La recente Sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (nel caso “CESTARO c. ITALIE”, n. 6884/11, 7 aprile 2015) ha condannato l’Italia per quanto compiuto dalle forze dell'ordine italiane nell' irruzione alla caserma Diaz il 21 luglio 2001, affermando esplicitamente che il fatto "deve essere qualificato come tortura", in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta tortura e trattamento inumano o degradante. La Corte ha condannato l'Italia non solo per le gravi lesioni subìte da uno dei manifestanti (l'autore del ricorso) durante il “G8” di Genova, ma anche perché l’ordinamento italiano non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura; un vuoto legislativo che, secondo la Corte, ha consentito ai colpevoli di restare impuniti. Chiare le parole: "questo risultato non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri". Particolarmente dure, poi, le censure alle forze dell’ordine, per la loro mancata collaborazione nell’identificazione degli autori materiali dei gravi fatti commessi, si da indurre la Corte ad esprimere il biasimo ufficiale nei loro confronti.
La Sentenza della CEDU ha riaperto ferite mai del tutto rimarginate, riportando la memoria collettiva alla vergogna di quei giorni; e ha riacceso un vivace dibattito che interessa sia le “responsabilità” per quanto accaduto in quei giorni (politiche, amministrative, e penali in senso stretto), sia l’incredibile, ennesima dimostrazione di incapacità della politica del nostro Paese, in questo caso del Parlamento, di intervenire a colmare un evidente vuoto di tutela, introducendo norme che sarebbero peraltro doverosamente coerenti con i princìpi e valori di quell’Europa cui, evidentemente, ci si ispira ad intermittenza.
Nel dibattito, hanno destato sorpresa le parole con cui Alfonso Sabella (Magistrato; già capo dell’Ufficio Ispettorato del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, cui, in vista dell’evento, fu attribuito, il ruolo di “coordinatore dell’organizzazione, dell’operatività e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria in occasione del G8 a Genova; attualmente Assessore al Comune di Roma) racconta (a “La Repubblica”, edizione 10 aprile 2015), dopo 14 anni, altri pezzi di una “verità” che avrebbe meritato ben altri tempi e luoghi di narrazione; e, sia detto con forza, altre parole.
Quelle pronunciate, alludono a regie occulte, a manovre oscure che avrebbero guidato gli eventi prima (“Fino a venerdì pomeriggio, alla morte di Carlo Giuliani, non era stato fatto nemmeno un arresto: il primo, il fotografo Alfonso De Munno, arrivò a Bolzaneto pochi minuti prima dell'omicidio. Mi sono fatto l'idea che dietro ci fosse una regia politica". È un'accusa grave, assessore. Regia di chi? "Di preciso non lo so. È possibile che qualcuno a Genova volesse il morto, ma doveva essere un poliziotto, non un manifestante, per criminalizzare la piazza e metterla a tacere una volta per sempre"); le indagini poi (“la verità è che mi volevano incastrare. Per due motivi: aver rivelato il piano aberrante degli arresti preventivi; per il fatto che fossi un magistrato e dunque perfettamente funzionale alla logica craxiana del "tutti colpevoli, nessun colpevole". Lei però era responsabile del carcere di Bolzaneto. "Si ma non ero lì quando i pestaggi si verificarono, ma a Forte San Giuliano, dove non è successo niente. Lo dimostrano i tabulati dei 4 telefoni cellulari che usavo quel giorno. Chiesi ai magistrati di Genova di controllare i miei spostamenti, perché ogni sospetto fosse dissipato. Ma quando dopo 9 mesi furono finalmente acquisiti, il traffico relativo alla 'cella' territoriale che io occupavo durante le violenze era sparito - cancellato su quattro cellulari! - e dunque era impossibile affermare dove mi trovassi". Chi è stato? "Posso pensare ai servizi. Perciò mi sono messo da solo a ricostruire tutti i miei movimenti attraverso i tabulati delle chiamate in entrata, cioè delle telefonate ricevute. E dimostrai che quando ero a Bolzaneto, non c'era stata alcuna violenza); e, cosa, più grave, lo stesso processo - nel quale Sabella è stato indagato - all’esito del quale “nonostante questo (le presunte prove che avrebbero escluso la presenza dello stesso Sabella alla caserma Bolzaneto al momento delle violenze, ndr) il giudice se n'è infischiato e ha emesso un provvedimento di archiviazione che mi ha devastato la vita e la carriera". “ Il gip Vignale ha poi fatto il resto", "Con un'ordinanza infamante ha archiviato la mia posizione, nonostante io sia l'unico del G8 che non solo ha rinunciato alla prescrizione ma si è anche opposto alla richiesta di archiviazione. Ecco perché adesso spero che qualcuno mi denunci: fra gli indagati di allora io sono il solo ancora processabile. Così potrò finalmente cancellare questa macchia che ha devastato la mia vita e bloccato la mia carriera di magistrato".
