Affrontare la questione dello sfruttamento del lavoro nero in agricoltura, per un giudice del lavoro, significa cercare di capire la trama sottile che si muove dietro un contenzioso tanto apparentemente ripetitivo quanto in realtà complesso.
Significa cercare di guardare oltre il singolo processo per tentare di ricucire l’apparenza processuale ad una realtà multiforme e sfuggente.
Svolgere le funzioni di giudice del lavoro in un contesto territoriale come quello del Tribunale di Foggia, porta ad occuparsi quotidianamente dei risvolti processual-civilistici dell’argomento del lavoro nero agricolo, sotto il doppio profilo del lavoro agricolo fittizio (cioè denunciato all’Inps da falsi imprenditori e da falsi braccianti) e del lavoro agricolo prestato realmente ma “al nero” da extracomunitari.
Problema che, specie in Capitanata, è tristemente diffuso e strettamente connesso a rilevanti interessi economici, non soltanto collegati all’attività agricola in sé, bensì rivolti specialmente all’ottenimento, anche indebito, di prestazioni a carattere previdenziale ed, in particolare modo, della indennità di disoccupazione.
Tale fenomeno esiste ancora ed è, appunto, molto diffuso.
Per quanto riguarda i risvolti dello sfruttamento del lavoro nero in agricoltura sul contenzioso in materia di lavoro, il problema si percepisce sotto il profilo di un assordante silenzio; si potrebbe parlare di questione dell’assenza.
Sono infatti pochissime le cause rivolte all’accertamento del lavoro in nero ed al conseguente consolidamento del rapporto di lavoro.
Rispetto al correlativo contenzioso previdenziale volto alla percezione di indennità, stiamo parlando di proporzioni del tipo di 1 a 1.000.
Perché così poche cause di lavoro relative al fenomeno in esame?
Intanto, c’è da evidenziare una difficoltà di tipo processuale, comune a tutte le cause di lavoro in nero, consistente nel dimostrare di avere svolto, appunto, attività lavorativa non regolarizzata.
Il ricorrente in questo caso è tenuto a dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti fondanti il rapporto di lavoro: la continuità della prestazione, la eterodirezione di questa da parte del datore di lavoro e, infine, la funzionalità della prestazione stessa ad un principale interesse economico del datore di lavoro.
A ciò deve poi aggiungersi che, trattandosi di lavoro stagionale, si tratta di rapporti di lavoro a tempo determinato limitato ad alcune giornate di lavoro per anno ed, inoltre, di regola, il lavoro agricolo si svolge mediante il ricorso ad attività distinte a seconda del tipo di raccolta, distribuite tra squadre di quattro o cinque persone ognuna, dalla composizione continuamente variabile ed applicate in aree di lavoro anche molto estese, lontane tra di loro.
Tutte queste circostanze di fatto devono ovviamente essere provate in giudizio, non potendosi il Giudice accontentare del semplice fatto notorio e, pertanto, i ricorrenti scontano le difficoltà di rinvenire mezzi di prova adeguati a sostenere la propria domanda.
In particolare, di regola, avviene che, mentre i testimoni del ricorrente hanno, a loro volta, presentato analoghe cause, risultando così portatori di interessi comuni ed, in qualche misura, meno attendibili, il datore di lavoro, invece, indica generalmente i pochi dipendenti impiegati da anni ed a tempo indeterminato che sono in grado, pertanto, di rappresentare in maniera più ampia e completa l’intera organizzazione aziendale del datore.
La seconda ragione che spiega il fenomeno è da rinvenirsi proprio nel ricorso notevolissimo a manodopera extra-comunitaria e senza permesso di soggiorno che, per effetto della normativa anche penalistica di settore, sicuramente disincentiva fortemente i lavoratori dal proporre una qualunque azione giudiziale, temendo prima di tutto i rischi sul piano penale cui andrebbero incontro.
