Magistratura democratica
Magistratura e società

Idee sparse per la riscossa della magistratura

di Marco Patarnello
magistrato di sorveglianza a Roma

Breve riflessione intorno alla crisi della magistratura e al cammino per superarla, seguendo lo scritto di Marco D’Orazi per le edizioni Pendragon (Per una giustizia degna dell’Italia. Idee sparse per la riscossa della magistratura, 2020).

 

Mi piace riprendere la seconda parte del titolo del pamphlet scritto da Marco D’Orazi, perché esprime un ottimismo della volontà che non può che far bene alla magistratura e perché si tratta di uno scritto originale, aperto, frutto di una riflessione intelligente. Ne suggerisco la lettura a tutti coloro che intendano fare associazionismo e discutere di magistratura oggi.

Per D’Orazi la magistratura è un organismo malato. Con questa metafora affronta e cerca di individuare le cause della crisi partendo dall’anamnesi, attraverso un’analisi seria, che personalmente condivido in larga misura. 

Un prima premessa fuori dai luoghi comuni è la constatazione dell’autore secondo cui la crisi che la magistratura attraversa non ha nulla a che fare con la politicizzazione della magistratura. Anzi, in qualche modo D’Orazi sembra attribuire proprio al suo contrario una parte importante della crisi: la perdita di riferimenti culturali alti ed il conseguente rinchiudersi dei gruppi associativi in quelle che chiama appropriatamente pratiche familistiche e che personalmente definirei come il prevalere degli interessi biecamente individuali e personali nella gestione del potere, che è qualcosa che assomiglia -addirittura in peggio- al muoversi, dei gruppi associativi, secondo una logica puramente d’apparato.

Un secondo punto di forza del ragionamento proposto da Marco D’Orazi è costituito dalla consapevolezza che non sono possibili semplificazioni: le ragioni della crisi sono multifattoriali, vanno esaminate ed approfondite tutte e le soluzioni non potranno che essere complesse e su più fronti. Carrierismo, eccessivo incremento della discrezionalità del CSM, crisi del sistema delle correnti e deriva verso un familismo amorale sono solo alcune delle ragioni di crisi che lo scritto esamina e soppesa. Se nel passato il magistrato bravo ha sentito il dovere di impegnarsi nelle correnti, vivendo questa scelta come parte del proprio dovere civile, nel presente prevale l’approccio opposto: gran parte dei magistrati bravi tendono a tenersi ben lontani dalle correnti. Muovendo da questa constatazione l’autore soppesa la portata e il significato dell’attuale crisi e ne approfondisce le origini, con un’analisi serena e lucida. Plurimi sono gli aspetti negativi che questa constatazione sottende: una dirigenza dei gruppi spesso di profilo modesto, una scarsa inclinazione dei magistrati a tenere pulita la casa dell’autogoverno, conoscendolo e vigilando su di esso.

Con l’autore condivido molte delle riflessioni che riccamente argomenta e fra di esse metterei al centro l’esigenza di una rinnovata tensione etica, a fronte di una caduta eclatante e grave, pur nella consapevolezza (che parimenti condivido con lui) che si tratta forse del profilo più difficile da affrontare: l’etica non sembra il frutto di riforme, bensì di un approccio culturale e costruire e modificare una cultura e costruire una tensione ideale è lungo e faticoso. Ma confrontarsi e dividersi sull’etica è una necessità, come una necessità è insegnarla e valorizzarla. 

Sul punto D’Orazi non intende sottacere o svilire la differenza fra l’etica della giurisdizione e l’etica dell’amministrazione e quindi dell’autogoverno, ma intende ribadire che preferire un buon candidato della propria corrente ad un miglior candidato estraneo ad essa è una cosa riprovevole e tale deve tornare ad essere per tutta la magistratura e per qualsiasi gruppo associativo. Impossibile dargli torto.

Tuttavia il tema si interseca con quello dei criteri di scelta dei dirigenti. Devo sinceramente confessare che mentre condivido interamente la constatazione della crisi etica della magistratura e l’esigenza di mettere questo fronte al centro della riscossa, sono oggi poco ottimista sulla concreta praticabilità di valutazioni professionali davvero capaci di valorizzare e rendere oggettive differenze di professionalità che non siano molto consistenti. Valutare la professionalità di un magistrato in funzione di un incarico direttivo o semidirettivo -al netto di differenze macroscopiche che pure non di rado vi sono- non è affatto facile e può essere molto soggettivo. Troppe volte ho constatato che i curricula disegnano profili lontani dalla realtà effettiva e altrettanto spesso ho discusso invano con colleghi che stimo profondamente, circa il dirigente migliore di un determinato ufficio: anche rispetto ad una cerchia ristretta di aspiranti, sugli stessi colleghi avevamo idee simili, ma non così tanto da concordare sulla soluzione migliore come dirigente.