Un’ “ordinanza infamante”, dunque, secondo l’allora indagato; l’espressione non necessita di particolari analisi semantiche, perché è chiara. Per poterne misurare la continenza, e, cosa che ancor più urge, la rispondenza al vero, riteniamo utile pubblicare integralmente l’ordinanza del G.i.p. presso il Tribunale di Genova, che esamina la posizione di Sabella (sottoposto ad indagini per i reati di cui agli artt.608 c.p. e 323 c.p. commessi in Genova tra il 20 e il 22 luglio 2001), disponendone l’archiviazione dopo una prima ordinanza integrativa delle indagini.
E’ una lettura istruttiva; documenta la lunga e laboriosa attività tesa all’individuazione di coloro ai quali fossero attribuibili responsabilità per fatti che cosi i Pubblici Ministeri descrivono: “nel trattamento inflitto ai detenuti dalle Forze dell’ordine in Bolzaneto vi è stato molto di più di una, comunque assai grave, compressione del residuo spazio di libertà dei detenuti; vi è stata una volontà molto più intensa, diretta a vessare le persone ristrette nel sito, a lederle nei loro diritti fondamentali”. Infatti “la gravità, l’intensità e la sistematicità delle violazioni commesse, tutte in danno di parti offese appartenenti alla stessa area “no global” e quindi con solidarietà di idee; l’univocità delle azioni illegali, dirette tutte al disprezzo, all’umiliazione ed alla vessazione di queste persone proprio per la loro appartenenza ideologica e per le loro caratteristiche particolari di abbigliamento e di capigliatura; la reiterazione delle condotte per tutto il tempo di permanenza nella struttura senza apprezzabili interruzioni;i continui riferimenti negli insulti e nelle minacce alla contrapposizione tra il movimento “no global” e le forze dell’ordine (…); i continui riferimenti in chiave minacciosa ad una prossima futura fine del movimento, in una con i chiari riferimenti politici e i continui richiami con parole e gesti al nazismo e al fascismo e alla loro politica antisemita, sono tutti elementi fortemente indicativi dell’esistenza di una volontà intenzionale, diretta a porre in essere o comunque tollerare e consentire queste vessazioni”.
Fatti costati addebiti di responsabilità per numerosi reati - dall’abuso d’autorità contro arrestati o detenuti, all’abuso d’ufficio, alla violenza privata, fino alle lesioni personali volontarie, alle percosse, alle ingiurie e alle minacce - ascritti, a diverso titolo, a personale appartenente alla Polizia di Stato, alla Polizia Penitenziaria e all’Arma dei Carabinieri che prestò servizio presso il sito penitenziario provvisorio istituito presso la Caserma “Bolzaneto”, sito che rientrava nell’ambito del “ruolo operativo” descritto nella locuzione “coordinatore dell’organizzazione, dell’operatività e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria” affidato al dott. Sabella con apposito ordine di servizio. Sicchè l’oggetto della verifica giudiziale era la relazione tra la posizione di Sabella, titolare di tali poteri (doveri?), e i “fatti” con certezza posti in essere, con inaudita brutalità, da appartenenti alle forze dell’ordine.
Nel rinviare alla lettura del provvedimento, preme qui sottolineare che esso smentisce le affermazioni recenti dell’interessato: non è vero che le analisi sulle utenze cellulari, attraverso i tabulati, fosse stata resa impossibile dalla “sparizione dei dati”, e con essa, cancellata la possibilità di provare l’assenza dell’indagato dalla caserma di Bolzaneto, posto che da tale analisi, anzi, il Giudice trae elementi di prova in parte favorevoli all’indagato, dando atto dell’equivocità dei dati e della loro possibile idoneità ad indicare la presenza in luoghi diversi da quello teatro delle violenze; è vero, invece, che la presenza di Sabella fu indicata dalle dichiarazioni di personale interrogato sul punto (dalle quali sarebbe risultata da parte di Sabella una “frequenza non costante ma comunque reiterata nel tempo”, come scrive il G.i.p.), e peraltro ammessa dallo stesso indagato, nei giorni cruciali (tra il 20 e 21 luglio 2001), “non molte volte, e comunque sempre per brevi periodi di tempo”; e che su tale elemento cruciale il Giudice costruisce un ragionamento rigoroso, coniugando le emergenze dell’indagine sui fatti con una verifica puntuale delle attribuzioni funzionali, sul come furono effettivamente esercitate e sul come, ragionevolmente, avrebbero dovuto esserlo.
Sicchè all’esito della lettura dell’atto ognuno potrà rispondere all’interrogativo che l’intervista di Sabella pone: è infamante l’atto del Giudice, o lo è quel pezzo di storia che si consuma, tra le mura di una caserma, a Genova, nei giorni del G8, e nei mesi e negli anni a seguire, nelle reticenze e nelle bugie, e nelle difese impossibili di una delle pagine più vergognose della Repubblica?