“Vedrai gli antichi spiriti dolenti /
che la seconda morte ciascun grida”
(Inferno, I, 117)
“L’esecuzione della pena detentiva è la consumazione di un
tempo stabilito: al suo termine c’è un tempo irrevocabilmente
usato, per nulla che non sia il suo passare."
(A. Margara, in Questione Giustizia, 2000, p. 403)
" ... il vuoto che è la cella: una capsula spaziale... una sfera
lanciata nello spazio. Specie la notte, specie quando piove, la
cella è un piccolo mondo perduto che rotola via nel nulla. Appena
oltre il muro si spalancano distanze irreali, fantastiche, e l’unica
geografia è quella che il cuore continuamente disegna ai suoi
movimenti."
(E. Fenzi, "Armi e bagagli”, Egg, 2015, p. 12)
“Nella mente e nel cuore vi sono posti che non esistono ancora.
È necessario il dolore perché possano esistere."
da Un mondo dimenticato – Poesie dal carcere di Porto Azzurro – 2008)
("... assume ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare
trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del
contesto esterno al carcere..." )
(Corte cost., sent. n. 253 / 2019)
1. L’ergastolo non è una pena come le altre, solamente più lunga. Si riesce a percepire l’ergastolo come ontologicamente diverso dalle pene detentive, anche da quelle molto lunghe, se all’aggettivo “perpetua” applicato al concetto di pena si sostituisce l’avverbio “mai”, quale scritto nella casella dove è indicato il “fine pena” del condannato. Quel “mai” significa la fine della speranza, e la speranza è necessaria per vivere, è coessenziale all’esistenza. Non si può realmente vivere senza progettare qualche realizzazione e senza proporsi qualche obiettivo che ci aiuti nella nostra ricerca di senso, e questo è reso impraticabile dal fatto che il tempo carcerario non può essere riempito da nulla che non sia il suo passare, mentre il tempo post-carcerario, cui ci si aggrappa nell’attesa che il primo abbia una fine, è annullato da quell’avverbio.
2. A seguito delle recenti decisioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della nostra Corte costituzionale, il tema dell’ergastolo è tornato di attualità, e tutto lascia prevedere che anche la legislazione, e quindi il potere politico, dovranno presto affrontarlo in un clima di aspri contrasti. Può essere utile ripercorrere a grandi linee la storia di questo istituto, con riferimento non soltanto alla sua normativa ed alla giurisprudenza in materia, che si presumono note a chi legge, ma con particolare attenzione al momento storico, e culturale nel quale le stesse sono maturate, così da assumere una conoscenza anche umana e politica dei risvolti del tema, in vista dell’imminente scontro che si profila.
3. La parola “ergastolo” deriva dalla radice greca “ergon”(azione, opera, fatto) e dal verbo “ergàzomai” (lavorare): inizialmente essa designava il luogo fisico (“ergasterium”) nel quale erano custoditi gli schiavi dopo la giornata lavorativa. Non aveva, quindi, funzione di pena, ma descriveva la semplice estensione della condizione di sudditanza nella quale erano tenuti gli schiavi, e alla schiavitù era intrinsecamente connesso.
Nell’antica Roma l’ergastolo, pur restando intrinsecamente collegato con la condizione di schiavitù, acquistò invece una fisionomia punitiva, essendo l’“ergastulum” riservato agli schiavi ribelli, ritenuti irrecuperabili, e includendo l’obbligo del lavoro, prestato in condizioni durissime, spesso mortali (“damnatio ad metalla”).
Il dato significativo, quindi, è che l’antichità non prevede una pena detentiva senza termine finale per i cittadini liberi. Come è accettato senza alcuna incertezza il concetto di schiavitù (presente senza obiezioni persino nei Vangeli), così è “evidente” che l’ergastolo, cioè una privazione della libertà usque ad supremum exitum vitae non è pensabile per l’uomo-cittadino.
Nel medio evo continua questa idea di fondo: sono previste pene sanguinose e talora anche feroci, ma persiste il concetto che la detenzione senza termine finale equivale alla schiavitù, e quindi non si applica agli uomini liberi (è significativa l’immagine dantesca [v. in esergo] delle anime dannate, che invocano una seconda morte, dopo quella corporale, proprio per l’intollerabilità di una pena senza fine). Una segregazione perpetua è prevista solo dal diritto ecclesiastico per gli eretici, gli apostati e pere altre forme di mancanza verso la fede religiosa, ma viene contemplata la possibilità di recuperare la libertà, sia pure temperata in qualche misura, per chi torna a fare professione di ortodossia. Compare quindi un’aspettativa di pentimento come possibile mitigazione della perpetuità della pena.
Il fatto che la pena detentiva perpetua non sia contemplata per i laici non deve però indurre a pensare ad una maggior mitezza di quella stagione: l’assenza di una lunga detenzione connotata dall’obbligo del lavoro si spiega anche con la mancanza di un’organizzazione statale alla quale possano essere utili dei lavoratori coatti. I due fenomeni vedranno l’alba all’incirca nello stesso contesto temporale.
Si deve comunque rilevare che la sanzione ecclesiastica è la prima forma di attenzione alla “prevenzione speciale”, cioè ad un recupero del condannato in un contesto totalmente orientato alla retribuzione ed alla dissuasione.
La stagione dei riformatori giuridici del '7-'800 invoca l’abolizione della pena capitale, e questo, indebolendo l’esemplarità della sanzione, induce a dare legittimità alla pena perpetua accompagnata dall’obbligo del lavoro, per “compensare le loro opere malvage con opere utili”: primo embrione, sia pure severo, di una giustizia riparativa, oggi al centro di molte aspettative. E uno degli argomenti spesi contro la pena di morte proviene proprio dalla pur meritoria opera di Cesare Beccaria, e fa leva sulla spiccata efficacia intimidativa della pena perpetua: “Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà che, divenuto bestia di servigio, ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. (...) Non vi è alcuno che, riflettendovi, sceglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà, per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato”[1] .
Dunque, il mai risolto intreccio tra le diverse finalità della pena può condurre all’esaltazione di una di esse (la dissuasione dal reato) anche a scapito del postulato di umanità. È notevole, ad esempio, che, nello stesso contesto storico-culturale, Benjamin Constant consideri legittima e giustificabile la pena di morte, non la schiavitù perpetua.
È solo la Rivoluzione francese, con il nuovo codice penale del 1791, ad abolire sia la pena di morte sia la pena detentiva perpetua; ma nell’800 della restaurazione, il clima torna ad essere severo, ripristinandole entrambe.
In Italia l’ergastolo è previsto dal Granducato di Toscana, dal Regno delle Due Sicilie, dalle regioni sotto l’impero austro-ungarico, dagli Estensi e dal Regno di Sardegna. Il dibattito sulla pena di morte, in verità, rimane vivo, e là dove se ne ottiene l’abrogazione, il contrappeso alla sua rimozione o anche alla sola riduzione dei casi è l’indurimento della disciplina dell’ergastolo, accompagnato da vere e proprie crudeltà penitenziarie.
Il codice penale del 1859 prevede infatti i “lavori forzati a vita”, e in particolare che i condannati siano “sottoposti alle opere più faticose, a profitto dello Stato, con le catene ai piedi e il giaciglio duro”, combinando una efficace sintesi di funzione retributiva, effetto dissuasivo e profitto per le casse pubbliche, miscelati con una certa dose di innegabile sadismo.
Con il codice Zanardelli del 1889 la pena di morte viene abolita, ma la sua soppressione deve essere compensata con sanzioni adeguate, per cui il regolamento carcerario del 1891 non solo prevede l’ergastolo, ma lo accompagna con la segregazione cellulare continua e con altre pesanti limitazioni. Si può leggere una sorta di inconfessata preoccupazione di sottrarsi a possibili critiche di eccessiva benevolenza nei riguardi del crimine, per cui ad un passo avanti sulla strada dell’umanizzazione della pena è bene si accompagni una rassicurazione sul piano della sofferenza dell’espiante: a questo ed a null’altro può corrispondere la previsione che la segregazione cellulare sia “accompagnata dall’oscurità della cella, dalle catene infisse nel muro e terminanti nei piedi del condannato, e dall’ozio del condannato”. Difficile dare torto a Michel Foucault nel suo sottolineare la libidine del tormentare attraverso la “giustizia”.
