il tentativo della destra populista di ribaltare il progetto di società pensato e scritto uasi settanta anni fasu esigenze universali ed intramontabili, e, perché no?, la resistenza di associazioni e ceti intellettuali, di forze sociali e cittadini e cittadine, ai tentativi di ridurli nuovamente a “sudditi”. Uno scenario ancora aperto.
Proprio per questo, in conclusione di questa recensione, vale allora la pena di ricordare la dedica del libro che l’autore fa “in ricordo di Ottorino Pesce, Marco Ramat e Pierluigi Zanchetta, tre magistrati, diversissimi fra di loro, che hanno testimoniato con la loro vita quanto si possa amare la Costituzione e farla vivere nelle istituzioni“.
Testimoni essi di un’epoca che sembra irrimediabilmente passata e di cui tuttavia – come il volume di Mimmo Gallo ci sollecita a considerare – siamo ognuno di noi chiamati, come giuristi, magistrati, cittadini non banalmente a rinverdire fasti, ma a raccogliere il messaggio ed a perseguire la strada della legalità costituzionale, quella ancora viva e vitale, giovane ed utopica che ci consegna la nostra Costituzione novecentesca, che ha ancora tante cose da “dire” e “fare” anche nel XXI secolo.