Passando ad altro profilo della questione, ci si imbatte ancora in un’analisi dell’assenza.
Stupisce e va interpretata la totale mancanza di azioni giudiziarie collettive, anche attraverso lo strumento dell’art.28 dello Statuto dei Lavoratori.
Si tratta di un aspetto sul quale le organizzazioni sindacali potrebbero e dovrebbero riflettere.
A fronte di un fenomeno di tale impatto quantitativo, i sindacati non hanno avuto alcuna penetrazione, non si avvicinano al problema né sotto un profilo oggettivo né soggettivo.
Eppure tanti sarebbero i profili di carattere collettivo che potrebbero essere attivati e tutelati attraverso la tutela sindacale.
Infine, un ultimo appunto sugli aspetti giuslavoristici merita di essere dedicato con riguardo all’attività che lo Stato appronta o dovrebbe garantire sul piano della c.d. riemersione del lavoro in nero.
Sul punto, si può ritenere che di leggi ve ne siano già a sufficienza.
Forse gli sforzi maggiori andrebbero concentrati sul piano amministrativo mediante accertamenti mirati e precisi, laddove, invece, appare che la DPL intervenga sporadicamente e limitatamente a singole ed isolate violazioni, mentre l’Inps agisce, tuttavia, con diverse finalità, in particolar modo di recupero contributivo.
E’ evidente che su questo piano, più ancora di quello penalistico, si potrebbero ottenere enormi risultati in chiave di tutela dei lavoratori effettivamente impiegati nel lavoro agricolo, soprattutto mediante il ricorso a sanzioni di carattere pecuniario o prettamente amministrativo, quali l’inibizione della possibilità di partecipare a gare pubbliche per l’erogazione di finanziamenti pubblici o la stessa registrazione nell’albo delle imprese operanti nel settore agricolo.
E dal profilo della assenza di contenzioso, che delinea vuoti di tutela del lavoratore irregolare soprattutto se extracomunitario, passiamo agli aspetti nei quali si registra invece la moltiplicazione esponenziale dei giudizi.
Ecco, a fronte di tali difficoltà sul piano processuale che giustificano un così ridotto ricorso alla tutela giurisdizionale per l’accertamento del lavoro svolto irregolarmente, le domande volte all’ottenimento delle prestazioni previdenziali collegate al riconoscimento di giornate di lavoro agricolo proliferano in maniera smisurata ed ininterrotta.
Ciò è dovuto, invece, alla relativa facilità del meccanismo con cui è prevista l’erogazione delle prestazioni indennitarie da parte dell’Inps.
Infatti, senza entrare nei particolari ma richiamando il meccanismo per sommi capi, occorre, innanzitutto, spiegare che qualsiasi prestazione previdenziale in ambito agricolo presuppone l’iscrizione del lavoratore in appositi elenchi nominativi che vengono pubblicati annualmente dall’Inps e che si distinguono per Comuni di residenza dei lavoratori elencati ed indicano per ognuno di loro le giornate di lavoro riconosciute ai fini previdenziali.
Poi, a seconda delle giornate effettivamente rese è possibile richiedere l’indennità di disoccupazione o gli ANF, ovvero entrambe le prestazioni ma anche le ulteriori indennità di malattia, di maternità o di congedo parentale.
Si tenga conto, per comprendere la rilevanza di tali indennità, che ogni lavoratore iscritto in questi elenchi ed in possesso dei requisiti più avanti elencati, può ottenere complessivamente ogni anno per cui risulta iscritto una somma variabile tra i 1.700 e gli 8.000 euro circa, a seconda anche del carico familiare.
E’ evidente che si tratta comunque di somme rilevanti ed ambite, tanto più se ottenute senza particolari aggravi e spesso anche indebitamente.