La pena di morte viene nuovamente introdotta dalla legge 25 novembre 1926, n. 2008, come reazione all’attentato nei confronti di Mussolini, e per conseguenza viene annoverata tra le sanzioni previste dal codice penale del 1930, che, in compenso (sic) spoglia l’ergastolo di “ogni inutile afflizione”, limitando l’isolamento alla funzione di pena addizionale per sanzionare anche i delitti-satellite o in continuazione. Va comunque riconosciuto che il regolamento carcerario (r.d 18 giugno 1931, n. 787) attenua in parte il trattamento riservato agli ergastolani, ma conserva non pochi residui duramente persecutori, ad esempio riducendo i loro colloqui e la loro corrispondenza. La dosimetria delle afflizioni – unico dato modulabile in una pena rigida ed esente da preoccupazioni rieducative – conserva sempre una sua attrattiva nei confronti degli architetti della penalità.
4. Si giunge alla stagione della Costituzione. Nell’imminenza della stessa, il dllgt. 10 agosto 1944, n. 224, ha soppresso la pena di morte nel codice penale sostituendola con l’ergastolo, mentre il dllgt. 14 settembre, n. 288, ha previsto la concessione di attenuanti generiche ai condannati, come strumento generale ed inedito di mitigazione generale, non giustificato da elementi specifici (le circostanze sono, appunto, generiche), ma dettato dalla consapevolezza di un carico sanzionatorio eccessivo.
I lavori dell’Assemblea costituente non dedicano particolare attenzione all’ergastolo, e persino la pena di morte sopravvive, sia pure circoscritta ai “casi previsti dalle leggi militari di guerra” (sarà soppressa radicalmente solo nel 2007 dalla legge costituzionale n. 1 del 2 ottobre).
Per tutto il primo quindicennio lo sforzo richiesto dalla ricostruzione di un Paese disastrato materialmente e moralmente sembra non consentire troppa attenzione al problema penitenziario, e le uniche voci (sia pure autorevoli) che illustrano e deplorano le condizioni carcerarie in genere sono quelle dei Padri costituenti e degli anti-fascisti in generale che hanno sperimentato le galere del fascismo (Riccardo Bauer, Vittorio Foa, Michele Giua, Massimo Mila, Giancarlo Pajetta, Sandro Pertini, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Mario Vinciguerra e altri). Costoro ne descrivono gli effetti devastanti, e invocano che ad esse si ponga fine: “A partire dal quarto o quinto anno di detenzione – scrive tra gli altri Vittorio Foa – con l’attutirsi dei ricordi di azione e col meccanizzarsi di ogni movimento, il tempo si svuota e si fa geometrico. Si ripensa il passato o ci si rappresenta il futuro come un’esteriore contemplazione, priva di legami con la volontà, ormai assente. Il tempo non si misura più dal suo contenuto di azioni e (...) riesce difficile concepire la possibilità di emenda del reo, quando la sua volontà di volere è totalmente schiacciata da un tempo esterno e fatalmente tiranno” [2]. Sono le anticipazioni di quanto la scienza medica metterà in luce molto più tardi, sull’indebolimento della visione laterale, sulla difficoltà a camminare su superfici naturali o non pavimentate, su forme particolari di scoliosi, tutte derivate dall’innaturalità della condizione carceraria a lungo protratta.
Trascorre oltre un quindicennio prima che la pena perpetua riceva un intervento legislativo che ne attenua l’irretrattabilità ed apra uno spiraglio alla speranza. Rimediati i disastri della guerra, si è aperto quello che con enfasi verrà chiamato “il miracolo economico” degli anni‘60. Il pontificato del mite Papa Giovanni XXIII (1958-1963), le nascenti spinte verso un prudente mutamento del quadro politico (1963), e un fervore dottrinario sulle funzioni della pena (in particolare le teorie sulla nuova difesa sociale) propiziano il primo intervento sulla materia specifica dell’ergastolo: la legge 25 novembre 1962, n. 1634, rende possibile applicare anche al condannato all’ergastolo il beneficio della liberazione condizionale quando abia “effettivamente scontato” almeno ventotto anni di pena, e sempre che egli non debba essere sottoposto a una misura di sicurezza detentiva. È la prima importante apertura della pena perpetua alla speranza.
Inoltre, poiché entravano nel raggio temporale di azione della riforma anche le condanne irrogate prima della fine della guerra, il condannato alla pena dell’ergastolo prima del ripristino delle attenuanti generiche ex art. 2 del dllgt. 14 settembro 1944, n. 288, poteva essere ammesso al beneficio quando avesse “effettivamente scontato” (cioè al netto di eventuale prigionia o altre vicende belliche) venticinque anni di pena. La riforma, come si vede, è molto prudente, ma riflette comunque un diversa concezione della pena detentiva alla luce del dettato costituzionale, essendo inconcepibile una prospettiva di rieducazione se la stessa non può esprimersi in una vita associata, e illogico l’impegno ad un mutamento di vita se non sorretto da una qualche prospettiva.
Non casualmente è di questi anni il primo embrione di una letteratura “dietro le sbarre”: nel 1963 esce “La traduzione” (Feltrinelli) di Silvano Ceccherini, storia scevra di retorica di un detenuto espiante da oltre vent’anni, che muore nel trasferimento da un penitenziario ad un altro.
5. La riforma dell’ordinamento penitenziario, tuttora regolato dal decreto del 1933, raccoglie un’invocazione crescente negli anni incandescenti del 1968, ma ha cionondimeno una gestazione lunga e laboriosa. I primi anni‘70 registrano turbolenze e rivolte anche sanguinose nei principali penitenziari e le cronache destinano ampio risalto ai detenuti saliti sui tetti degli istituti. Esplode un’autentica letteratura penitenziaria (fatta di memorialistica, di inchieste di vario genere, di dottrina e persino di cinematografo) che pone il carcere al centro dell’attenzione pubblica e quindi politica.
Il 1974 registra alcuni interventi della Corte costituzionale di grande significato. La sentenza 27 giugno 1974, n. 204, (è interessante notare che la stessa è sollecitata da un’eccezione che ha una data di arrivo alla Corte posteriore a quella che produrrà la decisione n. 264, la quale invece seguirà l’altra di pochi mesi, ma la n. 204 viene intenzionalmente decisa con precedenza per sostenere meglio la motivazione della seconda pronuncia) dichiara l’illegittimità dell’art. 43 delle disposizioni di attuazione del codice penale, sottraendo al Ministro della giustizia la competenza a concedere la liberazione condizionale, che viene quindi ricondotta nell’alveo della giurisdizione (competente a concederla diventa la Corte d’appello) e privata di ogni discrezionalità politica.
La sentenza, peraltro, non si segnala solamente per questo, ma anche per un’affermazione che diventerà un punto di riferimento costante nei decenni successivi: “Sulla base del precetto costituzionale [dell’art. 27, comma 3] sorge di conseguenza il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato, al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo”.
Nasce, senza clamori ma con nettezza, il concetto rivoluzionario della pena sufficiente in quanto poli-funzionale, cioè della quantità di pena (minore di quella irrogata) che, in presenza di un reale percorso di rieducazione, possa ritenersi adeguata a soddisfare la pretesa punitiva-retributiva senza nuocere all’esigenza rieducativa. Il concetto si ritroverà, qualche decennio dopo, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (v. la sentenza Vinter, qui al par. 12) là dove introdurrà l’esigenza di un riesame globale del percorso del detenuto ergastolano dopo 25 anni di reclusione, quale strumento per legittimare un suo possibile ritorno alla libertà.
Questo permette alla sentenza 22 novembre 1974, n. 264, di affrontare per la prima volta (che sarà anche l’unica, in termini globali e diretti) la questione della costituzionalità dell’ergastolo, con una motivazione ancipite e piuttosto formale. Innanzi tutto la Corte afferma che la funzione della pena non è e non può essere limitata alla sola rieducazione del condannato, molteplici essendo le sue finalità; poi, a fronte del dubbio che la perpetuità della pena possa non soddisfare la finalità riconosciuta dall’art. 27/3 Cost., supera il dubbio evidenziando la possibile “via d’uscita” offerta dalla liberazione condizionale che, giusto con la sentenza n. 204, è stata ricondotta nell’alveo della piena legalità e sottratta alla discrezionalità della politica. È una decisione inappuntabile, ma se ne coglie il disagio.
