1. Storia di un decreto annunciato.
Ormai è un leitmotiv estivo: la proroga del pensionamento dei magistrati. O, forse sarebbe più corretto dire, di alcuni magistrati. Accade per decreto legge, immancabilmente da tre anni a questa parte. Con una scia infinita di polemiche e di contestazioni. Accade dall’anno 2014. Ossia da quando, per volontà del Governo, si è coltivato un disegno di ampio rinnovamento della dirigenza degli uffici giudiziari, da affidare al neo-eletto Consiglio superiore della magistratura.
È bastato un tratto di penna per portare da 75 a 70 anni l’età di pensionamento dei magistrati. Con l’effetto di offrire imprevedibili e, probabilmente salutari, chances di carriera ai quarantenni. Ma anche con l’effetto di estromettere, o comunque escludere, dai vertici di uffici requirenti e giudicanti una importante generazione di magistrati. Ossia ai principali protagonisti di quella feconda stagione che, dall’inizio degli anni settanta a buona parte degli anni novanta, ha mutato radicalmente il ruolo della magistratura nelle istituzioni e nella società. Tutto ciò è avvenuto senza badare troppo ai riflessi sull’efficienza del sistema-giustizia. Salvo poi, ogni anno, “confessare” l’originaria improvvisazione con discutibili interventi riparatori per decreto; ossia con proroghe su proroghe i cui destinatari ogni anno si riducono ad un numero sempre più esiguo.
Ma il decreto legge del 2016 è peculiare. Sarebbe riduttivo affermare che esprime la politica del Governo sulla gestione delle risorse umane nella magistratura. In realtà offre spunti di riflessione sotto diversi aspetti.
Di metodo e impostazione culturale: dal modo di interpretare in concreto i rapporti tra politica e magistratura alla distinzione tra magistratura di merito e magistratura di legittimità.
Di contenuto: dalle soluzioni prioritarie per i problemi strutturali della giustizia all’impatto della decretazione d’urgenza sull’organizzazione degli uffici e del lavoro giudiziario.
Andiamo per ordine, muovendo dalla proroga del trattenimento in servizio dei magistrati che svolgono funzioni direttive ed apicali presso la Corte di cassazione, attuata con l’art.5 del decreto legge n.168 del 2016.
2. La confessione della “improvvisazione”
Ricordiamoci il 2014. Senza alcuna interlocuzione preliminare, il Governo decreta il radicale accorciamento della età massima di permanenza in servizio dei magistrati (v. d.l. 24 giugno 2014 n.90 convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014 n.114). L’impatto sugli organici è forte. Riguarda centinaia di magistrati, molti dei quali con funzioni di direzione degli uffici. Il Csm mette in guardia la politica. Con delibera dell’11 giugno 2014 (LEGGI), rappresenta l’assoluta necessità di una attuazione graduale. Invita il Ministro della giustizia a rappresentare, in tutte le sedi istituzionali, certe conseguenze. Per rendere ragionevole la scelta legislativa suggerisce la previsione di una disciplina transitoria. Nello stesso tempo, auspica l’immediata elaborazione di un progetto di intenso e progressivo reclutamento di giovani magistrati, per ovviare alle scoperture di organico.
Il legislatore decide di percorrere un’altra strada, fin dal 2014. Rinuncia ad un responsabile programma di adattamento delle novità alla realtà del nostro sistema giudiziario. E, soltanto in prossimità del termine di collocamento a riposo di centinaia di magistrati, avvia la “stagione delle proroghe”. Nel 2015 e nel 2016 la coltiverà attraverso l’utilizzo singolarmente ampio dello strumento della decretazione (tra queste anche l’art. 18 del decreto legge 27 giugno 2015 n.83 convertito dalla legge 6 agosto 2015 n.132). Uno strumento che la Costituzione vorrebbe subordinato all’esistenza di condizioni di straordinaria necessità e urgenza e che desta ulteriori perplessità nella materia dell’ordinamento giudiziario il cui carattere forte della riserva di legge è sancito dall’art. 108 della Costituzione.
Il decreto legge n. 168 del 2016 acuisce alcune negatività già rilevabili nei due precedenti interventi estivi.
Primo. La proroga solo per i vertici della Cassazione riguarda comunque un numero esiguo di magistrati.
Secondo. A oltre due anni dalla riforma sulla età pensionabile gran parte dei magistrati, in astratto interessati dalla proroga, hanno rinunciato ad ogni seria aspettativa professionale. In autonomia hanno scelto di uscire dall’ordine giudiziario.