Limitandosi all’indicazione dei presupposti necessari per ottenere la prestazione per così dire ordinaria, cioè quella di disoccupazione agricola, basta osservare che è sufficiente dimostrare i seguenti requisiti:
- anzianità assicurativa di 2 anni (compreso quello per cui è richiesta l’indennità) come operaio agricolo a tempo determinato;
- conseguimento nell’anno per il quale è richiesta l’indennità e nell’anno precedente di un accredito complessivo di almeno 102 contributi giornalieri. Inoltre, per gli operai a tempo determinato deve essere stato accreditato almeno un contributo settimanale al 1° gennaio antecedente a quello per cui viene richiesta la prestazione o in qualsiasi altro anno precedente.
La sussistenza del requisito assicurativo può essere dimostrata con l’iscrizione, appunto, negli elenchi nominativi o con il certificato provvisorio di iscrizione di cui all’art. 4 D. Lgs. 212/1946.
La redazione di tali elenchi è demandata agli Uffici provinciali dell’Inps che però a loro volta – e qui sta, ad avviso di chi scrive, il primo problema – almeno, nella prima fase di redazione, provvedono a tale iscrizione sulla base di una mera denuncia della prestazione di lavoro proveniente dal datore di lavoro, senza alcuna verifica preventiva dell’effettività della prestazione lavorativa.
Cioè, praticamente, basta che chiunque registri l’apertura di una azienda agricola per potere poi ogni anno mandare un’autocertificazione nella quale indica i lavoratori assunti e le relative giornate di lavoro a cui ha (o avrebbe) fatto ricorso per la coltivazione dei campi in uso presso la propria azienda.
Di regola, solo successivamente alla pubblicazione di tali elenchi, l’Inps avvia la procedura di verifica e di controllo dei dati mediante gli accertamenti ispettivi.
Se poi rinviene irregolarità di vario tipo, allora provvede alla relativa cancellazione o al riconoscimento solo parziale di alcune giornate di lavoro.
Il secondo problema si rinviene, invece, proprio nella struttura stessa dell’indennità, in un aspetto che la rende notevolmente diversa da quella erogata a favore di tutte le altre categorie di lavoro.
Si fa riferimento alla circostanza che l’indennità agricola è destinata a compensare gli assicurati per una disoccupazione già decorsa e viene corrisposta in riferimento all’anno precedente a quello di presentazione della domanda amministrativa; mentre, di regola, tutti gli altri tipi di indennità riguardano uno stato di disoccupazione futuro e successivo alla presentazione della domanda.
Strettamente connesso a questa circostanza vi è un altro dato peculiare.
Cioè, il trattamento dell’indennità di disoccupazione agricola non risulta essere subordinato – come è, invece, negli altri casi – alla dichiarazione del disoccupato di immediata disponibilità al lavoro o ad un percorso di riqualificazione professionale, di cui all’art. 19 L.2/2009.
Si tratta di una disposizione che prevede il venire meno del diritto a qualsiasi erogazione di carattere retributivo o previdenziale a carico del datore di lavoro, fatti salvi i diritti già maturati, in caso di rifiuto della sottoscrizione da parte del lavoratore del patto di servizio.
Tale aspetto è assolutamente coerente con la struttura suindicata.
Infatti, mentre si può dire che le ipotesi per cui è stata introdotta tale previsione siano dei veri e propri ammortizzatori sociali in senso stretto, intesi nel senso di un diritto del lavoro sempre più orientato verso i modelli olandese o scandinavo della flexsecurity, le prestazioni previdenziali agricole sono, invece, delle forme di sostentamento assistenziale, forse nella sua accezione più negativa, cioè quella del tutto avulsa da un sistema economico produttivo o da un comportamento positivo ed attivo dell’assistito.
Ed in sintesi, alla luce di quanto detto, sostanzialmente è sufficiente che l’interessato formuli una mera dichiarazione di aver lavorato 102 giornate per poter automaticamente ricevere dall’Inps una indennità tra i 1.700 e gli 8.000 €!