La riforma dell’ordinamento non può più attendere e vede finalmente la luce con la legge del 26 luglio 1975, n. 354: essa, peraltro, non destina alcun intervento alla materia dell’ergastolo, già mitigato dalla riforma del 1962 sulla liberazione condizionale. Va tuttavia segnalata – sebbene non pertinente in via diretta alla materia in discorso, ma densa di implicazioni anche al nostro riguardo – la prima apertura delle mura del carcere al mondo esterno, che viene ora chiamato a farsi protagonista diretto del percorso rieducativo (con l’affidamento in prova, gestito direttamente dall’area trattamentale esterna e quindi in sostanza preso in carico dalla comunità dei cittadini), ora ammesso ad esercitare una presenza di accompagnamento del detenuto all’interno delle mura, presenza che è particolarmente significativa nelle pene di lunga durata, e in primis nell’ergastolo. I frutti di questa scelta, in qualche modo rivoluzionaria, faticheranno a sbocciare, per le resistenze incontrate all’inizio, ma segneranno una svolta importante nel dialogo tra i mondi separati del carcere e della comunità esterna.
6. L’ergastolo, come si è detto, non è stato direttamente interessato dalla riforma. Tocca di nuovo alla Corte costituzionale farsi artefice di una svolta fondamentale nella materia specifica, e lo fa con la sentenza del 21 settembre 1983, n.274. In essa afferma che il beneficio della liberazione anticipata può essere applicato anche alla pena dell’ergastolo (che di per sé non ha un termine dal quale far risalire lo “sconto”) nella forma di uno scorrimento all’indietro del termine di 28 anni stabilito come soglia dopo la quale il condannato all’ergastolo può accedere alla liberazione condizionale
Passano tre anni e la legge 10 ottobre 1986, n. 663, proposta e sostenuta dal sen. Mario Gozzini, viene approvata e rappresenta un’altra pietra miliare nella nostra materia. I 28 anni di pena scontata, per poter accedere alla liberazione condizionale, diventano 26, e scompare anche l’avverbio “effettivamente”, il che permette di conteggiare anche la carcerazione conseguente ad altre condanne cumulate con l’ergastolo e parzialmente espiate in forma autonoma.
Inoltre la riforma estende ai condannati alla pena perpetua la possibilità di accedere, sia pure con requisiti specifici più severi, anche a tutti gli altri benefici, e cioè ai permessi premio, alla semilibertà ed all’ammissione al lavoro all’esterno.
Combinando l’apertura operata dalla Corte con la sopravvenuta modifica legislativa, si profila dunque un orizzonte ottimale di sedici anni per poter chiedere la semi-libertà e di circa ventuno per la liberazione condizionale, il che rappresenta una prospettiva incoraggiante, ma soprattutto scolpisce un principio di estrema efficacia all’interno della vita concreta della pena: ogni giorno di reclusione, a partire dal primo, può essere speso utilmente dal detenuto in funzione di un avvicinamento della possibile libertà, e quindi di una concreta speranza. A detta di molti che vivono ed operano all’interno delle mura, questa innovazione (già presente dal 1975, ma ora applicabile anche ai detenuti che “non hanno più nulla da perdere” e spesso si trasformano nei cd. killer delle carceri) ha rappresentato il più intelligente ed efficace sedativo delle turbolenze carcerarie.
L’ergastolo, insomma, illuminato dalla speranza di un recupero della libertà dopo un termine ragionevole (ventuno anni in caso di massima fruizione dei benefici) cessa di essere un abisso di solitudine e di disperazione.
7. È sempre aleatorio stabilire delle correlazioni tra le riforme legislative ed il clima politico circostante, e tanto più lo è rispetto alle decisioni della Corte costituzionale, ma si può ragionevolmente affermare che sia la citata sentenza n. 274/83 sugli “sconti” di pena fruibili anche dagli ergastolani, sia l’intera riforma Gozzini sono state propiziate dalla conclusione di un periodo di estrema gravità e turbamento sociale, cioè dallo sgretolamento iniziale e poi dallo spegnersi del terrorismo, con il correlativo bisogno di propiziare una sorta di pace sociale su quel fronte.
Intendiamoci, il 1981 registra anche un fatto chiaramente antitetico a quanto ora detto: il referendum promosso per invocare l’abrogazione dell’ergastolo, celebrato il 17 maggio 1981, registra una clamorosa bocciatura (il “no” ottiene il 77,4% dei voti espressi, che a loro volta rappresentano il 79,4% degli aventi diritto, percentuale trainata dal contestuale referendum sull’aborto): si tratta di una risposta così massiccia ed univoca che nessun altro referendum in materia verrà più proposto, e anche le iniziative parlamentari abortiranno ai primi passi. Ma nel 1981 siamo ancora agli albori dello spegnersi del terrorismo, appena intaccato dai primi “pentimenti” e dalle connesse collaborazioni con la giustizia: tuttavia l’effetto-valanga sarà presto vistoso e in breve la resa diventerà massiccia.
Il bisogno di pacificazione propizia la legge 18 febbraio 1987, n. 34, intitolata “Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo”, che consente di trasformare molti ergastoli in condanne a trent’anni di reclusione, con le conseguenti possibili risalite per effetto delle possibili attenuanti ex art. 62-bis cp e 54 oP; ed è quello che consente l’audacia della ricordata riforma Gozzini, i cui pilastri per lo più reggeranno anche nelle stagioni meno felici.
8. Il momento positivo ha però breve durata. Sopita, almeno in parte, l’angoscia sociale generata dal terrorismo, nasce e prende corpo quella prodotta dall’impennata della criminalità di tipo mafioso. Non che i motivi di lutto e di allarme fossero mancati in precedenza, essendo sufficiente ricordare, tra i molti, l’assassinio di Peppino Impastato (9 maggio 1978), di Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982).
Ma nella seconda metà degli anni‘80 il fenomeno acquista una tragicità sempre più inquietante, evidenziata dal noto maxi-processo di Palermo (anni 1986-88), che si conclude con una serie impressionante di condanne, e che, dopo l’attesa frustrata di un addomesticamento nei gradi di impugnazione, scatena una vera e propria guerra di omicidi e di stragi, culminata nel doppio assassinio di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
La risposta dello Stato è inevitabilmente severa e, nella nostra materia, condiziona oltre un quarto di secolo. Dapprima essa si esprime attraverso il dl 13 maggio 1991, n. 152, e nella relativa legge di conversione del 12 luglio 1991, n. 203, che introducono nell’ordinamento penitenziario l’art. 4-bis e fissano una prima restrizione ai benefici previsti dall’ord. penit., nonché alla liberazione condizionale. In forza del citato dl 152 viene individuata una fascia di gravi reati, cioè i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione e per associazione di tipo mafioso (i più gravi dei quali sono puniti, appunto, con l’ergastolo): per detti reati tutti i benefici possono essere concessi solo se sono stati “acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva”.
Una seconda fascia di reati, tra i quali compare anche l’omicidio non qualificato (che però comporta anch’esso un possibile ergastolo) comprende invece delitti per i quali le connessioni con la criminalità organizzata sono considerate meramente eventuali, e quindi l’accesso ai benefici è subordinato alla prova inversa, che cioè non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata.
Una terza fascia scaturisce, inoltre, dal tipo di delitto che in quel momento (1991) è oggetto di particolare attenzione, e cioè il sequestro di persona a scopo di estorsione, ovvero di terrorismo o di eversione: per questa fattispecie, nell’ipotesi in cui i condannati abbiano cagionato la morte del sequestrato, è introdotto nell’ordinamento penitenziario l’art. 58-quater, in forza del quale nessuno dei benefici può essere concesso se l’autore non abbia effettivamente espiato, nel caso di condanna all’ergastolo, almeno ventisei anni di pena.
La situazione normativa, già notevolmente complessa, lo diventa ancor di più per effetto del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, e della sua legge di conversione 7 agosto 1992, n. 356, conseguenti al primo ed al secondo dei due tragici assassini di cui si è detto.
In forza della legge n. 356 i condannati alla pena dell’ergastolo per delitti di tipo mafioso non possono più accedere ai benefici penitenziari, a meno che “collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter dell’ordinamento penitenziario”. A questo divieto condizionato fa eccezione la liberazione anticipata, che però agli ergastolani rimane preclusa per il fatto di essere fruibile concretamente solo in funzione della liberazione condizionale, che invece soggiace a quella condizione.
9. Nasce in tal modo quello che verrà chiamato ergastolo ostativo, che di fatto reintroduce la pena perpetua, essendo estremamente problematico il trasformarsi in collaboratori di giustizia in un certo contesto ambientale e culturale (infatti sarà molto limitato il numero dei condannati che accetteranno di diventare “pentiti”, termine improprio ma entrato nell’uso).