Da “correntocrate” ex magistrato segretario del CSM addetto alla Commissione per gli incarichi direttivi posso dire di aver contribuito ad amministrare la discrezionalità del CSM sulla nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari negli anni dal 1995 al 1999 e di avere ideato e riscritto personalmente -non da solo-  la circolare sul conferimento degli incarichi direttivi dell’epoca, valorizzando la discrezionalità del CSM, superando la vecchia regola dell’anzianità senza demerito; ho contribuito anche a ideare e riscrivere parte consistente dei criteri di scelta degli incarichi semidirettivi (all’epoca gestiti mediante punteggio). Ho letto e scritto molte cose su questo argomento. Mi sento quindi particolarmente responsabile e coinvolto su questo terreno. Non voglio in questa occasione affrontare funditus il complesso e delicato tema dei criteri di scelta dei dirigenti e dell’esercizio della discrezionalità del CSM in materia e di come si possa fare a coniugare trasparenza delle scelte e qualità delle medesime o come scegliere il miglior dirigente, ma sarebbe un errore sottovalutare quanto sia difficile tenere insieme efficacemente la discrezionalità della scelta con l’evidenza del risultato o il rigore della scelta con la qualità del risultato. Limitare la discrezionalità attraverso l’irrigidimento del valore da attribuire a determinati percorsi o esperienze professionali, alla ricerca di una sorta di punteggio che “oggettivizzi” il risultato è, probabilmente, possibile, ma forse non così opportuno. Temo ci sia un solo aspetto che consenta di effettuare scelte al riparo da critiche e discussioni e si gioca tutto intorno al rilievo che deve essere assegnato all’anzianità di servizio. Parametro di giudizio delicato, che ho sempre pensato fosse giusto rendere marginale e che oggi, invece, credo sia stato un errore mettere totalmente da parte. Errore rispetto al quale intendo assumermi anche io, pubblicamente, le mie responsabilità. Certo, la dirigenza che avevamo quando io entrai in magistratura (1989) era imbarazzante. Salvo qualche rarissima eccezione, per lo più i capi degli uffici, soprattutto di quelli importanti, erano dei dinosauri. Quando andava bene. Perché spesso erano, invece, personaggi opachi, radicati per anni nella realtà locale in cui operavano e della quale diventavano Monarchi fino al pensionamento. Fortunatamente un’altra Italia. 

Ma torniamo al pamphlet, il quale fra le diverse “cure” da somministrare a questo organismo malato suggerisce, appunto, una consistente “dieta” di discrezionalità del CSM. Non voglio togliere nulla al piacere della lettura, ma lo scritto compie una disamina matura ed equilibrata del cammino percorso su questo terreno dal Consiglio e dalla cultura dell’associazionismo giudiziario, senza tralasciare i molti meriti da riconoscere. Non tralascia di osservare e avanzare proposte su buona parte dei punti nevralgici e ovviamente non manca di occuparsi delle nomine dei magistrati segretari e dell’Ufficio studi, peraltro richiamando la battaglia che su questo punto sta promuovendo il gruppo associativo cui non fa mistero di sentirsi vicino, vale a dire Autonomia e Indipendenza. Il terreno è senza dubbio delicato e molto “caldo”, ma D’Orazi lo tratta senza faziosità, con proposte ed idee che in parte io stesso ho condiviso[1], ancor prima che il dossier Palamara -con le sue ricadute dirette sul punto- lo rendesse così “ingombrante” e carico di significato.    

