“Che cosa è per noi la legge”?
Questa domanda – con la quale Socrate apre il dialogo del “Minosse” e che, per taluno, segna l’inizio della filosofia del diritto – riassume il senso delle riflessioni contenute nel libro “Elogio del diritto”, ad opera di due autorevoli studiosi.
La questione della legge ingiusta, il rapporto tra kratos ed ethos, tra dike e bia: sono, questi, interrogativi cruciali, che hanno attraversato tutta la nostra civiltà a cominciare dal mondo greco.
Il libro trae titolo da un saggio (Praise of law) di Werner Jaeger, grande filologo classico e grecista del secolo scorso, apparso nel 1947 tra gli Studi in onore del grande giurista statunitense Nathan Roscoe Pound.
Tradotto in francese da Jacqueline Prieur nel 1949, come Eloge de la loi, fu pubblicato in italiano da Edoardo Ruffini Avondo sulla Rivista Italiana per le scienze giuridiche (1948), con il titolo Elogio del diritto.
Il saggio dell’autore tedesco occupa la prima parte del volume ed è inteso a dimostrare come la tendenza prevalente del pensiero giuridico greco sia stata quella di “riferire il diritto all’essere”, di ricondurlo, cioè, all’unità obiettiva del mondo come kosmos, ovvero come ordine permanente ontologico delle cose che è, allo stesso tempo, ideale di tutti i valori e fondamento della vita e della libertà umana.
Jaeger, sin dalle prime pagine del suo scritto, mette bene in evidenza come i Greci hanno intensamente speculato sulla natura del diritto e della giustizia, assai prima di creare una filosofia del diritto nel significato nostro del termine.
Sin dai poemi omerici emerge una fede inconcussa nella giustizia come fondamento di ogni più alta forma della vita umana. Nel pensiero di Omero, infatti, “dike” era la linea di demarcazione tra la barbarie e la civiltà.
Dalle pagine dell’Aedo si trae che, ovunque la giustizia regni, l’uomo poggia su un terreno fermo e gode di piena sicurezza e protezione sulle persone e nella proprietà; egli è sicuro, persino, come forestiero in terra straniera.
I poemi epici di Esiodo mostrano un diverso grado di sviluppo. Infatti, il concetto omerico del diritto (“themis”) cede gradualmente il posto al termine favorito di Esiodo, (“dike”); in altre parole, si passa gradualmente da concezione autoritaria verso una concezione razionale del diritto, nella quale assume rilievo il fattore di uguaglianza e di obbligazione reciproca.
Nella concezione della giustizia di Solone c’è, poi, la coscienza di un necessario nesso di causa ed effetto tra i fenomeni sociali. Esso corrisponde al principio di causalità che i filosofi naturalisti ionii scoprirono nei fenomeni cosmici. La giustizia è, nel significato solonico, la salute della comunità.
Questo collegamento tra “giustizia” e “salute” è frequente anche nei libri della collezione di Ippocrate, nei quali si mette in evidenza che la stessa giustizia – proclamata dai filosofi come il principio del “kosmos” – regola la vita organica del corpo umano.
Con Parmenide ed Eraclito il discorso relativo alla “legge” e alla “giustizia” è collegato al concetto di “essere” e ai principi regolatori della vita dell’Universo.
“Se il sole abbandonasse il suo corso – dice Eraclito – le Erinni, Ministre della Giustizia, saprebbero come ritrovarlo”.
Il pensiero intorno alla giustizia e al diritto nella letteratura greca conosce un’ulteriore elaborazione con il sorgere della nuova polis, che prese la sua forma caratteristica durante il settimo ed il sesto secolo, e culminò nella democrazia ateniese del quinto secolo.
Nell’età eroica della democrazia ateniese, infatti, si parla di “isonomia”, come supremo ideale, cioè di un ordine sociale basato sull’uguaglianza di fronte alla legge.
Il filosofo che affronta le questioni legate alla giustizia e al diritto su più vasta scala e che, nuovamente, lo considera in relazione all’intero problema della natura della realtà come tale è Platone. Egli, nell’età di crescente soggettivismo in cui vive, ristabilisce l’originale idea greca che la giustizia sia l’espressione della norma inerente alla stessa natura. La legge è pensiero ragionato (logismos), il quale è diventato dogma poleos, ossia è stato sancito dalla città. La legge è, secondo il filosofo, la verità su ciò che realmente è con riguardo all’Amministrazione dello Stato (aletheia tou ontos).
L’idea di fondo che caratterizza il saggio iniziale è che la concezione del diritto riferito all’essere – rispetto alla quale si discostano i sofisti, i quali affermano, invece, il carattere e l’origine subbiettiva della legge ed assumono un atteggiamento pragmatistico nei confronti della sua validità – si pone alla base della tradizione giuridica occidentale.
Allo scritto di Jaeger seguono le riflessioni di Massimo Cacciari e di Natalino Irti.
Il primo, riallacciandosi alle riflessioni dell’insigne grecista, evidenzia l’origine divina di “Dike” secondo la mitologia greca.
Dalla Teogonia di Esiodo si apprende, infatti, che Dike è, infatti, figlia di Zeus e della sua seconda moglie, Themis (il cui nome, etimologicamente, etimologia riconduce all’ordine cosmico e religioso).
In questo senso, Themis andrebbe considerata come archè o principio della stessa “dike”.
Dike esprime Themis affinchè questa si faccia comprensibile ai mortali.
Zeus realizza Themis, distinguendosi, per ciò stesso, dalla archè di quest’ultima.
