1. Nella legge di bilancio per il 2025 licenziata dal Governo ed ora al vaglio del Parlamento sono inserite, sotto il titolo XIV: disposizioni finanziarie di revisione della spesa, due norme che vale la pena analizzare, gli artt. 105 e 106.
Il primo, denominato «modifiche al codice di procedura civile», introduce nel codice di rito, dopo l’art. 307 c.p.c., una nuova fattispecie di estinzione del processo civile, rubricata «Estinzione del processo per omesso o parziale pagamento del contributo unificato».
Questo il testo della disposizione:
«Art. 307-bis (Estinzione del processo per omesso o parziale pagamento del contributo unificato) Il processo si estingue per omesso o parziale pagamento del contributo unificato. Alla prima udienza il giudice, verificato l’omesso o il parziale pagamento, assegna alla parte interessata termine di trenta giorni per il versamento o l’integrazione del contributo e rinvia l’udienza a data immediatamente successiva. A tale udienza il giudice, in caso di mancato pagamento nel termine assegnato, dichiara l’estinzione del giudizio. In caso di mancato o parziale pagamento, nel termine assegnato ai sensi del secondo comma, del contributo unificato dovuto per la proposizione della domanda riconvenzionale, per la chiamata in causa, per l’intervento volontario in confronto di tutte le parti o per la proposizione dell’impugnazione incidentale, il giudice dichiara l’improcedibilità della domanda cui si riferisce l’inadempimento. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai procedimenti cautelari e possessori. Si applicano alle controversie disciplinate dal rito del lavoro e al processo esecutivo.».
La prima lettura della disposizione ha già fatto registrare da più parti prese di posizione sconcertate e preoccupate. E sconcerto e preoccupazione nascono sia per il metodo prescelto per una modifica del codice di rito, sia per il meccanismo ipotizzato per la realizzazione dell’intento del legislatore, sia – soprattutto – per il contenuto della modifica.
Procedendo con ordine, lascia innanzitutto perplessi che la legge di bilancio – che ormai siamo abituati a considerare un contenitore omnibus, destinato a raccogliere norme le più eterogenee immaginabili – possa anche introdurre disposizioni di carattere processuale, e di primaria importanza quale quella che introduce una nuova ipotesi di estinzione dei giudizi civili. Come sempre si sottolinea in casi analoghi, è davvero sorprendente la superficialità con cui si mette mano a norme processuali (quand’anche per un intervento riguardante un unico articolo) senza sentire il bisogno di un preventivo confronto con l’accademia e con gli operatori, avvocati e giudici, del processo.
In secondo luogo, desta stupore il meccanismo adottato dal legislatore della legge di bilancio per il raggiungimento del proprio scopo di “contrasto all’evasione”. La norma, infatti, dispone che sia il giudice, alla prima udienza, a verificare l’avvenuto adeguato pagamento del contributo unificato, fissando, in caso di omesso o incompleto pagamento, un termine di trenta giorni per il versamento o l’integrazione, con rinvio dell’udienza a data immediatamente successiva, nella quale – in caso di persistente omissione – dichiarerà l’estinzione del giudizio.
Dunque, innanzitutto si attribuisce al giudice, e non ad un funzionario, la verifica della congruità del versamento (tornando su una scelta che, già proposta nella prima stesura della Legge Finanziaria per l’anno 2000, era poi stata eliminata nella stesura definitiva: Legge 23 dicembre 1999 n. 488), trasformando colui o colei che deve decidere la causa in un esattore.
Affidare, poi, tali controlli, che ben potrebbero essere compiuti da un funzionario al momento dell’iscrizione a ruolo, al giudice, e differirli alla prima udienza, crea un’ulteriore incongruenza rispetto alla cd. riforma Cartabia (d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149), che anticipa ad un momento anteriore alla prima udienza varie attività processuali rilevanti (rinnovazione della citazione; autorizzazione a chiamate in causa; rilievo d’ufficio di questioni da sottoporre alle parti; ecc.), che rischiano di risultare inutili in caso di omesso versamento del c.u., con conseguente spreco di tempo e risorse.