L’art. 4-bis ord. penit. diventa una norma cardine, consapevole del suo effetto duramente punitivo: ed infatti, in una sorta di frenesia talora priva di razionalità, essa attrae ed incorpora nel divieto dei benefici (salva la collaborazione con la giustizia) figure via via più numerose di delitti, anche del tutto estranei alla logica del contrasto alla mafia.
Si delineano quindi tre diverse tipologie di ergastolo: l’una come pena perpetua ma riducibile per effetto di un percorso di reale ravvedimento (lo possiamo, per brevità, chiamare ergastolo ordinario); l’altra, anch’essa riducibile, ma solo in virtù della collaborazione giudiziaria (ergastolo dei mafiosi e assimilati), che però, di fatto sarà assai poco praticata dalla maggior parte dei condannati, ed è comunque estranea ad una logica rieducazionista (così Corte cost. 149/2018 e altre); la terza (ergastolo dei sequestratori-omicidi) che ricalca la seconda, ma la aggrava con la necessità che, anche in caso di prestata collaborazione, il condannato abbia espiato almeno ventisei anni di reclusione (questo punto, come si vedrà [v. par. 17], verrà dichiarato incostituzionale da Corte cost. 149/2018).
La sostanza è che, per una larga parte dei condannati all’ergastolo (per alcuni dati statistici v. infra il par. 21), questa pena è tornata ad essere suggellata dalla dicitura burocratica “fine pena: mai”.
10. Nei primi anni che seguono l’entrata in vigore della legge 306/1992 non viene del tutto percepita la pesantezza umana della riforma. La magistratura di sorveglianza fa corretta applicazione del principio di non retroattività della legge penale e non esige dagli ergastolani già detenuti il requisito della collaborazione, sempre che sia stato loro riconosciuto un positivo percorso rieducativo, e quindi costoro possono continuare a fruire di tutta la gamma dei benefici.
Nel frattempo si avviano a conclusione i processi in corso dopo il 1992 e, per quanto riguarda i condannati di tipo mafioso, la messe raccolta è molto minore di quella sperata. La legge sconta una sottovalutazione del fatto socio-psicologico che l’imputato mafioso o si risolve a collaborare all’inizio della vicenda processuale per lucrare i benefici sulla pena attesa, o difficilmente collabora dopo la sentenza.
Intanto si diffonde la conoscenza delle durissime condizioni di detenzione a Pianosa, ed incomincia a formarsi un’opinione fortemente critica nei confronti dell’ergastolo ostativo.
La Corte costituzionale, investita dalle prime questioni di legittimità dell’istituto, sollevate con significativa immediatezza, con la prima decisione (adottata l’11 giugno 1993, n. 306) difende la legge 306/92, ma in parte incomincia ad eroderla ai fianchi, e soprattutto dissemina una serie di affermazioni che ne minano le fondamenta e che verranno utilizzate con larghezza quando, oltre vent’anni più tardi, la legge verrà frontalmente colpita.
La Corte, per intanto, dichiara non fondata (peraltro “nei sensi di cui in motivazione”) l’eccezione concernente l’inciso “fatta eccezione per la liberazione anticipata”, per chi lo volesse intendere nel senso che ai condannati per i delitti in discorso questo particolare beneficio non fosse applicabile nemmeno in caso di collaborazione: lettura invero fantasiosa della norma, ma da qualcuno affacciata, e comunque utile a rilevare che la soluzione adottata dalla legge n. 306/1992 ha “comportato una rilevante compressione della finalità rieducativa... per la preclusione assoluta di tutte le misure extra-murarie”, sì che, proprio per evitare questo vulnus, nel percorso che portò alla conversione in legge del decreto venne inserita la menzione della liberazione anticipata, resa fruibile anche dai non collaboranti. Il che è ineccepibile ma, a rovescio, finisce con l’evidenziare (e il silenzio sul punto da parte della Corte sorprende) come il condannato all’ergastolo non possa fruire nemmeno di questo indispensabile spiraglio di speranza, posto che la liberazione anticipata è inscindibilmente connessa con la liberazione condizionale, a lui preclusa: e quindi il tutto non può sottrarsi alla censura che la Corte stessa ha enunciato in tesi generale.
Ma la Corte, se sorvola su questa incongruenza, non manca di evidenziarne altre, e così decisive che essa stessa le utilizzerà quando approderà (con la sentenza 253/19 che chiude questo percorso) ad una diversa inevitabile coerenza: come la collaborazione può essere dettata da motivi diversi che possono non avere nulla a che vedere con un percorso di risocializzazione, così “la mancata collaborazione non può essere assunta come indice di pericolosità specifica”: in altre parole, la presunzione assoluta di non meritevolezza dei benefici se non si collabora, è impropria su entrambi i versanti e quindi non è rispettosa dell’art. 27 co. 3. Ma è troppo presto per dirlo.
L’imbarazzo della Corte, quando è chiamata a pronunciarsi sul punto nodale della quesione, e cioè sulla legittimità della condizione esclusiva richiesta per poter fruire dei benefici, è evidente anche, e forse di più, nella pronuncia, di poco posteriore, n. 39/1994. La Corte respinge seccamente l’eccezione spendendo poche parole: “l’incentivo alla collaborazione con la giustizia che la norma persegue non può qualificarsi come costrizione a tale comportamento, che il detenuto è libero di non adottare” (sentenza n. 39/94). Ingenua la doglianza, poiché in effetti nessuno costringe nessuno; ma formale la risposta, poiché lo sbarramento a ogni beneficio, se non si collabora, è assai più che un semplice incentivo.
11. La Corte compensa il poco coraggio, che a così breve distanza dall’entrata in vigore della legge non poteva avere al punto di censurare una normativa appena varata, attraverso alcuni interventi riduttivi. Con la sentenza 28 aprile 1994, n.168, dichiara la non applicabilità dell’ergastolo ai minorenni, enunciando proposizioni di indubbio valore generale. È modesta la rilevanza in termini statistici, notevole in termini di principio.
Ma soprattutto con la sentenza 357/94 (poi ribadita dalla 279/02) la Corte rende legittimo l’accesso ai benefici quando “la limitata partecipazione al fatto [da parte del condannato] renda impossibile una utile collaborazione alla giustizia”.
Con la sentenza 68/95 la Corte compie un analogo percorso, facendo cadere il requisito della collaborazione quando “l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità... renda impossibile una utile collaborazione con la giustizia”.
In entrambi i casi è richiesta la mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, ma è significativo l’indebolimento del valore asseritamente universale e insostituibile della collaborazione: la presunzione assoluta viene meno quando al condannato non si può chiedere di raccontare più del poco che ha o non ha già detto (il che è frequente in un’organizzazione a scomparti e livelli), ovvero quando altri ha già fatto luce completa su quel segmento. L’assunto è' del tutto condivisibile, ma devitalizza il significato personologico che si voleva attribuire alla scelta di collaborare. Sono pronunce in qualche modo dovute, ma indeboliscono ulteriormente il pilastro su cui poggia l’art. 4-bis.
Passa poco tempo e la Corte apre un altro varco, contrastando la pretesa di applicare anche al passato le nuove restrizioni: è illegittima – essa proclama – la revoca delle misure alternative ai condannati, che già ne fruivano, “sulla sola base della mancata collaborazione della giustizia”, dovendo al contrario accertarsi “la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi con la criminalità organizzata”; il che significa fare salvi quanto meno i percorsi positivi già riconosciuti (sentenza 445/97).
In sostanza nei primi anni dopo i 1992 prosegue questa apparente antinomia: quando la Corte viene investita da eccezioni che non coinvolgono frontalmente il mantenimento in vita della disciplina del 1992, essa è larga di concessioni di principio, e anche di accoglimenti in parte qua: si veda la sentenza 504/95, che, in nome della “progressività nella premialità", dichiara illegittimo il privare dei permessi-premio il condannato che ne ha già positivamente fruito e del quale non sia accertata la presenza di collegamenti con la criminalità organizzata; e si consideri la sentenza 445/97 che applica lo stesso percorso logico al condannato che avesse già fruito della semi-libertà.