Il Nomos è tale solo se si incardina in Dike e Themis; altrimenti nessuna forza legittima lo salverà, poiché in sé stesso è mero fatto, accidente, potere occasionale.
A questo punto irrompe in tutta la sua energia rivoluzionaria la riflessione e discussione filosofica: la possibilità di concepire la dimensione Themis-Dike, ad un tempo, come trascendente l’ambito determinato sia territorialmente che eticamente dai nomoi e, tuttavia, insieme costitutivo della loro forma e del loro valore.
Questo è “il problema” che la ragione soltanto è chiamata a porre e risolvere.
L’amore per dire il vero (Aletheia) rappresenta la sola mediazione concepibile tra Themis e i nomoi.
Dicendo il vero, il mortale giunge a farsi immagine della Dike, la quale ha, nell’indicare Themis la sua ragione di essere. Porre i nomoi della città, dunque, deve diventare operazione che si svolge nella timè di Aletheia.
Per Cacciari, dunque, il rapporto tra Dike, Nomos e Aletheia diventa quello decisivo.
Chiudono il volume le acute riflessioni di Natalino Irti sul destino di Nomos; riflessioni che conducono il lettore a spostare il fuoco dell’attenzione dall’antichità all’oggi.
Il giurista prende le mosse dalle conclusioni di Jaeger sul disintegrarsi della base ontologica del pensiero giuridico ellenico. Come si è accennato, infatti, il pensiero sofistico spezza il rapporto tra “diritto” ed “essere”, sicchè la legge “sembra divenire una mera funzione del potere”. La veritas cede il passo all’auctoritas del facitore di leggi.
Ed è proprio nella autonomia – e cioè il darsi regola da se stessi – che viene colta l’autentica eredità lasciata dalla Sofistica greca alle moderne concezioni del diritto.
Nella grave e solenne parola il nomos si congiunge all’autos: non più legge cosmica che governa il mondo, ma norma dettata da uomini ad altri uomini.
La pretesa della legittimità è di ricondurre ad unità phusis e nomos, di ricomporre il kosmos antico, costruito su princìpi comuni. La pretesa della legalità, invece, è di fondarsi soltanto su se stessa, o facendosi del tutto estranea alla naturalità o riducendo anche quest’ultima alla misura umana delle cose.
La storia europea ha conosciuto i duri conflitti tra legittimità e legalità e il rinascere del diritto naturale ed il racchiudersi dello Stato in se stesso.
Il carattere procedurale del diritto moderno supera i dualismi, dissolve la legittimità in legalità, identifica l’una con l’altra. Lo Stato di diritto è lo Stato delle leggi e le leggi, come tali, sono di per sé legittime.
Legalità e legittimità convivono all’interno di un dato sistema che si riconosce in un unico ed esclusivo inizio: la Grundnorm.
Così si compie la dissoluzione di Dike nel contenuto di norme o fermamente difese o combattute con asprezza.
Il fenomeno è assai bene descritto da Nietzsche: “Nessuno sentirà verso una legge altro obbligo che quello di inchinarsi per il momento al potere che avrà introdotto la legge, per poi subito rivolgersi a minarla con un nuovo potere, con una maggioranza di nuova formazione” (aforisma 472 di “Umano, troppo umano”).
Nei giorni nostri questa dissoluzione raggiunge il grado estremo. La idoneità tecnica si innalza a principio unificante di innumerevoli “disposizioni”, “regolamenti”, “direttive”. Al modo stesso in cui lo Stato moderno si fece “ab-solutus”, sciogliendosi da vincoli cosmici e religiosi, così l’economia mira a incondizionata “assolutezza”; stabilisce la propria giustizia; genera le proprie norme, capaci tutte di garantire nel tempo lo scopo del più alto profitto.
Non c’è nel mondo moderno – annota il giurista – una veritas capace di dar ragione delle singole norme e di offrirne giustificazione. La connessione del “diritto” con l’ “essere”, il vincolo oggettivo e necessario della verità non appartengono più al nostro tempo, tutto raccolto ed esaurito nella scelta del singolo individuo e nel controllo di validità formale. Gli studi di legge si risolvono in “analisi economica”; la “giustizia” in valutazione comparativa di vantaggi e svantaggi. La scienza giuridica, che dall’antica saggezza greca si era venuta trasformando in dogmatica, cioè in studio concettuale e classificatorio di norme positive, cade in “analisi economica”, in misura di costi e benefici dell’una o dell’altra decisione normativa.
Sulle ceneri del Nomos dell’antichità ellenica, simbolo di legalità cosmica, nascono i nuovi nomoi della tecno-economia e della politica: i primi evocano la vastità planetaria del produrre-scambiare-consumare e la crudele concorrenza tra le imprese; i secondi, invece, parlano di definizione dei territori, vincolo di ciascun individuo al proprio luogo, lotte tra ideologie e fedi.
Il libro si conclude con le amare considerazioni di Irti sul destino di Nomos nei tempi moderni, segnati dal duro conflitto tra i nomoi delle forze economiche e i nomoi delle forze politiche. Tramontata definitivamente l’idea del nomos basileus, l’individuo assiste inerme allo scontro tra i nomoi, protagonisti del cosiddetto “politeismo giuridico” e si trova nella necessità di scegliere per l’uno o per l’altro dei contendenti. In interiore homine habitat jus.
Si tratta, però, di una scelta assai difficile e, comunque, destinata a rimanere inappagante per una ragione ineludibile. I grandi giuristi, come Giuseppe Capograssi, ci insegnano, infatti, con interiore angoscia, che intorno all’idea di giustizia il nomos della terra può solo balbettare.