Vi sono, nel mondo della giustizia, alcune zone nelle quali i giuristi di rango – quelli che sono soliti interrogarsi sulle grandi questioni di diritto e sui principi fondamentali dell’ordinamento – sembrano addentrarsi un po’ malvolentieri. Si direbbero zone meno illuminate, in cui la pratica pare destinata a prevalere sulla teoria, quasi vi si trattassero vicende di minore importanza delle quali perciò ci si occupa saltuariamente, quando non può farsene a meno, lasciandone altrimenti la cura solo ad alcuni specialisti del settore. Mi riferisco alla giustizia tributaria ed a quella onoraria. Ma davvero possono dirsi figlie entrambe di un dio minore? Non credo sia così, o almeno non dovrebbe esserlo, e perciò abbiamo deciso di dedicare ad esse questo numero della Rivista.
Parliamo, ben s’intende, di due realtà assai diverse l’una dall’altra, che operano in campi affatto distinti e che sono affette da problemi assai differenti; ma qualcosa le accomuna, oltre alla già accennata sottovalutazione di cui sono fatte oggetto: la loro collocazione, per così dire, ai margini della giustizia togata. Con quest’ultima hanno però entrambe un forte legame, e la loro incidenza sul tessuto sociale riveste un’importanza tutt’altro che marginale. Vale dunque la pena di occuparsene, tanto più in un momento, come l’attuale, in cui sia per l’una sia per l’altra si profilano novità: giacché la giustizia onoraria si accinge ad essere rimodellata secondo i criteri indicati dalla legge delega del 28 aprile 2016, n. 57, ed anche per la giustizia tributaria si annunciano venti di cambiamento a seguito della presentazione alla Camera dei deputati del disegno di legge n. 3734, a firma dell’on. Ermini ed altri, intitolato «Delega al Governo per la soppressione delle commissioni tributarie provinciali e regionali e per l'istituzione di sezioni specializzate tributarie presso i tribunali ordinari».
Che la giustizia tributaria tocchi un ganglio vitale della società e dello Stato, giacché investe uno dei fondamenti stessi dell’assetto democratico di una comunità, dovrebbe esser cosa a tal punto ovvia da non richiedere dimostrazione alcuna. Basterebbe forse ricordare che, com’è noto, proprio sul terreno di una rivendicazioni di giustizia tributaria – no taxation without representation, nessuna tassa senza rappresentanza – prese avvio nel diciottesimo secolo la rivoluzione dei coloni britannici che diede vita, nel nuovo continente, agli Stati uniti d’America; e che quella rivendicazione, a propria volta, si richiamava (più o meno fondatamente) ad un ben più antico principio, stabilito nella Magna Charta Libertatum sin dal secolo tredicesimo, volto a porre limiti al potere impositivo del sovrano inglese in difetto di una deliberazione del Consiglio del Regno.
Il rapporto tributario contribuisce in modo decisivo a configurare il tipo di relazione che intercorre tra il cittadino e lo Stato. In antico il sovrano attingeva principalmente dal proprio stesso patrimonio i mezzi economici necessari all’esercizio del suo potere, oltre che dalle “regalie” che i sudditi erano obbligati a prestare e dalle contribuzioni che di volta in volta venivano loro richieste, in occasioni di guerre o altre esigenze di carattere straordinario, senza che vi fosse un sistema d’imposte regolari e predeterminate. L’esigenza di un tale sistema si manifesta con la nascita dello Stato di diritto, nel quale alla relazione di sudditanza si sostituisce la nozione di cittadinanza, che postula la partecipazione di tutti i cittadini al dovere di contribuire alle spese occorrenti per il funzionamento della cosa pubblica proprio in quanto è pubblica, cioè di tutti, e perché la sovranità appartiene al popolo. È però inevitabilmente dalla maggiore o minor misura in cui questa contribuzione risponde a criteri di equità e di giustizia, come tali percepiti dai cittadini, che in larga parte dipende il modo nel quale il rapporto tributario viene comunemente inteso: come espressione di partecipazione alle esigenze della comunità cui si appartiene, o invece ancora una volta come mera soggezione ad uno Stato, novello Leviatano, avvertito come estraneo o addirittura ostile. Ed è evidente che tutto questo ha a che fare con il funzionamento della giustizia tributaria, la quale è appunto deputata a fungere da garante di ultima istanza della legalità e dell’equità del sistema impositivo.