Non ci si è, poi, posti il problema delle interferenze tra le diverse possibili contestazioni circa l’esatta entità del contributo unificato da riscuotere: l’ordinanza di estinzione del processo, infatti, potrebbe essere impugnata innanzi al giudice d’appello (trattandosi di decisione dal contenuto decisorio e natura sostanziale di sentenza); ma sarebbe il giudice tributario a dover decidere delle eventuali opposizioni contro le azioni intraprese dall’ufficio giudiziario ai sensi dell’art. 247 d.P.R. n. 115 del 2002 di recupero del tributo non versato (iscrizione a ruolo e successiva notifica di cartella esattoriale per il recupero dell’importo evaso, degli interessi e delle sanzioni di legge).
Ma è soprattutto il merito della disposizione che pare davvero sconcertante. E’ noto che, nel corso degli anni, il legislatore è più volte intervenuto per regolamentare il regime fiscale degli atti processuali civili; giungendo in ultimo, con la citata legge finanziaria per l’anno 2000, ad introdurre il cd. contributo unificato (calcolato sul valore della controversia e delle eventuali domande ulteriori, riconvenzionali o nei confronti di terzi) in luogo dell’imposta di bollo sui singoli atti in precedenza vigente (disciplina oggi ricompresa nel testo unico sulle spese di giustizia, art. 9 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115). Tali misure sono sempre state accompagnate da critiche da più parti, visto che il diritto che la Costituzione riconosce a tutti, all’art. 24, di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi viene, in qualche modo, condizionato dalla capacità contributiva e dall’adempimento di un onere tributario qual è il contributo unificato, qualificato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 73 dell’11 febbraio 2005) come una “entrata tributaria erariale”, finalizzata al finanziamento delle «spese degli atti giudiziari». E, tuttavia, le critiche non hanno mai determinato pronunce di illegittimità costituzionale, anche perché il legislatore finora non aveva mai ipotizzato sanzioni direttamente processuali per effetto di un omesso o incompleto pagamento del c.u., ma solo meccanismi di recupero forzoso; ed anzi, una circolare ministeriale (la n. 2 del 12 marzo 2002) espressamente evidenziava come fosse stata «… eliminata la sanzione della irricevibilità, prevista dalla norma originaria, per il caso di omesso pagamento del contributo, che si esponeva a rischi di illegittimità costituzionale».
Ed infatti la Corte Costituzionale, interpellata sulla astratta compatibilità con la costituzione del c.u., con l’ordinanza n. 143 del 2011, di inammissibilità della questione, ha osservato che «la rilevanza della questione potrebbe ravvisarsi solo nell’ipotesi in cui il pagamento del contributo unificato costituisse una condizione di ammissibilità o di procedibilità del giudizio cui accede tale adempimento».
Ora, dunque, di fronte alla sanzione di estinzione connessa al mancato o incompleto pagamento del c.u., parrebbe certa la rilevanza di un’eventuale (probabile) questione di legittimità costituzionale. E, quanto alla sua «non manifesta infondatezza», pare davvero lesivo del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.) subordinare l’accesso alla giustizia al pagamento di una tassa, confondendo così il piano fiscale, suscettibile di mettere in moto meccanismi di recupero e sanzionatori, con quello propriamente processuale finalizzato unicamente all’accertamento dei diritti: si consideri che il “costo” del solo “accesso” al processo – per chi non possa avvalersi del patrocinio a spese dello Stato – può risultare davvero rilevante[1], così introducendo, col meccanismo della estinzione del giudizio in caso di omissione contributiva, una discriminazione su base reddituale tra quanti aspirino alla tutela dei propri diritti o interessi legittimi.