Anche la sentenza 161/97 – sebbene la fattispecie sia parzialmente diversa – si muove in questo solco, poiché dichiara l’illegittimità dell’art. 177 cp nella parte in cui non prevede che il condannato all’ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, possa essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio, ove ne sussistano i relativi presupposti. La Corte non si occupa espressamente del requisito della collaborazione con la giustizia, ma enuncia affermazioni di principio in netto contrasto con la pretesa che all’ammissione alla liberazione condizionale possano essere apposte altre condizioni oltre quella di “un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento”; e soprattutto ribadisce che “la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo”. Tradotto: la pena perpetua si giustifica solamente in quanto possa di fatto non essere perpetua; se, per non esserlo, si pretende un comportamento che non è funzionale ad una reale “rieducazione”, siamo fuori della logica della Costituzione.
12. Tuttavia la bella stagione dura poco. Con la sentenza 273/01 la Corte viene sollecitata ad affermare che la non retroattività della legge penale coinvolge anche le modalità diespiazione della pena detentiva, ed in particolare a dire se la liberazione condizionale sia applicabile anche in assenza della collaborazione ai soggetti detenuti per fatti commessi prima della legge 356/92. Evidentemente la prassi giudiziaria, nonostante le aperture sopra ricordate, è quanto meno oscillante, e la Corte si barrica in difesa, poiché risponde che “la disciplina censurata [cioè l’art. 4-bis o.p., come modificato dalla legge 356/92] non comporta una modificazione degli elementi costitutivi della liberazione condizionale, e quindi rimane estranea alla sfera di applicazione del principio di irretroattività della legge penale, risolvendosi in un criterio di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il‘sicuro ravvedimento’ del condannato”. In sostanza, di irretroattività si può parlare solo quando lo ius novum investe la struttura del beneficio penitenziario, e la condotta richiesta per conseguirlo – dice la Corte – non è tale: ma come definire, allora, un elemento costitutivo, se non è tale un presupposto condizionante?; e come spiegare le pronunce 306/93 e 445/97, e altre ancora, pronunciate dalla stessa Corte?
Ancor meno appagante è la risposta al quesito diretto sulla legittimità dell’art. 4-bis, formulata con la sentenza 135/2003. Questa volta il giudice a quo investe frontalmente la norma e richiama a sostegno la sentenza n. 161/97 (v. supra il par. 10); ma la Corte evita di pronunciarsi sull’art. 4-bis e si appiglia proprio e soltanto al suo precedente, affermando che, diversamente da quel caso, “la preclusione di cui all’art. 4-bis non discende automaticamente dalla norma censurata, ma dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nella condizione per farlo”.
Ritorna, insomma, lo schema che ha le sue radici sin nella prima pronuncia del 1974: una via d’uscita c’è, tocca al condannato approfittarne. Che poi questa via d’uscita sia criticabile nella sua assolutezza, viene detto in cento altre occasioni, ma non nella sede della verifica risolutiva. Per suturare la lontananza dei due lembi della ferita costituzionale, i tempi non sono ancora maturi e bisognerà attendere la pronuncia 253 del 2019.
13. È nel secondo decennio che matura una sensibilità collettiva ormai decisamente favorevole ad una nuova impostazione.
Anche se l’Europa viene vissuta principalmente come la severa custode del rigore nella tenuta dei bilanci, occorre riconoscere che cresce l’integrazione europea, e quindi una sensibilità comune su molti temi, e fra questi hanno risalto le problematiche della pena perpetua, della cui legittimità si dubita con sempre maggior frequenza. Inoltre fiorisce una straordinaria letteratura penitenziaria, sia nelle forme di una narrativa autobiografica, sia come ricerca e letteratura accademica, sia infine come inchiesta giornalistica.
La Corte di Strasburgo, sin verso la fine del primo decennio di questo secolo, tiene una posizione di prudente self restraint, attenta a non intromettersi nello spazio di discrezionalità dei singoli Stati, che sono numerosi e con ordinamenti anche molto diversi.
Premesso come requisito non più discutibile che l’ergastolo è ammissibile in tesi generale, ma deve avere una praticabile prospettiva di liberazione, ancora nella decisione Kafkaris vs. Cipro (12 febbraio 2008) la Corte fa salva la legislazione di quel Paese perché in esso il capo dello Stato ha il potere di concedere la grazia, e questo potere è stato di fatto esercitato con una certa continuità, e tanto basta per considerare l’ergastolo una pena riducibile. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, come è noto, ragiona per linee concrete prima che per generalia, cioè esanima la fattispecie sottoposta e gli effetti empirici che quella legislazione produce: dunque, se in concreto avviene che gli ergastolani possono riacquistare in concreto la libertà, la normativa non merita censura.
Ma il margine di apprezzamento lasciato ai singoli Stati incomincia ad essere messo in forse proprio dalle motivazioni della sentenza Kafkaris, che a sua volta deve tenere conto delle considerazioni dei vari giudici dissenzienti (a differenza di altre, nelle quali la pronuncia è stata adottata all’unanimità o quasi): pur soccombendo, alcuni di essi avanzano l’istanza che la decisione appartenga ad un organo giurisdizionale e non politico, che sia definito il quantum di pena che il detenuto deve scontare per poter avanzare la domanda di liberazione, e che il detenuto possa conoscere sin dall’inizio dell’espiazione a quali condizioni potrà sperare nella liberazione. La decisione è assolutoria, ma le perplessità si fanno evidenti.
Passano cinque anni e con la sentenza Vinter vs. Regno Unito (9 luglio 2013) la Corte compie un deciso passo avanti. L’ergastolo – essa afferma – non viola la Convenzione e i singoli Stati possono prevederlo o meno nella loro legislazione: ma qualora lo prevedano (e questo è il caso del Regno Unito, nel quale, ove il giudice abbia inflitto la pena dell’ergastolo senza parole [cioè stabilendo una data dopo la quale il condannato può chiedere la scarcerazione in base ai suoi progressi nel trattamento] la decisione è affidata al Ministro della Giustizia “at any time” e sulla base di insindacabili “exceptional circumstances”) in tal caso il condannato ha diritto di conoscere sin dal momento della condanna come dovrà comportarsi e quanto tempo debba trascorrere per poter sperare di essere rimesso in libertà.
Questo perché (aggiunge la Corte, facendosi carico della sensibilità che si è venuta formando nei vari Stati europei) "dagli elementi di diritto comparato e di diritto internazionale... risulta che vi è una netta tendenza in favore della creazione di un meccanismo... che garantisca un primo riesame entro un termine massimo di venticinque anni da quando la pena perpetua è stata inflitta, e poi, successivamente, dei riesami periodici”. In particolare, va considerato che il termine di 25 anni non è arbitrario o casuale, ma scaturisce dallo statuto istitutivo della Corte penale internazionale competente a giudicare dei crimini di guerra e contro l’umanità[3].
14. Intanto, a casa nostra, la lenta erosione del dogma della perpetuità si manifesta per linee esterne nei confronti di alcuni istituti caratterizzati dall’assenza di un termine finale ad una condizione di soggezione, e l’inaccettabilità viene sancita, in questo caso, a livello legislativo. Il decreto legge 31 marzo 2014, n. 52, convertito nella legge 30 maggio 2014, n. 81, pone fine a quelli che erano chiamati “ergastoli bianchi”, cioè le misure di sicurezza detentive che, non avendo un termine finale, potevano essere protratte indefinitamente sulla base di una non rimossa pericolosità dell’internato: la legge pone fine a questa forma di perpetuità, stabilendo che le misure di sicurezza hanno tutte come termine finale la durata massima della pena edittale prevista per il reato commesso. In questo modo il “fine misura di sicurezza: mai" viene meno persino se, al raggiungimento del massimo edittale, l’internato è ancora un soggetto pericoloso; ciò evidenzia l’aporia del fatto che, al contrario, la corrispondente situazione sul versante della pena detentiva (e cioè quella dell’ergastolano non collaborante) rimane perpetua anche se il soggetto non è più pericoloso.
In un altro settore, il legislatore riceve dapprima un avviso di incostituzionalità nella materia degli “eterni giudicabili” con una “sentenza-monito” (Corte cost. 33/2013), e poi, di fronte all’inerzia del potere legislativo, una secca dichiarazione di illegittimità parziale dell’art. 159, comma 1, cp (Corte cost. 45/15) per cui, quando lo stato mentale dell’imputato ne impedisca la cosciente partecipazione al processo e questo venga sospeso, la sospensione della prescrizione viene meno quando si accerta che tale sua condizione è irreversibile, e quindi i termini riprendono a decorrere, la prescrizione matura e si pone fine a un’indefinita soggezione processuale dell’individuo (un diverso, ma analogo, intervento legislativo si può vedere nell’art. 12 della legge 28 aprile 2014, n. 67, contenente la delega per la riforma del sistema sanzionatorio, a proposito dell’imputato irreperibile, che non soggiace più ad una indefinita sospensione del processo e della prescrizione).