Quando, alcuni anni fa, un illuminato ministro della Repubblica, il compianto Tommaso Padoa Schioppa, ebbe pubblicamente a dire (forse un po’ ingenuamente) che «pagare le tasse è bello», fu subito oggetto di malevole sarcasmo. Credo che egli intendesse semplicemente sottolineare, con quella frase, come il contribuire agli oneri economici occorrenti al mantenimento della cosa pubblica esprima al massimo grado il senso civico degli appartenenti ad una comunità, e come ciò valga perciò a soddisfare quell’esigenza di partecipazione che è a fondamento di ogni società umana. Ma, perché ciò possa davvero accadere, bisogna che il pagare le tasse sia prima di tutto “giusto”: solo così potrà essere anche avvertito come “bello” dai cittadini. Ed è appunto perciò che la giustizia tributaria, lungi dal collocarsi in una zona d’ombra dell’ordinamento, dovrebbe esser considerata una delle aree più importanti della giurisdizione.
Ma così non è. L’insoddisfazione per il funzionamento della giustizia tributaria in Italia è assai diffusa, e gli scritti ospitati da questo numero della Rivista ne spiegano ampiamente le ragioni, a cominciare dall’incerto fondamento costituzionale del sistema incentrato sulle commissioni tributarie e dal fatto che l’amministrazione ne è affidata a magistrati che vi si dedicano solo part-time. In un periodo storico che sembra voler fare delle riforme la propria parola d’ordine, ci si potrebbe allora attendere – e si dovrebbe auspicare – che la riforma della giustizia tributaria sia tra i primi posti, appunto per l’importanza strategica che riveste nel modo di essere della relazione tra il cittadino e lo Stato. Si è soliti deplorare lo scarso senso civico degli italiani, ed è indubbio che il modo in cui i cittadini si rapportano alla cosa pubblica esprime anzitutto un atteggiamento culturale, non facile da modificare nel breve periodo. Proprio per questa ragione, tuttavia, perché il rapporto tributario riveste un’importanza decisiva nell’elaborazione del senso civico, che alla lunga costituisce il collante di una società democraticamente organizzata, sarebbe necessario porre mano con lungimiranza alla riforma organica della giustizia tributaria, assegnandole un alto grado di priorità e coniugando – vuoi che si scelga di ricondurre integralmente questo ramo della giurisdizione nell’alveo della giurisdizione ordinaria (come un corretto approccio costituzionale suggerirebbe), vuoi che si opti per una giurisdizione speciale del tipo di quella amministrativa o contabile (previo un eventuale intervento di modifica costituzionale) – l’indubbia esigenza di specializzazione dei giudici con la loro destinazione ad occuparsi a tempo pieno di una materia la cui complessità tecnica assolutamente lo richiede.
Il disegno di legge cui sopra si faceva cenno presenta luci ed ombre (come nelle pagine seguenti meglio di potrà vedere), ma almeno può apprezzarsi come una manifestazione d’intenti del legislatore in questa direzione. Resterà da capire se, in una stagione politica in cui i disegni di legge d’iniziativa parlamentare spesso segnano il passo, si vorrà poi davvero proseguire con determinazione lungo questo cammino.
