Le reazioni all’assemblea sindacale che la mattina del 18 settembre ha determinato un ritardo di due ore e mezza nell’apertura del Colosseo inducono ad alcune amare considerazioni.
A qualsiasi studente universitario o di scuola superiore, se gli è concesso di avere lezioni di educazione civica di un qualche spessore, viene spiegato che fra i diritti sindacali il diritto di assemblea è una forma del diritto di riunione che si caratterizza per avere quale oggetto materie di interesse sindacale e del lavoro.
L’art. 20 dello Statuto dei lavoratori attribuisce ai lavoratori delle aziende che occupano più di 15 dipendenti il diritto a riunirsi in assemblea durante l’orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, con possibilità per i contratti collettivi di stabilire condizioni più favorevoli. Nessun limite vi è invece per le assemblee che si tengono fuori dall’orario di lavoro.
Non diversamente da qualsiasi altro diritto sindacale l’esercizio deve avvenire secondo regole di correttezza: i contratti collettivi prevedono termini di preavviso e la giurisprudenza ha più volte argomentato per analogia dalle norme in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali per verificare la correttezza in concreto delle modalità con le quali il diritto è stato esercitato. In questa prospettiva sono state quindi ritenute legittime e non in contrasto con l’art. 20 dello Statuto le disposizioni di contratto collettivo che hanno imposto modalità restrittive di fruizione delle ore di riunione retribuite, tali da assicurare la tutela anche di altri interessi ugualmente o maggiormente garantiti dall’ordinamento, senza però escludere la possibilità di esercizio del diritto durante l'orario di lavoro.
E’, infatti, insita nel diritto di assemblea durante l’orario di lavoro una sospensione temporanea della prestazione. Ed è inevitabile che ciò comporti una perdita per il datore di lavoro e un ritardo per tutti i soggetti che aspettano la fornitura di beni o servizi da parte di quest’ultimo. Si tratta però di una sospensione del tutto limitata nel tempo (dieci ore in un anno), che viene usualmente contenuta e frazionata e la sospensione solitamente viene indetta a fine/inizio turno, per contemperare l’interesse del datore di lavoro a contenere i disagi e gli oneri e l’interesse sindacale a ottenere la massima partecipazione possibile. Ed è per questo che da un lato il diritto di assemblea non è disciplinato dalla L n. 146/1990 sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, volta a garantire e salvaguardare i diritti della persona costituzionalmente tutelati e dall’altro la giurisprudenza ha ritenuto, ciò nonostante, di estendere l’apparato sanzionatorio di questo testo normativo ai casi di riunioni indette durante l’orario di lavoro per le attività che implicano servizi essenziali, qualora si svolgano con modalità diverse da quelle stabilite dal contratto collettivo, dovendo in questa ipotesi essere assimilate a una forma di astensione collettiva ossia di sciopero.
Per il settore pubblico l’art. 2 del CCNQ del 7 agosto 1998 sulle prerogative sindacali impone un preavviso di tre giorni e prevede: “Eventuali condizioni eccezionali e motivate che comportassero l’esigenza per l’amministrazione di uno spostamento della data dell’assemblea devono essere da questa comunicate per iscritto entro 48 ore prima alle rappresentanze sindacali promotrici”.
Altro è il diritto di sciopero, costituzionalmente garantito, che, quanto all’incidenza sulla esecuzione del contratto, condivide con il diritto di assemblea solo la sospensione della prestazione di lavoro, ma che non ha sul piano normativo alcun limite di durata e che in astratto potrebbe protrarsi indefinitamente fino a quando i datori di lavoro, subendo necessariamente un danno, non accettino trattative sulle rivendicazioni per le quali lo sciopero è stato indetto.
La giurisprudenza ha sì individuato limiti di modalità delle astensioni per impedire un esercizio che rechi al datore di lavoro un danno superiore a quello inerente alla astensione dalla prestazione, tuttavia il diritto di sciopero rimane lo strumento ultimo dei lavoratori che, pur infliggendo a se stessi il pregiudizio economico della perdita del salario, mirano a creare al datore di lavoro, controparte, un pregiudizio superiore così da ottenere una modificazione delle condizioni di lavoro a loro favorevole, con buona pace di chi se ne è ultimamente scandalizzato quando qualche sindacalista ha cercato di ricordarlo.
