Con la sentenza che segue la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione affronta il problema dell'utilizzabilità del reclamo ex art. 35 dell'Ordinamento Penitenziario innanzi al magistrato di sorveglianza per ottenere il risarcimento dei danni patiti per effetto della detenzione subita in spazi angusti in relazione alla violazione di dirtti fondamentali.
La Corte afferma l'inammissibilità del reclamo, trattandosi di diritto che può essere fatto valere solo in sede civile.
L'ampia motivazione, i precedenti, i possibili sviluppi faranno oggetto di un'approfondito commento in un articolo che comparirà sul n. 1 del 2013 di Questione Giustizia "su carta", in corso di pubblicazione, a firma di Carmine Luca Volino
CORTE DI CASSAZIONE
Sez. 1 penale, Sentenza n. 4772 del 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio
Dott. GIORDANO Umberto - Presidente - del 15/01/2013
Dott. ZAMPETTI Umberto - rel. Consigliere - SENTENZA
Dott. BONITO Francesco M.S. - Consigliere - N. 172
Dott. CAPOZZI Raffaele - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. ROCCHI Giacomo - Consigliere - N. 24890/2012
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
VD N. IL 08/11/1948;
avverso l'ordinanza n. 504/2012 GIUD. SORVEGLIANZA di CATANZARO, del 09/05/2012;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. UMBERTO ZAMPETTI;
lette le conclusioni del PG Dott. Alfredo P. Viola, che ha chiesto declaratoria di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 09.05.2012 il Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro dichiarava inammissibile il reclamo proposto L. n. 354 del 1975, ex art. 35 (d'ora in poi Ord. Pen.) dal detenuto VD che, deducendo che durante la lunga carcerazione da lui sofferta erano stati lesi suoi diritti soggettivi, in particolare per la restrizione con altri detenuti in spazi assai angusti, inferiori ai limiti minimi esigibili come previsto anche dalla normativa convenzionale (art. 3 della CEDU), richiedeva che, previa istruttoria volta ad accertare tali lesioni, il Ministero della Giustizia fosse condannato al risarcimento del danno, o ad equo indennizzo, in suo favore.
Argomentava dunque detto Giudice: a) che il danno non patrimoniale derivante dalla lesione ai diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti doveva ritenersi risarcibile, anche se non derivante da reato, come statuito dalla sentenza delle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione n. 26972 in data 11.11.2008, Rv. 605493, ove ricorrano le condizioni di massima ivi previste (che l'interesse leso abbia rilevanza costituzionale; che la lesione a tale interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di dovuta tollerabilità; che il danno non sia futile, ovvero non consista in meri disagi e fastidi); b) che peraltro doveva escludersi che, in base alla normativa vigente, l'azione conseguente potesse essere fatta valere tramite il reclamo previsto dall'art. 35 Ord. Pen., attivato dal V, con la conseguente procedura dettata dall'art. 14 ter cit. legge, dovendosi escludere una sorta di giurisdizione esclusiva della Magistratura di Sorveglianza in materia di diritti dei detenuti; ed invero doveva rilevarsi, da un lato, come l'art. 69 Ord. Pen., che disciplina funzioni e provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza, preveda, al suo comma 5, che detto Giudice "impartisce nel corso del trattamento disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati", in tal senso circoscrivendo l'ambito del suo possibile intervento; dall'altro che attribuire funzioni di accertamento, quantificazione e condanna di tipo risarcitorio sarebbe lettura incostituzionale della normativa, posto che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 341 del 27.10.2006, aveva dichiarato l'illegittimità dell'art. 69 o.p., comma 6, lett. a), relativo alle attività lavorative svolte in ambito penitenziario (in tema di mercede e remunerazione), proprio per l'inidoneità a garantire contraddittorio e difesa della procedura prevista nel giudizio di sorveglianza rispetto a quella generale in materia di lavoro.
In definitiva - concludeva l'ordinanza in esame - doveva escludersi una competenza ex art. 35 Ord. Pen. del Magistrato di Sorveglianza in ordine alla richiesta, di natura risarcitoria, del detenuto istante, pur legata alle condizioni della detenzione, la cui pretesa, dunque, avrebbe dovuto essere fatta valere a mezzo di un'ordinaria azione civile.