Terzo. Sul piano funzionale e psicologico, poi, la consuetudine della proroga di pregresse proroghe, improvvisata e rapsodica, a pochi mesi dal termine di collocamento a riposo, ha sostanzialmente reso impossibile una organizzazione degli uffici e del lavoro dei singoli magistrati che andasse oltre il brevissimo periodo. E per i magistrati investiti della responsabilità della direzione, e cioè la grande maggioranza degli interessati, l’incertezza in ordine alla durata del proprio impegno ha inevitabilmente costituito un fattore di demotivazione ed un formidabile disincentivo alla programmazione organizzativa di medio periodo.
3. Riflessi sull’efficienza del sistema
Il legislatore, così operando, ha vanificato le procedure amministrative che il Consiglio superiore ha con tempestività intrapreso per garantire la rapida copertura degli incarichi di prossima vacanza, con la dissipazione delle ingenti risorse del circuito del governo autonomo mobilitate ed investite.
Con il decreto legge n. 168, l’ipotetico beneficio, derivante dalla “modesta” riduzione del numero degli uffici da coprire subito, è largamente sopravanzato da una serie di profili critici. Tra questi: la dissipazione delle risorse procedimentali già investite nel ricambio; l’impossibilità di programmare un percorso amministrativo di organizzazione degli uffici stabile di medio periodo; l’inevitabile rallentamento dei tempi di definizione delle procedure che inciderà in maniera significativa sulla durata delle vacanze degli uffici acefali per lungo tempo non in grado di programmare un percorso amministrativo di organizzazione degli uffici; la crescita del contenzioso, prevedibile non solo per la obiettiva opinabilità di certe norme (come del resto avvenuto con le precedenti proroghe), ma anche e soprattutto per l’allungamento dei termini di legittimazione per proporre la domanda di tramutamento da tre a quattro anni, senza peraltro alcuna norma interpretativa o transitoria con riferimento alle procedure in corso. Si tratta di una disposizione che accresce in maniera esponenziale l’incertezza e l’insicurezza per tutti coloro che sovente, proprio facendo affidamento su termini di legittimazione più brevi, avevano fondato scelte professionali e di vita.
In altri termini, si inaugura con questo ulteriore provvedimento emergenziale un lungo periodo di incertezza e di instabilità per i magistrati e per gli uffici, senza alcun vantaggio significativo per il sistema. Circostanza questa che, sommata alle carenze di organico e di risorse materiali, non potrà che aggravare ulteriormente il disagio per i cittadini, oltre che determinare un sostanziale indebolimento delle capacità del sistema di fornire risposte adeguate alle istanze del Paese in un momento di grave crisi economica.
4. I problemi della Cassazione
È utile il decreto n.168 per realizzare l’obiettivo evocato nella sua epigrafe, ossia di “definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione”? A leggere il comunicato stampa della sezione dell’Anm presso la Suprema corte (LEGGI) sembrerebbe di no. E quei contenuti paiono ampiamente condivisibili.
Solo gli apicali sono concretamente interessati alla proroga. Un numero esiguo (appena 14 tra giudicanti e requirenti). Si escludono, invece, i consiglieri senza incarichi di direzione, che sono la risorsa primaria per affrontare concretamente l’arretrato. La ratio sarebbe quella di assicurare la continuità nella direzione degli uffici della Cassazione in ragione delle iniziative di riforma intraprese per la definizione dell’elevato contenzioso ivi pendente. Ma tale disposizione di natura eccezionale e di portata assai circoscritta appare irragionevole e inutile per le esigenze degli utenti del servizio giustizia. E ciò anche in considerazione della assenza di norme in grado fornire alla Suprema corte misure strutturali e sui riti, che pure erano state annunciate.
Al di là di della felice disposizione che consente l’impiego dei magistrati del Massimario per la definizione del carico di lavoro della Corte di cassazione, il decreto legge nel suo complesso appare del tutto inadeguato. Come ricordato nel citato documento della sezione dell’Anm della Cassazione, il legislatore avrebbe dovuto accompagnare la “proroga generalizzata” con ben altri interventi su entrambi i versanti, civile e penale. In particolare, occorreva incidere sui meccanismi di accesso al giudizio di cassazione, in modo da contenere le sopravvenienze entro limiti compatibili con l’esercizio della funzione di nomofilachia. Temi su cui da anni si dibatte e in relazione ai quali giacciono in Parlamento progetti di legge largamente condivisi che, tuttavia, non riescono a tradursi in atti normativi, nonostante siano ritenuti da più parti necessari ed urgenti. Si aggiunga che il decreto non registra alcuna disposizione volta al corrispondente potenziamento della funzionalità della Procura generale presso la Corte di cassazione, ufficio che oggi appare chiaramente sottodimensionato.