C’è da chiedersi, dunque, perché il legislatore, lo stesso dei vari concordati fiscali e delle sanatorie tombali, sanzioni in modo così pesante sul piano giudiziario una irregolarità fiscale (a cui dovrebbe, comunque, far seguito il recupero forzoso), malgrado appaia estremamente probabile un intervento demolitorio della Corte Costituzionale.
2. Più chiare sono, invece, le intenzioni del legislatore nel successivo art. 106 della legge di bilancio, relativo al «Contributo unificato per le controversie in materia di accertamento della cittadinanza italiana», che introduce nell’art. 13 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 maggio 2002, n. 115, dopo il comma 1-quinquies, il seguente: «1-sexies. Per le controversie in materia di accertamento della cittadinanza italiana il contributo dovuto è pari a 600 euro. Il contributo è dovuto per ciascuna parte ricorrente, anche se la domanda è proposta congiuntamente nel medesimo giudizio».
Attualmente, le controversie di questo tipo, in mancanza di una previsione esplicita, vengono pacificamente considerate di valore indeterminabile e, come tali, assoggettate al contributo unificato di euro 518 previsto dalla lettera d) dell’art. 13 cit. In un colpo solo, e soltanto per questa tipologia di controversie, il c.u. viene aumentato del 16 % circa. Qui la ratio appare chiara: a fronte di un recente aumento numerico di questa tipologia di cause, si è palesata evidentemente l’occasione di “fare cassa”; e poco importa se ciò avverrà nei confronti (e ai danni) di soggetti particolarmente indifesi, come sono oggettivamente quelli che non godono neanche della cittadinanza italiana, moltiplicando peraltro (ed anche questo è un unicum) il contributo per il numero dei richiedenti (ad es. un intero nucleo familiare). Del resto, se non riuscissero a pagare il c.u., ci penserà il giudice ad estinguere la causa.
3. Un’ultima notazione si impone, alla luce di polemiche recenti.
Se un magistrato interviene pubblicamente evidenziando, anche con critiche aspre, possibili profili di incostituzionalità (o, in altre ipotesi, di contrasto con la normativa sovranazionale) di una norma in discussione, non lo fa per sostituirsi al legislatore, e non ha bisogno, come va di moda dire con grossolanità sguaiata, di “togliersi la toga e candidarsi alle elezioni”: egli o ella, piuttosto, adempie ad un dovere di cittadinanza, offrendo un contributo, qualificato dalla propria attività lavorativa, al dibattito pubblico in modo trasparente. Se, poi, approvata quella norma, il medesimo giudice dovesse sollevare una questione di legittimità costituzionale o, in altri casi, rimettere alla Corte di Giustizia il vaglio di compatibilità tra normativa nazionale e comunitaria o disapplicare la normativa interna incompatibile, non si dica, per favore, che fa politica o che è politicizzato: starebbe solo esercitando la funzione giurisdizionale affidatagli dalla Costituzione, dal momento che la soggezione alla legge (ed alla legge soltanto) implica anche il riconoscimento ed il rispetto della gerarchia tra le fonti del diritto.
[1] Art. 13 d.P.R. 115 del 2002:1. Il contributo unificato è dovuto nei seguenti importi:
a) euro 43 per i processi di valore fino a 1.100 euro, nonché per i processi per controversie di previdenza e assistenza obbligatorie …;
b) euro 98 per i processi di valore superiore a euro 1.100 e fino a euro 5.200 …;
c) euro 237 per i processi di valore superiore a euro 5.200 e fino a euro 26.000 e per i processi contenziosi di valore indeterminabile di competenza esclusiva del giudice di pace;
d) euro 518 per i processi di valore superiore a euro 26.000 e fino a euro 52.000 e per i processi civili di valore indeterminabile;
e) euro 759 per i processi di valore superiore a euro 52.000 e fino a euro 260.000;
f) euro 1.214 per i processi di valore superiore a euro 260.000 e fino a euro 520.000;
g) euro 1.686 per i processi di valore superiore a euro 520.000.