Per le caratteristiche appena menzionate è al diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali che sono stati introdotti dei limiti di preavviso e durata, la cui inosservanza comporta delle sanzioni stabilite da apposita autorità e la cui finalità è di “garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione”. Per questi servizi individuati dall’art. 1 della legge n. 146/1990 è possibile la precettazione di una parte del personale per garantire livelli minimi indispensabili di prestazione, siano o non siano preventivamente concordate nei contratti collettivi (art. 2 comma 1 “…Tali misure possono disporre l'astensione dallo sciopero di quote strettamente necessarie di lavoratori tenuti alle prestazioni ed indicare, in tal caso, le modalità per l'individuazione dei lavoratori interessati, ovvero possono disporre forme di erogazione periodica…”).
Non è stato dunque inibito il diritto di sciopero, né avrebbe potuto esserlo senza modifiche alla Costituzione, ma è stato introdotto un bilanciamento attraverso oneri di preavviso e limiti di durata che sono diretti a dare modo agli utenti di conoscere quando e per quanto non potranno godere del servizio e a contenere nel tempo e nell’entità il disservizio. Ed è la legge di cui si discute che espressamente prevede che i datori di lavoro, comprese ovviamente le pubbliche amministrazioni, siano tenuti a dare comunicazione agli utenti, nelle forme adeguate, almeno cinque giorni prima dell'inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi nel corso dello sciopero e delle misure per la riattivazione degli stessi.
A tal fine può/deve essere utilizzato anche il servizio pubblico radiotelevisivo che “è tenuto a dare tempestiva diffusione a tali comunicazioni, fornendo informazioni complete sull'inizio, la durata, le misure alternative e le modalità dello sciopero nel corso di tutti i telegiornali e giornali radio. Sono inoltre tenuti a dare le medesime informazioni i giornali quotidiani e le emittenti radiofoniche e televisive che si avvalgano di finanziamenti o, comunque, di agevolazioni tariffarie, creditizie o fiscali previste da leggi dello Stato”.
Individuati il contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento, delineate le contiguità e le diversità fra diritto di assemblea e di sciopero, è subito abbastanza evidente che molti commentatori della apertura ritardata del Colosseo non avevano conoscenza né dell’uno, né delle altre. Vi era una gran confusione di contenuti e inoltre la quasi totalità degli articoli di giornali e dei commenti radiofonici e televisivi prescindeva completamente dai motivi dell’assemblea.
Benché ad alcuni giornalisti o opinion makers possa essere sfuggito o possa essere sembrato singolare, questa è l’impressione che si trae dal tenore dei loro interventi, l’assemblea dei lavoratori del Colosseo della mattina del 18 settembre è stata indetta non per una prima colazione collettiva al bar bensì per discutere questioni di lavoro e non certo di secondaria importanza. Si trattava del mancato pagamento dal novembre 2014 della reperibilità notturna, delle aperture straordinarie, dei festivi e super festivi, rispetto a turni di dieci ore, che consentivano di attuare l'apertura 7 giorni su 7 del sito. Una retribuzione accessoria non pagata, dunque, nonostante le richieste di super prestazioni di lavoro, con sacrifici personali e familiari, fossero regolarmente eseguite. Una retribuzione accessoria che non era sicuramente di scarsa importanza posto che la retribuzione base del personale con funzioni di custodia si aggira attorno a € 1.200,00.
Inoltre, poiché l’assemblea era stata comunicata con un preavviso di una settimana e poiché non era sicuramente compito dei custodi o delle organizzazioni sindacali provvedere a dare adeguata informazione e pubblicità per evitare il più possibile disagi agli utenti, l’amministrazione avrebbe dovuto attivarsi, in forme e tempi adeguati, se ritenuto necessario o opportuno.
Nella vicenda di non ordinario ci sarebbe dunque solo l’oggetto della assemblea ossia il grave inadempimento del datore di lavoro che nella specie è un Ministero organo del Governo della Repubblica.
