Chi appartiene alla classe dei giuristi dovrebbe chiedere scusa, per questo solo fatto, agli altri consociati? E se concludessimo che la risposta è affermativa, come si concilierebbe questa constatazione con l’orgoglio che i giuristi traggono dall’esercitare i mestieri loro propri?
José Ortega y Gasset, nella prima delle lezioni raccolte in Che cos’è la filosofia, avvertiva che l’apparente semplicità del titolo che aveva scelto non avrebbe dovuto indurre l’allievo o il lettore a credere di trovarsi di fronte ad un’introduzione elementare alla materia, trattandosi, al contrario, di un’opera intesa ad «assumere la stessa attività filosofica, lo stesso filosofare e sottoporlo ad una radicale analisi».
Il titolo dell’ultimo lavoro di Gustavo Zagrebelsky (La giustizia come professione), unitamente al sottotitolo (Un’indagine sulla natura, i simboli, i cliché di chi esercita le professioni del diritto), potrebbe indurre a sottovalutare l’impegno che viene chiesto al lettore, portato a credere di trovarsi di fronte ad una matura, acuta, ponderata ma, tutto sommato, tranquillizzante riflessione sul campo giuridico, ad un percorso intellettuale scarsamente accidentato.
E’ vero l’esatto contrario.
Il grande costituzionalista, il grande giudice costituzionale, il grande intellettuale pubblico avrebbe potuto servirsi, con tanta maggior ragione di chi davvero l’ha fatto (le citazioni sono superflue, e sarebbero poco cortesi), di un esibito intento di tornare sul mestiere del giurista allo scopo di celebrare la propria (nel caso dell’autore, autenticamente) prodigiosa carriera, i propri (nel caso dell’autore, autenticamente) eccezionali meriti.
Nulla di tutto questo.
L’analisi è interamente consacrata all’oggetto dell’indagine, scrutato da un pensiero così affettuoso, e perciò così impietoso, da aprire spazi di riflessione dall’ampiezza autenticamente vertiginosa.
Una vena limpidamente socratica percorre la trattazione, che continuamente si appella al lettore affinché si domandi se davvero conosce il significato di simbologie e termini usati ed abusati dai professionisti del diritto, e da chi su di loro ragiona, e se davvero, in materia, sia il caso di dare qualcosa per scontato, si trattasse pure delle fondamenta semiotiche apparentemente più solide.
Il volume si apre con un necessario e salutare esercizio d’umiltà.
E’ capitato a molti giovani giuristi, divorati dall’ambizione di scrivere le future pagine del Libro del Diritto, d’imbattersi, nel corso di una qualche ricerca in biblioteca, in articoli di dottrina, o sentenze, o leggi, vecchi di mezzo secolo, d’un secolo, o più, e di realizzare dolorosamente che quel che trasmettevano (la goffa inattualità, il minaccioso e ridicolo brandire principi ormai oggetto d’irrisione o di ripudio, l’inutilità ad ogni scopo che esulasse dalla pedanteria antiquaria) avrebbe un giorno corroso anche la loro opera, fosse anche stata, nel suo presente, la più gloriosa, e che il destino della pagina giuridica, al contrario di quello talvolta riservato alla pagina letteraria o filosofica, è quasi ineluttabilmente quello dell’Ozymandias di Shelley.
Se così è, se non sarà dunque la gloria dell’opera a salvarci, dovrebbe però redimerci la dignità di un compito assolto con scrupolo.
Non è così semplice.
L’autore ci ricorda che il lavoro del giurista, come quello del politico e quello del giornalista, è circondato da aspettative troppo elevate per non venire generalmente tradite. Alle persone alle quali si chiede di operare per la ricerca della giustizia, del buon governo, della verità, si domanda d’essere angeli, più che esseri umani, onerandole di troppe attese, investendole di troppa fiducia, esponendole a troppe tentazioni, votandole – e votandosi - a profonde delusioni.
E’ allora il caso di toccare il minimo ed il massimo di questa ripida sinusoide che si snoda tra ideale e realtà. Il secondo capitolo, con una franchezza destabilizzante, si chiede se, al di là delle fin troppo ovvie trivialità, degl’insulti gratuiti, dei rancori, vi sia qualcosa, tra i luoghi comuni negativi che da secoli accompagnano i giuristi, che possa divenire materia di fruttuosa riflessione. Ecco che veniamo posti di fronte ai peggiori specchi deformanti, quasi per indurci a dubitare del fatto che l’immagine che amiamo proiettare sia un fedele riflesso della realtà: passano quindi in rassegna le eterne maschere del giurista amorale e senza scrupoli; del giurista ottusamente abbarbicato alla lettera della legge; del giurista che sa solo imbrogliare le carte; del giurista perduto nel sogno (o nell’incubo) delle proprie categorie dogmatiche; del giurista eccessivamente venale; del giurista docile ancella del potere; del giurista grigio e senza slanci.