2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione l'anzidetto condannato che motivava l'impugnazione, con atto del suo difensore, deducendo violazione di legge nei seguenti termini:
premessa la ribadita sussistenza in capo ad esso V. dei presupposti sostanziali, per le condizioni degradanti della sua lunga detenzione, quanto poi a forme e strumenti della richiesta risarcitoria doveva essere ritenuta la competenza esclusiva della Magistratura di Sorveglianza in tema di diritti soggettivi inerenti il trattamento penitenziario, e dunque anche sulla materia specifica del risarcimento del lamentato danno ascrivibile all'Amministrazione penitenziaria; in proposito il ricorrente rimarcava come la Corte Costituzionale, nelle sue pronunce in tema, avesse ribadito la competenza esclusiva della Magistratura di Sorveglianza quanto ai diritti dei detenuti, rilevando solo l'inadeguatezza dello strumento processuale predisposto (art. 14 ter Ord. Pen.); in mancanza di un conseguente adeguamenti legislativo, doveva comunque prevalere tale competenza da ritenere di natura funzionale e dunque inderogabile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso, infondato, non può essere accolto.
2. Il tema precipuo investito dall'impugnazione attiene alla controversa sussistenza in capo al Magistrato di Sorveglianza della competenza a conoscere della domanda, di natura risarcitoria, relativa alla lesione di diritti soggettivi dedotta da parte di detenuti, nella fattispecie diritti inviolabili della persona costituzionalmente e convenzionalmente garantiti, competenza negata dall'ordinanza impugnata (che, in coerenza, non si pronuncia sul merito dell'istanza).
Tale giudizio, corretto in base alla normativa vigente, deve essere qui convalidato.
3. Punto necessario e prioritario da cui muovere l'argomentazione è che in materia risarcitoria ed indennitaria il sistema normativo prevede in via generale la sua attribuzione alla giurisdizione civile. La summa divisio tra giurisdizione civile e penale è sancita invero dall'art. 1 cod. proc. civ. e dall'art. 1 cod. proc. pen. cui corrispondono le pertinenti norme del vigente Ordinamento Giudiziario.
Da tale presupposto consegue che le attribuzioni al giudice penale di competenze in materia risarcitoria si pongono come eccezioni a tale generale ripartizione e, come tali, devono essere specificamente previste dalla normativa, quali si rinvengono, ad esempio, ove il giudice penale è chiamato a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria del danneggiato da un reato costituito parte civile (art. 74 cod. proc pen.) o su quella per ingiusta detenzione (art. 314 cod. proc. pen.) od anche per riparazione dell'errore giudiziario (art. 643 cod. proc. pen.).
È però certo che una siffatta attribuzione specifica non si riscontra nelle leggi in materia penitenziaria che, in via testuale, non prevedono alcuna attribuzione di competenza alla Magistratura di Sorveglianza della materia risarcitoria o indennitaria pur discendente da quegli aspetti dell'ambito penitenziario, o più strettamente carcerario, che vengono attribuiti alla sua specifica competenza (che è sempre legata alla giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penale). Il dato è pacifico, dovendosi del resto rilevare come il ricorrente, non potendo invocare una specifica disposizione di legge a sostegno del suo assunto, fa appello ad una asserita competenza esclusiva che - egli sostiene - sarebbe ricavabile dal sistema ed avrebbe riscontro in decisioni della Corte Costituzionale. Così, peraltro, non è.