In sostanza, il legislatore accenna a voler rimuovere tutte le situazioni che, non avendo un termine finale prestabilito, si risolvono in una sudditanza praticamente indefinita.
15. Volendo, si può ravvisare un ulteriore, sia pur limitato, avvicinamento della condizione dell’ergastolano a quella degli altri detenuti anche nella materia del sovraffollamento carcerario. La nota sentenza Torreggiani, emessa dalla Corte Europea l’8 gennaio 2013, ha condannato l’Italia a rimuovere la condizione di sovraffollamento delle carceri ed a risarcire i detenuti che ne hanno sofferto. Per l’effetto è stato emanato il decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014. n. 117, che ha introdotto un complesso sistema di indennizzo ai detenuti, fatto in via principale nella forma dell’abbuono di pena residua (riduzione di un giorno ogni dieci di detenzione sofferta in “condizioni inumane”) a coloro che sono tuttora detenuti; e di indennizzo monetario a coloro che non sono più detenuti o che non hanno più pena capiente per la riduzione. La Corte costituzionale, sollecitata ad intervenire a proposito del condannato all’ergastolo, ha ritenuto (sentenza n. 204/16) che la forma di abbuono sulla pena residua possa e debba avvenire attraverso l’anticipazione del termine minimo per la richiesta della liberazione condizionale (a somiglianza di quanto a suo tempo congegnato da Corte cost. n. 274/1983: v. suprail par. 5) e, nel caso che detto termine sia già stato oltrepassato, attraverso un indennizzo monetario: il che sottolinea ancora una volta la situazione irragionevolmente deteriore dell’ergastolano non collaborante che, non potendo fruire della liberazione condizionale perché privo di un finepena individuato, perde ogni possibilità di risarcimento diretto per la detenzione sofferta in condizioni inumane.
La stessa Corte, pur non tornando espressamente sulla materia dell’ostatività, la dissemina di interventi umanizzanti. Con la sentenza n. 301/12 dichiara inammissibile l’eccezione di incostituzionalità relativa al mancato riconoscimento del diritto all’affettività, cui la riforma ha destinato il permesso-premio, che però è negato all’ergastolano non collaborante e non è compensato da una adeguata organizzazione interna degli istituti. La sentenza si risolve di fatto in un non accoglimento, ma il rigetto è motivato con la necesità di un articolato intervento sostitutivo, che esula dalle competenze della Corte: questo intervento è fortemente raccomandato dal Consiglio d’Europa e il nostro legislatore, non intervenendo, consolida una situazione di inadempienza.
Similmente, con la sentenza 279/13, la Corte – chiamata a pronunciarsi sulla “situazione di invivibilità" derivante dal sovraffollamento carcerario – riconosce la necesità che l’ordinamento si doti di un “rimedio idoneo a garantire la fuoriuscita dal circuito carcerario del detenuto che sia costretto a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità": espressione non strettamente afferente al tema presente, ma comunque atta a collocare in una posizione di subalternità le esigenze di prevenzione generale quando essa produca situazioni di inumanità.
16. Intanto quello che possiamo chiamare l’“accerchiamento psicologico” contro le pene contrarie al senso di umanità continua a crescere su piani diversi, ma tutti significativi.
Il 2 giugno 2007, in occasione della festa della Repubblica, 310 condannati all’ergastolo si rivolgono pubblicamente al Presidente della Repubblica chiedendogli di esercitare il suo potere di commutare (oltre che condonare) le pene, trasformando la loro pena detentiva perpetua nella pena di morte. La domanda è chiaramente inaccoglibile e provocatoria, ma – essendo tuttora in corso l’approvazione della legge costituzionale 2 ottobre 2007, n. 1, che eliminerà l’ultima traccia della pena di morte ancora presente nella Costituzione – essa suscita notevole scalpore.
Fioriscono gli scritti autobiografici di condannati all’ergastolo ostativo che rendono note all’esterno le loro condizioni: molti di essi si sono iscritti a corsi universitari ed hanno conseguito una laurea che non potrà mai essere spesa. Anche la dottrina mostra una diffusa crescente attenzione al tema[4].
A livello legislativo la legge delega 23 giugno 2017, n. 103, sembra essere l’anticamera della scomparsa, o almeno dell’attenuazione dell’ergastolo ostativo (recita infatti il punto 86/e dei criteri direttivi: “eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano... l’individualizzazione del trattamento rieducativo... nonché revisione della disciplina di preclusione per i condannati alla pena dell’ergastolo”): ma le disposizioni attuative non racccolgono l’invito e il discorso sembra chiuso per un altro po’ di tempo.
17. Il clima generale pare subire una battuta di arresto anche a livello di giurisprudenza della Cedu. In realtà, sull’onda della sentenza Vinter del 2013, le prime decisioni sono di notevole apertura (v. Trabelsi vs.Belgio, 4 settembre 2014, nella quale è dichiarata la violazione dell’art. 3 a proposito dell’estradizione di un imputato negli Stati Uniti perché accusato di reati che a livello federale avrebbero potuto comportare la condanna all’ergastolo senza condizionale; e vedansi altresì le sentenze Murray vs. Paesi Bassi, del 26 aprile 2016; e T.P. e A.T. vs. Ungheria, del 4 ottobre 2016), nelle quali la Corte europea, non solo ribadisce la necessità che la legislazione interna dello Stato preveda una soglia temporale trascorsa la quale deve avvenire la review dell’ergastolo, ma in questo caso non si accontenta che la soglia sia indicata, bensì ne censura l’ampiezza eccessiva (40 anni), poiché in tal modo non si assicura de facto al detenuto di età media una prospettiva reale di liberazione.
Similmente, nella sentenza Matriosaitis vs. Lituania, del 23 maggio 2017, la Corte, che con la decisione Kafkaris aveva “salvato” Cipro facendo leva sulla soddisfacente applicazione in concreto del potere di grazia di quel Presidente, sebbene privo di criteri atti ad orientarlo ed a renderlo prevedibile; ora non ritiene più sufficiente l’esistenza formale di un potere di grazia, poiché al Presidente è riconosciuta una totale e illimitata discrezionalità: di qui la condanna.
Tuttavia, a questo punto, interviene un’inattesa frenata nella giurisprudenza europea. Nella sentenza Hutchinson vs. Regno Unito (3 febbraio 2015, confermata ad opera della Grande Chambre il 17 gennaio 2017), la Corte afferma che nel sistema inglese il Ministro della Giustizia è titolare del potere di early release, o liberazione anticipata, senza obbligo di specificare i criteri ai quali egli deve ispirarsi, e tanto basta per soddisfare la Convenzione, non dovendo questi criteri venire specificati ex antea, perché devono essere valutati caso per caso. È un palese annacquamento del requisito della conoscibilità sin dall’inizio di che cosa deve fare il condannato per meritarsi la liberazione condizionale, ma tant’è, l’aumento nel Regno Unito del numero degli ergastolani sembra avere intimorito l’opinione pubblica ed i singoli Stati, ed i giudici hanno avuto timore di indebolire la risposta sanzionatoria.
18. Questo apparente passo indietro (o almeno di lato) della Corte di Strasburgo produce, in casa nostra, una subitanea intensa risposta sia della nostra dottrina, sia della nostra Corte costituzionale.
Quest’ultima, per intanto, con la sentenza 186/18, dichiara l’incostituzionalità dell’art. 41-bis ord.penit., quale modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f) n. 3, della legge 15 luglio 2009, n. 94, nella parte in cui autorizza il divieto, al detenuto sottoposto a sicurezza speciale, della cottura in proprio dei cibi. È un fatto all’apparenza marginale, ma sottolinea l’impegno ad evitare, per intanto, le inutili crudeltà che non rispondono ad alcuna reale esigenza di sicurezza.