Lasciamo al lettore il piacere, dolce e amaro, di scoprire la descrizione che di queste figure tratteggia l’autore, limitandoci ad osservare che, ad una prima riflessione, i problemi sollevati sembrano essere principalmente due: questi archetipi negativi sono stati, e sono, incarnati da persone che sono giunte troppo facilmente, ed in numero troppo elevato, alle vette della carriera, e, peggio ancora, hanno fatto scuola, seducendo studenti, accademici, avvocati, magistrati. Il luogo comune, dopotutto, può venire alimentato, tra l’altro, dall’eccessiva fortuna di chi lo impersona.
Il terzo capitolo, vertiginosamente risalendo l’onda sinusoidale, ascende alla simbologia sacra, colta, ufficiale della Giustizia, attraversando un percorso che dall’arte egizia giunge alle soglie di quella contemporanea, traendo spunto dall’iconografia, con un’operazione che richiama il Peter Sloterdijk di Sfere, per una riflessione sulla celebrazione e, inevitabilmente, sulle ipocrisie (nascoste dalla celebrazione) della giustizia.
Il simbolo, difatti, è ad un tempo disvelamento e nascondimento, ambiguità, questa, che si manifesta nelle icone legate alla differenziazione-emancipazione del diritto dalla religione e da un potere politico monolitico, indiviso, annunciata ma mai veramente (suscettibile di essere) portata a compimento; nella polisemia della bilancia, della benda, della spada, del ginocchio nudo; nell’incerta collocazione della giustizia nelle rappresentazioni più generali del potere e del governo; e, ambiguità somma, nella femminilità della giustizia, pur amministrata in terra, per troppo tempo, da maschi, gelosi di questo potere che pure, a fronte di quello autenticamente sovrano, e quindi (immaginato) marziale, solare, si vede conferire, per contrasto, tratti venusiani e lunari, a rimarcare la sottomissione al (vero) Governo di chi si è visto attribuire una spada inevitabilmente sottoposta ad un’altra, d’ordine diverso, e più potente.
I quadri di quest’esposizione predispongono il lettore ad affrontare la lettura dei successivi capitoli - nei quali si tratta dell’avvocato, del giudice, del professore e dello studente di diritto - in uno stato d’animo meno influenzato da effimere contingenze, e che viene ulteriormente stimolato a trascendere l’attualità attraverso la ripresa dell’interrogazione socratica.
Si pone quindi, con terribile profondità e semplicità, la questione di come si possa – per quel che riguarda l’avvocato – servire il cliente e la giustizia ad un tempo; di come si possa – per quel che riguarda il magistrato – giudicare l’altro senza, al contempo, assumere l’obbligo di giudicarsi; di come si possa – per quel che riguarda il professore – conciliare il dovere scientifico del rigore (kantianamente) analitico con l’inevitabile “compromissione” del diritto con tutti gli aspetti, anche quelli meno nobili, della vita-nella-Storia che il diritto è chiamato a regolare; e, infine, come si possa – per quel che riguarda lo studente – scegliere gli studi di giurisprudenza senza sentire una vera vocazione, per ripiego, laddove il servizio alla giustizia dovrebbe ritenersi un’autentica consacrazione del sé.
Il volume è intessuto di richiami alla grande letteratura, specialmente al grande romanzo russo e francese, e le pagine dedicate alle quattro figure di giurista (inclusa quella del giurista in formazione) fanno pienamente onore a questi riferimenti, ricche come sono di ritratti accurati, dolenti, ironici, illuminanti dell’umanità che le incarna.
Due, tra molti altri pur meritevoli d’approfondimento, appaiono essere i grandi temi ricorrenti.
In primo luogo, le professioni del diritto sono minacciate da un’insensata assimilazione al dominante culto monoteistico dell’impresa. Gli avvocati sono spinti ad adeguarsi ad un “modello produttivo” aziendale che vede nei grandi studi legali associati i nuovi templi, e nell’avvocato d’affari vicino (ma pur sempre in posizione subalterna) al grande potere economico il sommo sacerdote. Questa mentalità è penetrata anche in magistratura (l’architettura dei palazzi di giustizia contemporanei come segnalazione di «catene di montaggio di sentenze», p. 149), seduce troppi professori e guasta la vita di troppi studenti, ingannevolmente convinti che fuori dal grande circuito del business law non vi sia salvezza, o grandezza, ma solo il diritto dei losers (e diciamolo chiaramente agli studenti che leggono: questo non è assolutamente vero, e dividere il mondo in winners e losers non ha senso, è indice di profonda ignoranza e non conduce da nessuna parte).
In secondo luogo, essere operatori maturi del diritto, in qualsiasi veste, richiede una dolorosa, ma necessaria, consapevolezza della debolezza del diritto stesso a fronte del potere autenticamente politico, consapevolezza che dovrebbe riflettersi in una presa d’atto della scarsa capacità, da parte del giurista di professione, di “indirizzare” la società, che sia verso il progresso o verso la reazione, in quanto il diritto è, per sua essenza, e anche in una società libera, razionalizzazione e stabilizzazione, e dunque moderazione.