4. Soffermando dapprima l'esame sul dato testuale, deve anzi dirsi, che - quanto alle "violazione dei diritti dei condannati e degli internati" che possano essere rilevate "nel corso del trattamento" - l'art. 69 ord. pen., comma 5, ultima parte, puntualmente prevede che il Magistrato di Sorveglianza impartisca "disposizioni dirette ad eliminare" siffatte eventuali violazioni, così all'evidenza delimitando in modo preciso il campo d'intervento, in coerenza con la generale funzione della Magistratura di Sorveglianza che è quella di vigilare "sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena" (art. 69 ord. pen., comma 1) ai fini di una corretta esecuzione, in termini di legalità, della pena o della misura di sicurezza. È invero fuor di dubbio che le disposizioni dirette ad eliminare le rilevate violazioni hanno proiezione ripristinatoria volta al futuro, e dunque funzione preventiva, ma non possono contenere, per insito limite concettuale, l'ambito di un ristoro risarcitorio per il passato. Nessuno può invero ragionevolmente sostenere che condannare ad un risarcimento sia compreso nel diverso concetto di "eliminare le violazioni", ponendosi le due espressioni su piani diversi. Del resto la stessa clausola di chiusura di cui al cit. art. 69, u.c. secondo cui il Magistrato di Sorveglianza "svolge, inoltre, tutte le altre funzioni attribuitegli dalla legge", giustifica proprio la conclusione che le sue funzioni devono comunque avere un testuale e specifico riferimento normativo - e non se ne rinvengono sul tema risarcitorio - così già ponendo un chiaro limite a quella onnicomprensività per materia (competenza funzionale esclusiva) predicata dal ricorrente. Inoltre, sempre per restare ai dati testuali ricavabili dalla legge fondamentale dell'ordinamento penitenziario, l'art. 35, unico riferimento possibile, in concreto attivato dal ricorrente, prevede che detenuti ed internati possano "rivolgere istanze o reclami, orali o scritti, anche in busta chiusa". Orbene, per quanto se ne voglia dare interpretazione dilatata, non è chi non veda come la stessa terminologia sia lontana da quella che può contrassegnare l'inizio di un'azione civile a contenuto risarcitorio, a parte l'assoluta anomalia che deriverebbe da una causa civile iniziata con istanza orale (ancorché poi verbalizzata) e raccolta anche dal direttore dell'istituto (anche se poi trasmessa al Magistrato di Sorveglianza). Ricordiamo in proposito il disposto dell'art. 99 cod. proc. civ.: "Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente". Anche le azioni civili proponibili in ambito penale, ex art. 74, 314 e 643 cod. proc. pen., devono essere avanzate con domanda al giudice competente. Addirittura clamorose, poi, sono le distonie del procedimento di sorveglianza, rispetto a quello ordinario in ambito civilistico, e non facilmente adattabili (si pensi solo al regime delle prove, alle impugnazioni, ecc.). Occorre dunque riconoscere che l'esame della normativa specifica consente di affermare la coerente saldatura dell'inesistenza, da un lato, di un potere di condanna di natura civilistica in capo al Magistrato di Sorveglianza con l'inesistenza, dall'altro, di una facoltà di analoga richiesta in capo al detenuto o all'internato.
5. Venendo ora all'esame sistematico dell'ordinamento penale in materia penitenziaria, suggerito dal ricorso, si deve parimenti concludere che la magistratura di sorveglianza non ha competenze generali di cognizione se non quelle specifiche in ambito esecutivo (resta eccezionale la disposizione di cui all'art. 680 c.p.c., comma 2, che trova ragione nella specialità della materia); il Magistrato di Sorveglianza, nella sua essenza, resta un giudice che sovrintende all'esecuzione della pena (dato confermato dalla stessa collocazione della figura all'interno del Libro decimo del Cod. Proc. Pen.). Non può dirsi, dunque, che l'ordinamento disegni un suo potere generale di jus dicere per qualsiasi questione afferente i diritti dei detenuti, pur collegati all'esecuzione della pena. Non c'è dubbio che un fatto costituente reato commesso in ambito carcerario, ai danni di un detenuto, anche se, per ipotesi, ad opera di un appartenente all'Amministrazione, non potrebbe