E invece si è scatenato l’ “effetto massa” del “dagli al sindacalista” e al “lavoratore pubblico fannullone” (cioè quelli che garantivano l’apertura 7 giorni su 7), sindacalisti e lavoratori accusati di avere leso interessi primari del popolo italiano, chiudendo il monumento simbolo del paese, il monumento che lo identifica all’estero, che è visitato ogni anno da milioni di turisti che percorrono migliaia di chilometri provenendo da luoghi remoti per visitarlo…e lo trovano chiuso. Si sono lette e sentite frasi lapidarie, quali “il Colosseo non dovrebbe chiudere mai”, e affermazioni di principio categoriche sulla necessità di impedire che dipendenti pubblici pagati con danaro pubblico possano infliggere cotanto danno alla splendida immagine della Nazione.
Molto si potrebbe replicare, accettando la polemica, così come del resto è stato fatto: è dunque prioritario l’interesse del turista o quello dei lavoratori non pagati? Lede l’immagine del paese la chiusura del Colosseo o il Governo inadempiente a obblighi retributivi? Chi mai si è scagliato contro i dipendenti in sciopero, prima a singhiozzo e poi a oltranza, della National Gallery di Londra? E così via.
In realtà i fatti nudi sono più che sufficienti a rendere evidenti l’ignoranza o la strumentalità di queste polemiche, che paiono spesso fondate sulla emotività del singolo giornalista che butta lì le sue impressioni senza rifletterci molto. Ciò che è veramente sconfortante è la mancanza in Italia di un sistema di informazione che consenta a chi lo desidera di formarsi una opinione critica in base a dati sui fatti a prescindere dalle valutazioni di chi li racconta. Con il risultato, e non solo in questo caso, che i concetti sottostanti ai diritti di libertà sanciti dalla Carta Costituzionale, frutto di una elaborazione quasi centenaria e di faticosissima conquista, sono messi in discussione in modo distorto. Viene trasmesso un messaggio acritico ed emotivo che porta a schierarsi aprioristicamente, senza veicolare una adeguata conoscenza. In tal modo la pubblica opinione viene indotta a negare fondamento e legittimità a questi diritti, attraverso un bilanciamento solo apparente delle contrapposte esigenze in cui alcuni degli interessi in gioco non hanno realistica rappresentazione.
E ciò che è paradossale è l’esito di questa vicenda.
Il datore di lavoro inadempiente all’obbligo di pagamento delle retribuzioni, piccato della sospensione di due ore e mezza della prestazione, ritenendo insopportabile il danno inflittogli e considerato questo danno un caso straordinario di necessità ed urgenza, emette, essendo egli anche al Governo della Repubblica, un decreto legge (n. 146/15) che modificando l’art. 1 della L n. 46/90, assimila l'apertura al pubblico di musei e luoghi della cultura (di cui all'articolo 101 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni) ai servizi essenziali e nella specie ai servizi di protezione ambientale e di vigilanza sui beni culturali. Il risultato dell’operazione è che, per quanto riguarda le assemblee, nulla è cambiato e nulla di più possono le amministrazioni rispetto a quanto già previsto dal CCNQ sulle prerogative sindacali all’art. 2 (preavviso di tre giorni e possibile spostamento della data dell’assemblea con comunicazione entro 48 ore prima alle rappresentanze sindacali promotrici).
La modifica riguarda invece il diritto di sciopero, che nel caso specifico non veniva in considerazione. E per lo sciopero dovrà essere applicata la L n. 146, con possibilità di precettazione. Rimane da chiedersi quale estensione potrebbe avere la precettazione in una situazione come quella del Colosseo se, come ha dichiarato Antonella Rotondi RSU al TG La7, a fronte di picchi di ingresso giornalieri variabili da 15.000 a 32.000 il personale di vigilanza è costituito da 7/8 unità.
In altri termini, con questo intervento l’amministrazione non può fare, in caso di assemblea, nulla in più di quello che non potesse già fare precedentemente, compreso il dare tempestiva comunicazione all’utenza, anche con comunicati stampa, cosa che non ha fatto.
Certo dispiace che nell’avviso esposto per dare informazione ai turisti in attesa sia stato commesso il madornale errore di confondere AM con PM, così comunicando che il Colosseo avrebbe riaperto alle 11 di sera. Non si sa chi sia stato, ma, se riconducibile all’iniziativa dei lavoratori, lo scritto dimostra che il datore di lavoro non ha investito granché nella formazione linguistica per assicurare un adeguato servizio al turista, il cui diritto di visitare il monumento all’ora da lui prescelta è, nella visione del Governo, un diritto alla persona costituzionalmente garantito.