Con la quasi coeva pronuncia 174/18 la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 21-bis ord. penit., nella parte in cui non consente alle detenute madri, condannate a termini dell’art. 4-bis e non collaboranti, di accedere all’assistenza in ambiente esterno dei figli minori di dieci anni. Anche questa decisione non attiene specificamente all’ergastolo (pur contenendo la relativa condizione), ma con essa la Corte allarga ancora l’apertura già disposta da sé medesima con la pronuncia 76/17, che aveva dichiarato illegittimo l’art. 47-quinquies, co. 1-bis, dell’ord.penit., sempre a beneficio delle detenute madri, con ciò sferrando un ulteriore colpo a tutti gli automatismi preclusivi disseminati nell’ordinamento penitenziario.
Ancora la Corte, con la sentenza 149/18, dichiara l’incostituzionalità dell’art. 58-quater, co. 4, ord. penit., nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 cp. , che abbiano cagionato la morte del sequestrato [per costoro, in sintesi, la liberazione condizionale non può essere concessa se essi non abbiano in ogni caso espiato almeno ventisei anni di reclusione], e nell’ampia motivazione enuncia una serie di proposizioni così categoriche che si possono leggere quasi come un anticipo del colpo definitivo che dovrà presto essere sferrato in radice all’ergastolo ostativo. Cade, per intanto, il terzo tipo di ergastolo, che può essere sintetizzato come “ostativo aggravato” [v. par. 8].
19. L’anno appena concluso, il 2019, registra finalmente la conclusione di questa lunga rincorsa ad una disciplina costituzionalmente orientata dell’ergastolo.
Il 6 marzo 2019 se ne hanno le avvisaglie formali. La Corte costituzionale (investita di una diversa questione, afferente una richiesta di informazioni avanzata dalla Consob) dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea due questioni pregiudiziali, “nello spirito di leale cooperazione tra Corti nazionali ed europee nella definizione di livelli comuni di tutela dei diritti fondamentali”, e precisamente “se l’art. 14, par. 3, della direttiva 2003/6 CE”, e le relative disposizioni regolamentari, “debbano essere interpretate nel senso che consentano agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura punitiva”; e se, in caso di risposta negativa, le anzidette disposizioni “siano compatibili con gli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (...) “nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente, dalle quali possa emergere la propria responsabilità...".
È chiaramente uno scrupolo meritorio a risposta prevedibile, ma servirà per ottenere un’implicita risposta alla domanda sottostante, se possa sanzionarsi in qualsiasi modo (compreso il negato miglioramento della propria attuale condizione) il rifiuto di fornire informazioni alla giustizia, come di fatto accade nella situazione in discorso. È un avamposto di quanto succederà poco oltre.
Il 13 giugno 2019 la Corte europea affronta finalmente il caso Viola vs. Italia, sottopostole sin dal dicembre 2016, e la decisione questa volta è univoca. Sono ben 152 paragrafi, i cui capisaldi si possono così sintetizzare: a) “La Corte ritiene che la personalità del condannato non resta congelata al momento del reato commesso; essa può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione”; b) il condannato deve avere una possibilità legale di far sì che la sua carcerazione non sia indefinita, e quindi deve sapere che cosa deve fare perché la sua possibile liberazione venga presa in considerazione; c) l’assenza di collaborazione con la giustizia – considerata unico elemento rilevante a tale fine – determina una presunzione assoluta di pericolosità, che priva il ricorrente di ogni prospettiva realistica di liberazione; d) "disponendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale, il regime in vigore collega in realtà la pericolosità dell’interessato al momento in cui i delitti sono stati commessi, invece di tener conto del percorso di reinserimento e degli eventuali progressi compiuti”; e) la dignità umana, situata al centro del sistema creato dalla Convenzione, impedisce di privare una persona della sua libertà, senza operare al tempo stesso per il suo reinserimento, e senza fornirgli una possibilità di riguadagnare un giorno questa libertà.
Il tutto si traduce nella decisione (sei voti contro uno) che la legislazione italiana viola, sul punto, l’art. 3 della Convenzione, che proibisce le pene inumane e degradanti.
20. Ormai l’attesa della pronuncia della nostra Corte (sollecitata dalla Cassazione il 20 dicembre 2018, e dal Tribunale di Perugia qualche mese più tardi) si fa febbrile. L’epilogo sembra scontato, ma qualche incertezza permane, considerando che il tema sottoposto riguarda solamente l’ammissione al permesso-premio e non all’intera gamma dei benefici penitenziari, ed esclude in particolare la liberazione condizionale, che non rientra formalmente nello spettro della norma denunciata, e cioè nell’art. 4-bis.
La Corte, con la sentenza emessa il 23 ottobre 2019, n. 253, non si arrocca dietro pretesti formali e compie un’accurata analisi sia delle novazioni legislative, sia della propria precedente giurisprudenza sul punto, per approdare al concetto già considerato centrale dalla Cedu: l’art. 4-bis dell’ord.penit. è essenzialmente una scelta non di politica penitenziaria, ma di politica criminale, poiché configura “una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigatvi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario”.
Questo comporta una “rilevante compressione della finalità rieducativa della pena”, effettuata sul presupposto che, per quello specifico tipo di autore, solo la collaborazione può essere letta come sintomo di un effettivo ravvedimento. Ora, questa presunzione non è di per se stessa illegittima, “purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta”, cioè che al magistrato di sorveglianza “sia consentita una valutazione in concreto della condizione del detenuto”.
La Corte rispetta le scelte di pubblica sicurezza effettuate dal legislatore del 1992, privilegiando la collaborazione come indice primario (scambio di informazioni contro riduzione di pena), ma non consente che quell’indice diventi esclusivo a scapito della funzione rieducativa, al punto di renderla irrilevante.
21. La sentenza non si limita alla declaratoria di illegittimità, per irragionevolezza, dell’anzidetta presunzione assoluta di pericolosità, ma, consapevole della incertezza normativa che può venire a crearsi, a) precisa che i permessi-premio possono essere concessi anche in assenza di collaborazione “allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti”; b) dichiara, in via consequenziale, l’illegittimità dell’art. 4-bis anche per i detenuti condannati per delitti diversi da quelli ex art. 416-bis; c) si sofferma a lungo, nella motivazione, sui criteri ai quali il magistrato di sorveglianza dovrà attenersi nel compiere “una valutazione in concreto che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto”.
Quanto al punto a), la rigorosa definizione dei presupposti di fatto necessari per concedere il permesso-premio non è solamente la riedizione dei requisiti già pretesi dal dl 13 maggio 1991, n. 152, poiché agli stessi aggiunge l’acquisizione di elementi tale da escludere anche “il pericolo del ripristino di tali collegamenti” (tra il detenuto richiedente e l’organizzazione criminale); e già questo prospetta una problematica inversione dell’onere della prova.
Ma (tralasciando il punto b), che è una semplice applicazione dell’incostituzionalità derivata, in forza dell’art. 27 delle norme sul funzionamento della Corte, ex legge 11 marzo 1953, n. 87), sono le considerazioni sub c) a destare una certa sorpresa, poiché aggiungono qualcosa al dispositivo formale della Corte, senza farne parte, e interpellano sull’uso che di queste indicazioni dovrà essere fatto.
La valutazione del magistrato di sorveglianza, infatti, dovrà “rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo”. Nell’illustrazione di questo rigore la Corte non si limita a richiedere la presenza di “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva” (cioè il risultato probatorio finale, che giustifica l’atto di concessione); ma si diffonde nell’analisi dei documenti, delle informazioni e delle fonti di convincimento alle quali il magistrato di sorveglianza dovrà prestare attenzione, specificando che incomberà sul detenuto richiedente non il solo onere di allegazione, ma anche “quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno”.
Questo insistere non solo sull’onere della motivazione, ma in specie su quali elementi debbano essere considerati per soddisfare tale onere, rappresenta un’insolita intromissione in un terreno riservato all’esercizio concreto della giurisdizione, ed appare più una concessione di stile a quanti temono il pericolo dell’apertura avventata dei cancelli del carcere, che una direttiva della Corte, capace di produrre l’invalidità di futuri provvedimenti di concessione.
Quale che sia stato il tormento della camera di consiglio, e quali le preoccupazioni affacciate, è evidente l’impaccio della motivazione quando (punto 9) la stessa rammenta che, in forza dell’art. 4-bis, tutti i benefici, compreso il permesso-premio, “non possono essere concessi” quando il Procuratore nazionale (o distrettuale) antimafia segnala l’attualità di collegamenti del detenuto richiedente con la criminalità organizzata: il “non possunt” è così improprio che la Corte è costretta a ricordare subito dopo che “resta ferma l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza” (e sorregge la propria precisazione richiamando, ex multis e con palese impaccio, una sentenza della Cassazione); e d’altra parte, sarebbe stato veramente incongruo l’abbattere una presunzione assoluta di pericolosità sostituendola con un’altra altrettanto ostativa.