essere sottratto alla normale competenza del giudice penale e di certo non potrebbe essere attribuito a quella della Magistratura di Sorveglianza in forza di un' inesistente competenza esclusiva. Nè può essere dubitato che un detenuto che intenda essere risarcito per un danno che egli lamenti, ancorché subito in ambiente carcerario, non potrà essere sottratto al giudice naturale precostituito per legge per tale tipo di vertenza che è il giudice civile, competente per materia e territorio. Tanto deve valere anche ove il danno venga attribuito dal detenuto alla stessa Amministrazione penitenziaria, non essendovi ragioni di differenziazione. Non è chi non veda, dunque, che la tesi di una competenza esclusiva della Magistratura di Sorveglianza in ordine ai diritti dei detenuti prova troppo, perché trascinerebbe in tale ambito tante competenze, creando una sorta di tribunale specializzato del detenuto (simile a quello per i Minorenni) il che l'ordinamento di certo non ha voluto. Quanto fin qui elaborato è confermato poi dall'avvenuta eliminazione, per intervento della Corte Costituzionale, dell'art. 69 ord. Pen., comma 6, lett. a) (sentenza 341/2006) che, se da un lato ha rilevato l'inadeguatezza dello strumento processuale fornito dal rito di competenza penitenziaria (art. 14 ter Ord. Pen.), ha evidentemente escluso, dall'altro, la configurabilità di una pretesa competenza esclusiva.- Nè può dirsi che gli interventi giurisprudenziali in materia, correttamente letti ed inquadrati, abbiano disegnato quella competenza esclusiva che il ricorrente ipotizza. Ed invero si è ben consolidato il principio (v., per tutte, SS.UU. 25079/2003, Gianni) secondo cui il reclamo al Magistrato di Sorveglianza ex art. 35 Ord. Pen. può essere legittimamente attivato - e sempre ai fini di ottenere dallo stesso disposizioni dirette ad eliminare le relative violazioni - solo in ipotesi che la doglianza investa un diritto soggettivo (ad esempio in tema di tutela della salute) che il detenuto assume violato o compresso ad opera della Amministrazione, restandone fuori quelle lamentele che non raggiungono tale livello (e la casistica è quanto mai ampia : ad esempio la ricezione della televisione). Ciò significa una limitazione alla tutela giurisdizionale in tema di reclamo generico, restandone escluse doglianze che trovano collocazione nell'ambito amministrativo, ma non significa certo che tutti i diritti soggettivi che si pretendono violati debbano necessariamente essere convogliati alla Magistratura di Sorveglianza e tutelati con gli strumenti processuali, spediti e contratti, previsti dal relativo ordinamento. Anche in base all'esame sistematico della vigente normativa, dunque, e pur alla stregua del bagaglio giurisprudenziale in materia, deve essere escluso che sussista una sorta di competenza esclusiva della Magistratura di Sorveglianza in materia di tutti i diritti soggettivi dei detenuti. Non va poi sottovalutato - ed anzi è argomento primario - che comunque la procedura ex art. 14 ter Ord. Pen., imposta dall'art. 69, comma 6, concepita avendo a mente le necessità di speditezza insite nella materia penitenziaria, neppure prevede la comparizione dell'Amministrazione penitenziaria che, invece, in ipotesi sarebbe la parte convenuta che dovrebbe essere condannata, ammettendo solo - quale ben limitata difesa - la presentazione di memorie. Si produrrebbe pertanto la stessa situazione che ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 69, comma 6, lett. a), per insufficiente contraddittorio, compressione dei diritti difensivi e disparità di trattamento rispetto alle normali procedure per domande di carattere risarcitorio davanti alla giurisdizione civile. Una lettura costituzionalmente orientata impone, dunque, di evitare siffatta conseguenza che sarebbe connessa - in mancanza di interventi legislativi- alla tesi sostenuta dal ricorrente.
6. In definitiva la ricognizione dello stato attuale della pertinente normativa deve far escludere che alla Magistratura di Sorveglianza sia attribuita la competenza a pronunce su domande di carattere risarcitorio pur derivanti da pretese violazioni di diritti soggettivi di detenuti anche se connessi allo stesso stato di detenzione.