A questo punto dovrebbe risultare anche più agevole comprendere perché sia tanto conveniente sul piano economico lo sfruttamento di manodopera extra-comunitaria.
Infatti, può capitare che chi denuncia le giornate di lavoro sia in realtà il titolare di un’azienda fantasma oppure il prestanome del vero titolare di un’azienda realmente esistente.
In questi casi, non avendo nulla da perdere, il fittizio datore di lavoro ottiene due risultati: quello di evasione contributiva perché entrambi i soggetti, di regola, sono nullatenenti; e quello della truffa ai danni dello stato perché a quel punto il dichiarante può denunciare quante giornate di lavoro ritiene e nella misura più credibile, indicando all’Inps -come lavoratori agricoli - soggetti che non hanno in realtà lavorato ma che beneficeranno delle conseguenze economiche della denuncia.
Si determina quindi un meccanismo chiuso, espressione del peggiore consociativismo: il fittizio datore di lavoro non potrà mai essere costretto al versamento contributivo per strutturale insolvibilità ed il fittizio lavoratore agricolo potrà godere delle indennità senza aver lavorato.
Il risultato intuibile ed immediato è, peraltro, anche l’alterazione dell’equilibrio previdenziale di tendenziale corrispondenza tra contributi incamerati dall’Inps ed erogazioni effettuate in favore dei lavoratori.
Può, poi, capitare che il titolare effettivo di un’azienda attiva ed operativa, più per ragioni legate prevalentemente ai propri volumi di affari, non trovi conveniente l’evasione contributiva, ma allora in questo caso il vantaggio lo si può recuperare sfruttando, appunto, la manodopera agricola da parte di lavoratori extra-comunitari, privi di permesso di soggiorno.
Infatti, da una parte, i lavoratori extracomunitari vengono retribuiti notevolmente meno di quanto dovuto secondo le tabelle previste dalla contrattazione collettiva, recuperando sostanzialmente il vantaggio derivante dall’evasione contributiva; dall’altra, invece, il fatto che tali lavoratori siano per lo più privi di permesso soggiorno e, quindi, difficilmente promuoveranno mai alcuna domanda amministrativa o giudiziale, fa sì che il datore di lavoro si ritrovi con tante giornate di lavoro da denunciare a fini previdenziali e da imputare, di nuovo, a tutti i suoi “consociati”.
In sostanza i lavoratori extracomunitari lavoreranno realmente e saranno sottopagati; le giornate rese dagli stessi verranno però denunciate come svolte da lavoratori fittizi, i quali otterranno senza alcun titolo le indennità pubbliche.
Ovviamente e per fortuna, la sintesi offerta non si riferisce a tutte le realtà agricole presenti sul territorio.
Ve ne sono tante che operano nel rispetto delle regole e riescono comunque ad essere competitive nel settore.
Tuttavia, l’anomalia a cui si è fatto riferimento è un fenomeno comunque troppo diffuso in questo territorio ed arcinoto da tempo immemore.
Sarebbe forse opportuno colpire il problema puntando proprio verso il centro della questione economica ed immaginare, quindi, se non di prevedere addirittura l’abrogazione stessa di queste forme di previdenza, almeno di rivederne i caratteri strutturali essenziali, rendendo, ad esempio, più complesso il sistema iniziale di riconoscimento delle giornate.
In questo modo la disparità tra vantaggi e rischi, forse, si assottiglierebbe ed è chiaro che questo si porrebbe come rimedio preventivo, anziché punitivo. In prospettiva – aderendo ad una concezione liberale dello Stato e del suo intervento - tale strada risulterebbe, peraltro, più efficiente rispetto a quella sanzionatoria, in quanto colpirebbe il problema a monte, prevenendo che possa svilupparsi tutta la catena di abusi fin qui rappresentati.
-----------------
*Il testo riproduce l'intervento svolto nel convegno organizzato a Foggia da MD ed ASGI