Ciò non toglie che l’impressione sia quella di un ulteriore avvertimento alla magistratura di sorveglianza, già soggetta a non poche e non benevole critiche quando il singolo detenuto non corrisponde alla fiducia a lui concessa, ed ora, in qualche modo, presa tra due fuochi: quello di un’opinione pubblica già di per sé reattiva verso i provvedimenti di rimessione in libertà, per quanto giustificati, ed ora sostenuta dal monito della Corte; e quello inverso, della prevedibile maggior pressione che sarà esercitata dalle associazioni criminali cui appartiene il detenuto richiedente, posto che il magistrato non avrà più lo scudo della legge ostativa, ma si assumerà per intero l’onere della decisione.
Sono intuibili le resistenze psicologiche e politiche incontrate dalla Corte, e di esse occorre farsi carico perché lasciano intendere quanto sarà difficile il compito della magistratura di sorveglianza, alla quale è stata restituita la responsabilità di esercitare davvero la funzione di giudice, ma alla quale è stato sottratto lo scudo di una norma dirimente.
Tuttavia è giusto confidare sull’abito professionale della giurisdizione, per la quale è fisiologico il dover affrontare valutazioni di simile delicatezza; e sembra eccessiva la richiesta, da taluno affacciata, di assegnare ad un organo collegiale la decisione sul permesso-premio: essendo impensabile l’affidare al Tribunale di sorveglianza solamente le richieste di permesso dei condannati ex art. 4-bis, la conseguente devoluzione all’organo collegiale dell’intera materia dei permessi produrrebbe un ingorgo ed un ritardo dei tempi di risposta dal quale tutti i detenuti sarebbero gravemente danneggiati, oltre a mettere in risalto una sostanziale sfiducia nell’indipendenza dei singoli magistrati di sorveglianza.
22. È tempo di concludere con una notazione di sollievo.
Non sono le pene eccessive o crudeli quelle che possono combattere e ridurre la criminalità. Quando l’Europa è nata, la maggioranza degli Stati che la costituirono prevedeva nel proprio ordinamento la pena di morte, mentre oggi tutti l’hanno abrogata, e non solo i sei che le diedero vita, ma i 28 (ora 27) che l’hanno ampliata.
Quanto all’ergastolo, esso continua ad essere presente nella maggioranza degli Stati (181 su 216, pari a circa l’85%), ma tra quelli che lo prevedono circa il 70% contempla la possibilità della liberazione condizionale, in varie forme (135 su 182). Se si restringe l’osservazione all’Europa e si ha riguardo ai 47 Stati che aderirono alla Convenzione europea del 1948, si constata che ben 11 disegnavano al loro interno un ergastolo “senza speranza”: ebbene, uno di essi, il Regno Unito, si è salvato dalle censure mediante la controversa sentenza Hutchinson, 3 non sono ancora stati giudicati (Malta, Svezia e Slovacchia), e gli altri 7 Turchia, Bulgaria, Paesi Bassi, Ungheria, Lituania, Ucraina e, appunto, l’Italia) sono stati tutti censurati.
La richiesta ulteriore, che l’ergastolo scompaia del tutto dal ventaglio delle sanzioni penali, ha risposte diverse a seconda delle sensibilità. Chi scrive non è fautore della sua radicale scomparsa, mentre vede con favore la riduzione dei delitti e delle situazioni specifiche che oggi sono ancora sanzionate con l’ergastolo; e ritiene auspicabile, se mai, una maggiore mitezza nello scaglionare nel tempo i vari benefici penitenziari (il cd. regime progressivo), e soprattutto una maggiore presenza ed efficacia degli interventi di trattamento. Benefico sarebbe anche un impiego serio e diffuso delle prestazioni di effettiva pubblica utilità per i condannati non solo a pene molto brevi, ma anche di maggior consistenza, così da produrre una riduzione della popolazione intra-murale, e quindi un’effettiva possibilità di risocializzazione dei restanti.
Ma per ora sarà importante difendere la conquista sancita dalle Corti, europea e nostrana, quando prevedibilmente il legislatore sarà chiamato a completarne l’opera. Non si tratterà di difendere – come è stato paventato – un’indulgenza generalizzata nei confronti di una delinquenza geneticamente irriducibile, ma solo di restituire ai giudici la loro responsabilità di giudici, ed ai condannati il loro diritto alla speranza. Né si commetterà l’errore di commuoversi su Caino, dimenticando Abele, perché ogni riforma deve tener presente la difficile complessità di questa materia, che non a caso costituisce la prima pagina terrena dei libri sapienziali, essendo costitutiva delle relazioni umane.
Si tratterà di restituire un orizzonte di speranza ad un piccolo popolo. Quando fu pronunciata la sentenza della Corte costituzionale (23 ottobre 2019) gli ergastolani erano 1790, di cui 1255 “ostativi”.
23. Il tema dell’ergastolo, nella sua apparente linearità, è denso di implicazioni filosofiche, sociali e giuridiche. Il percorso tratteggiato le ha evidenziate, ma sembra ormai avviato ad un suo approdo equilibrato: si può accettare che il nostro ordinamento continui a includere l’ergastolo tra le pene irrogabili, ma esso deveprevedere una “via d’uscita” dopo un tempo ragionevole e senza indulgere a pretese diverse da quelle afferenti il percorso rieducativo eventualmente compiuto.
Questo non è un salto nel vuoto, ma è semplicemente un’applicazione del principio che “nessun uomo è mai tutto nel gesto che compie”, e quindi nessuno può essere interamente sepolto da quel singolo gesto; allo stesso modo si deve rammentare che nessun uomo è mai eguale a se stesso nell’attraversare il tempo, e quindi il tempo deve corrispondere all’uomo nuovo che ha contribuito a generare. Di fronte a queste dinamiche sapienziali non può stare la fissità di uno stereotipo astratto, ma solo la sapienza di un uomo o donna-giudice, che deve giudicare se quel condannato ha usato bene del tempo carcerario trascorso.
Questo significa riconoscere che la speranza è essenziale per vivere. L’ergastolo, lo si è detto in premessa, non è una pena come le altre, solamente più lunga delle altre. Per il condannato all’ergastolo ogni giorno non è “uno di meno” rispetto al recupero della libertà, ma “uno di più" rispetto al nulla del suo tempo. Un tempo nel quale “gli alberi crescono a rovescio” (Alda Merini) perché nel carcere a vita l’uomo non matura e non cresce, ma si inabissa e si degrada. Una non-vita nella quale il soggetto si trova ad esclamare “da tanto tempo non ho più notizie di me” (Carmelo Musumeci). Un tempo nel quale è inaridita la pianta della speranza, che è poi la confidenza, indimostrata e indimostrabile ma vitale, che l’ultima parola non spetti sempre alla nuda brutalità delle cose.
[1] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII, p. 63.
[2] V. Foa, Psicologia carceraria, nel numero speciale de Il Ponte, 1949, V, 3, pp. 299 (ristampa anastatica del 2002 a cura della Rassegna penitenziaria e criminologica, numero speciale 2002).
[3] V. la legge 12 luglio 1999, n. 232, “Ratifica ed esecuzione dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, con atto finale ed allegati, adottato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma, il 17 luglio 1998. Delega al Governo per l’attuazione dello Statuto medesimo”. L’art. 110 dello Statuto stabilisce che “la Corte ha il diritto di decidere una riduzione della pena inflitta e, se la persona ha scontato i due terzi della pena inflitta, o 25 anni di reclusione nel caso di una condanna all’ergastolo, la Corte riesamina la pena per decidere se sia il caso di ridurla”. La norma aggiunge che, nel caso di una decisione negativa, la Corte in seguito riveda la questione, negli intervalli previsti dal regolamento. Quindi non solo i 25 anni diventano indicativi di una espiazione sufficiente, ove sussistano le condizioni di legge, ma, in caso di mancata riduzione, si deve procedere ad uno o più momenti di riesame, ovverossia ad una “revisione periodica”, senza che si possa mai considerare la detenzione legata a un termine finale immodificabile.
[4] Merita di essere ricordato, tra gli altri, proprio perché esempio di collaborazione tra la dottrina ed i protagonisti reali del “fine pena: mai”, il volume di Musumeci e Pugiotto “Gli ergastolani senza scampo”, 2016.