Ne discende un giudizio estremamente forte, ma che appare più che fondato: chi aspira a rivoluzionare la società può anche studiare il diritto, ma farebbe bene a dedicarsi a professioni diverse da quelle propriamente giuridiche. Sono la spada (quella marziale), la borsa e le idee libere (quelle sciolte dalle costrizioni di una legge dettata dalle prime due) a muovere la storia; il diritto, quando gli è concesso di farlo, contribuisce a rendere il cammino meno impervio.
Lo sviluppo della tesi non è tranquillizzante, ma è comunque necessario riportare queste parole, centrali, del libro: «La scintilla [dell’amore per il diritto] scocca ancora e può ancora essere seduttiva. Che fare con questi amanti della giustizia? Spegnere gli entusiasmi, spiegare loro che la giustizia di questo mondo è solo l’inganno inventato dai potenti per nobilitare la loro prepotenza, invitarli ad abbandonare questi studi se vogliono cambiare il mondo e a dedicarsi, piuttosto, alla rivoluzione o, almeno, alla politica? Dire loro che quella fanciulla [la giustizia], incorrotta in apparenza, è una prostituta, in realtà?».
Fortunatamente, anche se le prospettive di riscatto sembrano prefigurare immani sforzi, non vi è alcuna resa. Dobbiamo ancora tenere per valida la lezione del Bertrand Russell de La ricerca della felicità, secondo la quale il senso della vita si trova più facilmente nella realizzazione di un ideale che ci trascenda che nella lotta per il nostro piccolo o grande “successo”.
E allora, all’impietoso interrogativo che precede l’autore risponde: «Non sia mai. Non dobbiamo interrompere quel legame tra la giustizia e il diritto, rotto il quale il diritto è solo ipocrisia. Non abbiamo il diritto di trascinare il diritto in questa disfatta nichilistica. Condanneremmo noi stessi. La strada che abbiamo intrapreso, magari tanti anni fa, ci apparirebbe completamente sbagliata e il punto d’arrivo sarebbe una meta disgustosa. I giuristi sono per natura dei moderati. Se non lo fossero, sarebbero altra cosa. Ma la moderazione non significa affatto rinuncia agli ideali di giustizia di cui il diritto, per essere tale, deve pur essere nutrito. Nutrito da chi? Dai giuristi».
Certo, la sensibilità musicale del maestro di costituzionalismo sembra avvertire l’approssimarsi d’inquietanti melodie - delle polonaises, delle danze ungheresi, se non proprio delle marce alla turca – («Antichissima domanda, questa [quella relativa alla necessità di applicare la legge radicalmente ingiusta], che nei decenni trascorsi poteva sembrare solo teorica, sembrare appartenere a tempi bui in cui lo stato di diritto era degenerato – come fu detto – in "stato di delitto". Ma i tempi cambiano e il futuro non sappiamo che cosa ci potrà riservare», p. 155).
Ciò non ostante, il professore, che ha sottoposto ad una spietata prova di resistenza il proprio amore per il sapere giuridico e per la sua trasmissione, se avverte senz’altro i suoi lettori della debolezza del diritto a fronte del possibile pervertimento dello stato democratico (in profonda sintonia con recenti riflessioni, dichiaratamente socratiche, sull’azione collettiva in tempi di crisi radicale del patto sociale: Donatella di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, 2018, e Frédéric Gros, Disobbedire, Einaudi, 2019, prima edizione francese del 2017), lascia intendere che una vita consapevolmente dedicata, da giuristi di professione, alla giustizia, è, almeno in democrazia, una vita bene spesa, una vita riscaldata da un amore discreto, meno entusiasmante di quello che l’ipocrisia e la propaganda interessatamente falsificano, ma saldo ed appagante.
Il modesto recensore di questa scomoda e fondamentale riflessione, innamoratosi del diritto, ormai diversi anni fa, durante la lettura di Giustizia Costituzionale, rimane grato al suo autore per avere rinnovato, con il dono della sincerità senza compromessi di questo volume, quell’ardore, ormai, forse, dissonante rispetto allo spirito di un’epoca che alla razionalità, al dibattito e alla cultura antepone la propaganda, la disinformazione, lo squadrismo verbale, l’istupidimento (istupidito) di massa, ma degno dell’adesione che merita il pensiero intellettualmente ambizioso, coraggioso e onesto.
Per la nostra fallibilità e per la nostra debolezza dovremo chiedere scusa, ma questa fedeltà, che è continua ricerca, e perciò continuo errore, rimane una delle maggiori consolazioni, e l’orgoglio, di chi ha anche solo intravisto, con i suoi spuntati sensi, un riflesso della Dea.