5. Le “due” magistrature
L’irrilevanza pratica della tipologia “proroga 2016” rende più evidente il profilo ideologico sotteso. Viene messo in discussione l’art. 107 della Costituzione, che distingue i magistrati soltanto per funzioni. Il decreto-legge di fine agosto, infatti, seleziona gli uffici giudiziari cui rivolgere attenzioni maggiori, ed all’interno di essi le funzioni cui offrire un trattamento differenziato. Sul presupposto che si tratti, evidentemente, di uffici e funzioni di maggiore importanza nel sistema.
Riappare nella sostanza una concezione gerarchica formale e sostanziale della magistratura. Ossia quella che una lunga stagione di riforme nella seconda metà del secolo scorso aveva consentito di superare. Peraltro, il modello di organizzazione orizzontale era stato strenuamente difeso dalla magistratura associata in occasione della riforma dell’ordinamento giudiziario introdotta con la legge 20 luglio 2007 n.111, con esso respingendosi l’idea che la Cassazione costituisse il vertice della magistratura ordinaria contenuta nella originaria stesura del “progetto Castelli”. In quel frangente si ribadì, piuttosto, che, nell’ordinamento costituzionale, la Suprema corte rappresenta soltanto il vertice del sistema delle impugnazioni.
In altri termini, il nostro sistema repubblicano si connota per il carattere diffuso e non gerarchizzato (diverso in parte è il caso dei pubblici ministeri) del potere giudiziario, per la ripartizione dei compiti tra diversi organi e diverse istanze, per l’obbligo di motivazione, e per la continuità della funzione, che costruisce da sé (attraverso i precedenti) vincoli all’azione futura delle stesso potere.
Ma nel decreto legge n. 168 l’impressione di un ritorno alla determinazione di livelli differenziati di importanza e di attenzione tra magistrati e uffici giudiziari pare confermata da ulteriori disposizioni. Invero l’aumento del termine di permanenza minima dei magistrati negli uffici (art.3) voluto con il decreto scarica molte inefficienze del sistema sui singoli che abbiano la ventura di operare nelle sedi disagiate, con gravi costi personali. In linea di massima si tratta dei magistrati più giovani, destinati in maniera forzosa ai posti per i quali quelli già in servizio non abbiano manifestato interesse. Senza alcuna seria rivisitazione della disciplina del reclutamento e senza individuare alcuna forma di incentivazione per coprire tali sedi.
Nella medesima direzione si muove la norma che riduce il tirocinio professionale dei magistrati di nuova nomina (art. 2, comma 3). In questo caso, l’interesse ad un percorso di preparazione serio, approfondito ed adeguato alla delicatezza dei compiti da intraprendere, è sacrificato alla necessità di dare una risposta rapida e quantitativa alle difficoltà di sistema.
Appare poi davvero incomprensibile, se non nell’ottica di favor verso i vertici degli uffici di legittimità, la norma (art. 5, comma 2) che consente il conferimento delle relative funzioni direttive a magistrati che, al momento della data della vacanza del posto messo a concorso, assicurano un più breve (tre anni, anziché quattro) periodo di servizio minimo, prima del collocamento a riposo rispetto a quanto previsto per le altre funzioni direttive.
6. Realtà e percezioni diffuse.
In conclusione, il decreto legge n.168 non solo appare sostanzialmente poco utile, perché gravemente lacunoso sul piano della funzionalità complessiva, ma soprattutto culturalmente discutibile.
Alcuni autorevoli commentatori, sui principali quotidiani nazionali, hanno persino evidenziato un problema di “tenuta” della immagine della magistratura nel suo complesso. Al di là dell’enfasi e delle drammatizzazioni giornalistiche, una riflessione si impone. Il ricorso ripetuto a decreti legge per prolungare o ridurre l'età pensionabile, oltre a rinunciare ad uno stabile e prevedibile programma di avvicendamento, dà vita obiettivamente a una anomala connessione tra decisioni del potere esecutivo e destino professionale dei singoli. Vi è da chiedersi se tale modus operandi di fatto non possa essere avvertito come un'impropria sovrapposizione con le prerogative affidate in via esclusiva al Consiglio superiore della magistratura.
Ed allora, l’auspicio è che questo tema sia al centro della riflessione delle Camere chiamate, in sede di conversione del decreto, a valutazioni non facili. Non si tratta solo di evitare discutibili disparità di trattamento o di “correggere” la rotta di scelte sul pensionamento dei magistrati risalenti all’estate del 2014 (c’è chi propone una norma per riportare il pensionamento a 72 anni per tutti), ma anche di assicurare un sano rapporto di separatezza tra le prerogative della politica e l’idea costituzionale del governo autonomo della magistratura.
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