I primi di gennaio di 53 anni fa, negli studi cinematografici di Twickenham, Londra, John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr erano impegnati, con differenti gradi di intensità e motivazione, nelle prove di uno spettacolo, e non di uno spettacolo qualsiasi. Si lavorava alla presentazione in diretta televisiva del loro nuovo LP, i cui 14 brani inediti avrebbero dovuto essere registrati dal vivo proprio in quell’occasione, e davanti ad un pubblico, a quasi tre anni dall’ultima apparizione live. A consacrare in un lungometraggio l’alfa e l’omega dell’intera operazione, sotto l’occhio vigile dello storico produttore George Martin, il giovane regista americano Michael Lindsey-Hogg, già collaboratore dei Beatles per i filmati promozionali di Paperback writer, Hey Jude e Revolution.
Insomma, si preparava lo show definitivo, il concerto dell’addio, o magari dell’arrivederci, un trionfo annunciato. Che tuttavia non ebbe mai luogo. Quantomeno, non così come era stato progettato dai produttori e dal regista.
Dall’agosto del 1966, dal concerto di Candlestick Park a San Francisco, molto era cambiato. Smessa la montura imposta dall’ormai defunto Brian Epstein, lasciati i capelli crescere e maturare le personalità, scoperte le meraviglie che può regalare la sperimentazione in studio, i ragazzi di Liverpool avviano un circuito esplorativo collettivo e individuale completamente nuovo. E paradossalmente disgregante. Il sodalizio compositivo (e competitivo) Lennon-McCartney, sebbene a trazione alternata, traghetta i quattro dal rischio “boy band” ante litteram verso orizzonti di scrittura diversi. Intanto emerge la quieta stabilità di Ringo, sempre più simile al gregario che, in circostanze favorevoli, non esita a prendersi la vittoria di tappa, garantendo comunque la posizione del capitano in classifica generale. Infine, la sensibilità “laterale” di Harrison, veicolo di spunti introspettivi e sonori, si sente finalmente pronta per esprimersi e contribuire con un apporto deciso e personale.
Su queste premesse, attraverso un monumentale lavoro di selezione, restauro e montaggio delle oltre cinquanta ore di filmati e audio originali girati dalla troupe di Lindsey-Hogg, con Get Back (2021, disponibile sulla piattaforma Disney+) il regista neozelandese Peter Jackson ci conduce per mano, non visti, alla scoperta di un mese ordinario e cruciale per la band più famosa del pianeta. Il risultato è un viaggio in tre episodi, per quasi otto ore complessive (niente paura!), che ipnotizza come una melodia di sitar e risucchia quanto la coda psichedelica di Strawberry Fields.
Ci ritroviamo così in medias res negli enormi, grigi, ostili studi di Twickenham, in una gelida mattina d’inverno londinese, mentre i Beatles e il loro entourage fanno i conti con quel che c’è (poco, pochissimo, due o tre pezzi abbozzati a firma Macca, e un vecchio demo di Lennon, che diventerà – così per dire - Across the Universe) e quel che resta da fare (tutto o quasi, a cominciare dal decidere se il previsto live show si farà in studio, in una località esotica, forse l’anfiteatro romano di Sabratha, in Libia, o su una nave da crociera). I giorni passano senza che la band concretizzi granché, nello staff inizia a serpeggiare un comprensibile sconcerto, i Quattro vanno in ordine sparso. Si conclude poco, si suona molto, ma si perde anche tanto tempo. Si discute, si fanno commenti a mezza bocca, si lanciano frecciatine, si sparano scemenze, si ride amaro, si ride di gusto. Si suona, di nuovo, si prova, si assemblano idee, si scartano soluzioni, canzoni, non si butta via niente, in realtà.
Paul, che sembra avere in testa un forziere inesauribile di melodie e armonie, si carica la squadra sulle spalle e cerca disperatamente di portare proposte e riportare ordine e metodo nel gruppo, a costo di imporre la sua visione delle cose, gli arrangiamenti che già si è immaginato. Le accuse di dispotismo mosse a McCartney subito dopo lo scioglimento dei Beatles ne escono tutto sommato ridimensionate: come altro poteva fronteggiare l’indolenza irritante di un John Lennon in piena anarchia, recentemente accompagnatosi con una Yoko Ono che lo segue come e più di un’ombra (ai posteri l’ardua sentenza…), e talvolta evidentemente non padrone di sé? Eppure, sono spesso e volentieri i suoi giochi di parole a far “svoltare” un testo che non gira, sono le buffonate da scuola media di John a stemperare le tensioni, che crescono col passare dei giorni fino a giungere all’(apparentemente) irreparabile redde rationem. Non ci sta, George, a sentirsi dire cosa suonare e come suonare: è grande ormai, baby George, il più giovane dei quattro: è cresciuto, ha provato nuovi suoni e nuove tecniche, ha visto come Eric Clapton si muove sulla tastiera della chitarra, ha iniziato a comporre regolarmente pezzi propri. «I can only do me that one way», dirà, scocciato, al maestrino Paul che, sviluppando Two of Us, per l’ennesima volta gli suggerisce «questa cosa, suonala così». Paul vuole fare il concerto finale, vuole lo show, vuole il pubblico e la gloria dei riflettori. John è indifferente, è un giullare dissacrante al quale interessa poco il dove e il come. Ringo parla di rado, si oppone solo a proposte palesemente campate in aria, gioca con la telecamera – sta iniziando una carriera da attore, infatti -, usa, e bene, tutte le frecce al suo arco, acchiappa al volo ogni indicazione e la trasforma in ritmica mai banale. George è nervoso, non vuole nessun tipo di show, vuole stare in studio a suonare, vorrebbe fare un disco solista. Irritato dalle continue istruzioni e dalla difficoltà di esprimersi liberamente, lascia Twickenham e il gruppo.