Intelligentemente D’Orazi si sofferma in particolare sul sistema elettorale per il CSM. Ne esamina l’iter storico e ne sottolinea lucidamente l’importanza. Senza, tuttavia, nascondersi che, per quanto molto importante, il sistema elettorale non costituisce la soluzione di tutti i problemi e soprattutto non può fare sparire i limiti della magistratura in un determinato momento storico. Con chiarezza bolla l’attuale sistema elettorale come il peggiore di tutti i tempi. Senza apriorismi o faziosità “dipinge” il sorteggio per quello che è: un’ipotesi incostituzionale che non può fare bene alla magistratura. Si interroga molto sul sistema migliore, alla ricerca di un punto di equilibrio fra le diverse esigenze in gioco e se -forse- non concordo interamente con lui sulla soluzione proposta[2], certamente concordo sul metodo seguito per ricercarla e su buona parte degli obiettivi che essa si pone. Nutro, invero, qualche perplessità in ordine ad un legame così marcato col territorio, come quello che lui suggerisce, ma sono anche consapevole dei vantaggi che tale legame assicura. In ogni caso trovo che il compromesso fra esigenze diverse raggiunto con la soluzione proposta sia, se non interamente appagante, certamente un buon punto di partenza per una soluzione praticabile.   

Ma il testo di D’Orazi ha il pregio soprattutto di cogliere e valorizzare l’importanza di quella che chiama La buona pediatria, vale a dire: pensare ai giovani, partendo da lontano e arrivando vicino. Questa è forse la parte più stimolante e ricca della riflessione, ancorché densa di spunti critici e di aspetti che andrebbero discussi. L’autore tocca tutti i temi più importanti: dagli errori di programmazione commessi nel disegnare i percorsi universitari, all’esigenza di innalzare il livello qualitativo degli studi giuridici -attualmente confinati al ruolo di “rifugio” o via di fuga in mancanza di alternative o di inclinazioni evidenti-, al meccanismo di studio, ammissione e preparazione al concorso in magistratura, al tirocinio, alla formazione. Non tutto ciò che l’autore propone è immediatamente condivisibile o, talvolta, condivisibile tout court, ma tutto è frutto di riflessione attenta, non superficiale e ben orientata. Soprattutto molto netta -ma ragionata- la sua critica alla proposta di ripristinare immediatamente il concorso di primo grado per entrare in magistratura con la sola laurea in giurisprudenza, avanzata con una certa forza soprattutto da Magistratura Democratica. Di tale soluzione D’Orazi condivide lo spirito, ma ne contesta radicalmente soprattutto la praticabilità, sottolineandone la potenziale dirompenza rispetto alla tenuta di un’affidabile valutazione meritocratica, quanto meno finché non si lavori, a monte, sul numero dei laureati in giurisprudenza.

Credo che oggi un approccio a questi temi come quello proposto da Marco D’Orazi sia quello giusto, per il metodo ancor prima che per i pur notevoli contenuti. Si tratta di un approccio che dimostra un’osservazione e riflessione attenta sull’associazionismo e sull’autogoverno. Capace di ascoltare e di trovare linee di dialogo e di intesa. Di ragionare per obiettivi. Insomma, capace di costruire e di guardare avanti. 

La capacità di costruire è proprio ciò che serve alla magistratura in questo momento. Anzi, di ri-costruire. Ma di ricostruire su basi solide, su fondamenta affidabili, avendo “spianato” prima sufficientemente i detriti e le scorie dal terreno. 

Il lavoro di D’Orazi sembrerebbe una buona base di partenza per un ragionamento associativo. Peccato non vedere l’autore fra i protagonisti di questo dialogo. Ma magari questa nuova partenza di un’associazione nazionale magistrati unitaria (o pressoché tale), che salutiamo con speranza, potrebbe scegliere di beneficiare di risorse come questa, mettendola al centro di una rete di risorse con l’obiettivo di riscrivere alcune pagine ordinamentali e politiche che meritano di essere affrontate. 


 
[1] All’interno del numero 4/2017 della rivista trimestrale Questione Giustizia dedicato a L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del CSM vi è un mio scritto dal titolo 60 anni di vita: le nostre rughe, che al punto 5 è dedicato specificamente alla «struttura amministrativa: segreteria e ufficio studi», in cui l’ipotesi della scelta di tipo “concorsuale” viene presa in considerazione e suggerita in particolare per l’Ufficio studi.

[2] In sintesi, quindici collegi uninominali (di cui uno di legittimità) territoriali con elezione a doppio turno, con un recupero proporzionale di cinque seggi non legati ad alcun territorio. Viene suggerita un’originale possibilità di creare “apparentamenti” ed altre soluzioni finalizzate ad “equilibrare” tutti i diversi obbiettivi.

21/12/2020
Altri articoli di Marco Patarnello
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.