La riforma della giustizia onoraria si trova già un passo più avanti, poiché la recente legge del 28 marzo 2016, n. 57, ne ha prefigurato i lineamenti principali delegando il Governo ad emanare disposizioni organiche concernenti appunto l’assetto della magistratura onoraria e le disposizioni sui giudici di pace. Il successivo d.lgs 31 maggio 2016, n. 92, ha provveduto a disciplinare la sezione autonoma dei Consigli giudiziari per i magistrati onorari ed ha dettato disposizioni per la conferma nell'incarico dei giudici di pace, dei giudici onorari di tribunale e dei vice procuratori onorari in servizio.
All’esame critico di quanto previsto nella delega e della sua parziale già avvenuta attuazione sono dedicati alcuni degli scritti di questo numero. Qui mi preme mettere in risalto l’importanza crescente che la figura del giudice onorario sta assumendo nell’esercizio della funzione giurisdizionale, e come perciò le sue caratteristiche strutturali ed il modo del suo funzionamento non poco concorrano (al pari di quanto s’è detto per la giustizia tributaria) a condizionale il rapporto di fiducia (o sfiducia) dei cittadini nei confronti del mondo della giustizia.
Benché abbia radici antiche, da molte parti la giurisdizione affidata a magistrati non togati è stata vista, specie dopo l’istituzione del giudice di pace, con molta diffidenza, se non con aperta ostilità. È però un fatto incontestabile, comunque si voglia giudicare il fenomeno, che l’esercizio della giurisdizione è oggi assicurato dai magistrati onorari in misura tutt’altro che irrisoria, giacché allo stato sono in servizio circa 1.500 giudici di pace ed oltre 4.800 tra giudici onorari di tribunale e vice procuratori onorari. Se è vero che essi non hanno superato il vaglio severo del pubblico concorso mediante il quale si accede ai ranghi della magistratura togata, non può esser dimenticato che i magistrati onorari sono, nondimeno, a pieno titolo partecipi dell’ordinamento giudiziario, in forza dell’art. 106, secondo comma, dalla Costituzione che espressamente ne ammette la nomina «per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli», oltre che dell’art. 102, secondo comma, che consente la partecipazione alle sezioni specializzate degli organi giudiziari ordinari di «cittadini idonei estranei alla magistratura», la cui indipendenza deve essere assicurata dalla legge in base a quanto espressamente stabilito dal successivo art. 108, secondo comma.
È però legittimo dubitare che l’attuale realtà della magistratura onoraria davvero corrisponda al modello immaginato dai costituenti. Alla figura di un magistrato capace di esercitare forme di giurisdizione più facilmente accessibili ed, in certo senso, più vicine alle esigenze quotidiane dei comuni cittadini (un giudice, per così dire, di prossimità), si è andata sovrapponendo quella di un giudice “precario”, dall’incerta fisionomia semiprofessionale, votato più a compiti di supplenza che non d’integrazione ed ampliamento della sfera della tutela giurisdizionale. E mi pare qui doveroso – sperando mi si voglia perdonare la lunghezza della citazione – riportare quanto su questa stessa Rivista già molti anni fa scrivevano Gianfranco Gilardi, Claudio Viazzi e l’indimenticato Sergio Mattone, deplorando la «concezione tradizionale per cui le funzioni da affidare ai magistrati onorari sono essenzialmente rivolte al decongestionamento del carico di lavoro dei giudici togati»; e si auguravano che fosse presto superata l’impostazione «per la quale ai magistrati onorari si è continuato a far ricorso non per arricchire in senso pluralistico la giurisdizione con l’apporto di esperienze e sensibilità esterne al circuito della magistratura togata, quanto invece in funzione sostitutiva e di soccorso rispetto ai compiti propri di quest’ultima», invitando a guardare verso forme di giustizia conciliativa e ripartiva, che avrebbero dovuto esser favorite in questo ambito da una maggiore deformalizzazione del rito in cui l’equità troverebbe più spazio «come criterio di soluzione conciliativa del conflitto» (I magistrati senza toga, in questa Rivista, 2003, 747 ss., Franco Angeli ed.).
Non mi pare si stia andando in questa direzione. Speriamo almeno di non allontanarcene ulteriormente troppo.