Ci vorrà del bello e del buono, una illuminante quanto schietta conversazione sui rapporti di forza dentro al gruppo (rubata a John e Paul da un microfono nascosto in un vaso di fiori) e almeno un paio di visite a domicilio da parte dei 3/4 restanti del gruppo, per convincere George a rientrare. Soprattutto, sarà determinante la decisione di lasciare i sinistri studi di Twickenham per tornare agli Apple Studios di Savile Row, e trasformare il progetto nella registrazione di un album interamente dal vivo.
Si apre così una fase completamente diversa e anche se noi, spettatori del futuro, già sappiamo come andrà a finire, ci prepariamo a gustare una festa di creatività, di artigianato musicale, di archeologia strumentale (per gli amanti del genere, occhio al banco del mixer e al registratore a 8 tracce portato a Savile Row dagli studi della EMI). Le divergenze sembrano appianarsi, la voglia di suonare insieme sembra prevalere, in un equilibrio che tutti e quattro, in fondo, sanno essere precario, ma che tutti hanno comunque voglia di mantenere almeno per un altro po’. L’arrivo del pianista Billy Preston porta quel qualcosa che ancora non si era trovato, il piano Fender aggiunge un po’ di spezie a un piatto saporito, ma arruffato, ancora disomogeneo. E mentre i produttori e il regista incalzano per sapere se e come si farà il concerto conclusivo, Paul e John suonano vecchi classici, ridono come matti storpiando le loro stesse canzoni, quelle scritte a 15 anni sul bus della scuola e quelle che ancora stanno scrivendo in quel momento, pur consapevoli che la loro premiata ditta non sta più funzionando come un tempo, che stanno perdendo ormai quella complicità da ragazzi pazzi per lo skiffle e il rock’n’roll anni ’50. Intanto i pezzi prendono forma, se ne registrano decine di versioni, si riascoltano, si fumano centinaia di sigarette, si avanzano richieste strampalate («è possibile portare qui un’incudine [per il brano Maxwell Silver Hammer]?»; «Potreste far venire il commesso di un negozio di scarpe con alcuni mocassini di vernice neri taglia 42?»). Si ragiona sul passato, e sul viaggio in India fatto nel 1968 dai Beatles e dalla loro corte, per incontrare il guru indiano Maharishi («Se fossimo stati di più noi stessi [durante quel viaggio], non ci comporteremmo così adesso», dice George en passant, ma non poi tanto), ci si rabbuia per un nonnulla, si ride di nuovo non appena si inizia a suonare. Si suona tanto: accidenti, quanto si suona. Il 30 gennaio, la data fissata per l’esibizione, si avvicina, e non importa se non si sa quando i Beatles saranno davvero pronti: «è quando siamo spalle al muro che diamo il meglio di noi», sentenzia Paul, e John gli fa eco. Davvero vogliamo che tutto finisca?
L’epilogo è noto: il live show si farà, sul tetto degli Apple Studios (è il famoso Rooftop concert in cui verrà registrata la traccia che dà il nome al documentario), e sarà l’ultima esibizione pubblica dei Beatles; i brani composti e registrati durante quel mese di gennaio del 1969 finiranno dentro Let it be, ultimo album dei Fab Four, pubblicato nel 1970 dopo il loro scioglimento. Ognuno dei quattro prenderà una strada propria, la storia diventerà leggenda.
E proprio qui sta la magia di Get Back. La leggenda, la conosciamo tutti, chi c’era e chi non c’era: è tutto il resto, che non conoscevamo. Chiunque, a qualunque età, abbia provato l’esperienza esaltante e snervante al tempo stesso di suonare in un gruppo; di stare ore chiusi in una sala prove pulciosa per preparare un concerto, di trascorrere svariati pomeriggi d’inverno nel salotto di casa a registrare le tracce per un demo; di pigiare gli strumenti in macchina per andare a suonare in un posto sperduto davanti a quattro gatti; chiunque abbia sperimentato tutto questo, lo sa. Ci si esalta e ci si dispera nel giro di un attimo, ci si riprende subito suonando “a tutta” il classicone di quando eravamo ragazzini, si alzano gli amplificatori per coprire la batteria, e allora il batterista pesta più forte ancora. Si litiga per le questioni di principio, si fanno compromessi obtorto collo, si va fuori a cena dopo le prove, si disquisisce come accademici ottocenteschi su quella nota o quello stacco, si lascia il gruppo e ci si rientra; si sale sul palco pensando “non ce la faremo mai”, si scende pensando “questa è fatta, la prossima quand’è?”. Era questa, la storia ordinaria dei Beatles che ci mancava, quella senza raccontini edificanti o scandaletti da giornale di gossip, senza agiografia su come hanno iniziato, senza attribuzione di responsabilità o di meriti, senza stracciamenti di vesti per la fine di quell’esperienza, che, a ben vedere, è solo la fine di un ciclo, come tanti cicli finiscono per lasciar posto ad altri. In un gruppo, ci si prende e ci si lascia, ma quel che si è fatto insieme, rimane. La scelta sapiente di Peter Jackson è proprio per questo ancor più degna di nota. Get Back ci consegna un mese di vita della band più famosa della storia, ma ci consente anche altro. Certamente, uno sguardo sui processi creativi che la animavano, lasciandocene intravedere la genialità, ma anche tutti gli inevitabili intoppi: le parole che non tornano, i passaggi dimenticati, l’accordo che non ci sta. Ma soprattutto, e non è poco, ci permette di identificarci con quattro ragazzi di Liverpool, che facendo musica, hanno percorso insieme un tratto indimenticabile delle loro vite.