In definitiva ancora deve affermarsi che la Magistratura di Sorveglianza non ha competenza esclusiva sui diritti dei detenuti, ma attribuzioni specifiche legate all'esecuzione penale. In materia di diritti di cui si assuma la violazione, la Magistratura di Sorveglianza ha il riconosciuto potere di impartire disposizioni all'Amministrazione con un accertamento, quindi, assolutamente incidentale ed a tale specifico fine preventivo, quello di eliminare eventuali violazioni. Risarcimento o indennità restano, nell'attuale stato della legislazione, nell'ambito della ordinaria competenza del giudice civile.
7. Il quadro fin qui delineato non viene in contrasto, nelle sue linee generali, con i principi sanciti dalla CEDU, anche se resta l'indiscutibile insufficienza del sistema allo stato della normativa vigente. La Corte Europea, che già si era pronunciata affermando la necessità che in ambito carcerario siano rispettati i diritti fondamentali della persona, ed imponendo che la loro eventuale violazione avesse effettivo rimedio (v. decisione 16.07.2009, Sulejmanovic contro Italia), ha del tutto recentemente ribadito tali principi (si veda caso Torregiani ed altri contro Italia, decisione 08.01.2013) investendo sostanzialmente tre piani diversi ma tra loro funzionalmente collegati: 1) un nuovo disegno delle previsioni sanzionatorie e delle modalità di esecuzione, con più ampio ricorso alle misure alternative, ed un rafforzamento delle strutture logistiche; 2) un sistema che assicuri effettività alla sollecita eliminazione delle violazioni in concreto rilevate; 3) un esito compensativo per chi abbia sofferto violazione dei diritti fondamentali. Il primo profilo è di spettanza costituzionale del Legislatore o di competenza del Governo. Per gli altri due il giudice nazionale, per i casi a lui sottoposti, deve procedere alla ricognizione del sistema, anche con interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. In tal senso va rilevato come, nella sopra citata ultima pronuncia della CEDU, si prenda atto che il rimedio offerto dall'ordinamento interno dato dalla legge penitenziaria (con riferimento proprio al reclamo ex art. 35 Ord. Pen.) è ritenuto, con quell'interpretazione che in questa sede si convalida (si citano anche le ordinanze 18.04.2011 del Magistrato di Sorveglianza di Vercelli e 24.12.2011 di quello di Udine, tesi maggioritaria, restando isolata la contraria opinione espressa dal giudice penitenziario di Lecce in data 09.06.2011), avere carattere preventivo, proprio assolvendo - ove ne segua effettività di esecuzione - alla funzione di eliminare il protrarsi di eventuali violazioni. Si tratta di ricorso accessibile, ma la cui reale effettività è limitata dalla incapacità delle strutture di far fronte al sovraffollamento delle carceri. La stessa decisione della CEDU, però, come detto, avverte che le accertate violazioni comportano obblighi per lo Stato non solo di carattere preventivo, e cioè di eliminare le violazioni (per cui è predisposto lo strumento ex art. 35 Ord. Pen.), ma anche compensativo, e cioè del ristoro per il detenuto che abbia visto riconosciuto la violazione dei suoi diritti soggettivi, prevedendo perciò la (peraltro già affermata) risarcibilità di tali riscontrate violazioni. Proprio la scarsa efficacia concreta del rimedio preventivo (che imporrebbe reclami continui, in presenza di una sovraffollamento sistemico), e la ben nota lunghezza della via dell'azione risarcitoria in sede civile hanno condotto la CEDU ad impartire all'Italia la disposizione di predisporre rimedi appropriati, pronti ed effettivi, e cioè di modificare i ricorsi esistenti o crearne di nuovi. Non c'è dubbio, in definitiva, che non può trarsi dalla giurisprudenza della CEDU il principio che l'aspetto compensativo (o risarcitorio), che pure si impone, debba essere compreso di necessità nell'ambito del ricorso alla Magistratura di Sorveglianza, avendo i giudici comunitari ribadito che il profilo preventivo che ne emerge (che pure può rivelarsi in concreto scarsamente efficace) non è esaustivo degli obblighi per lo Stato, ma non avendo indirizzato una particolare lettura della normativa, ne' dato limiti ristretti allo Stato per l'adeguamento. Non è questa la sede per individuare i percorsi normativi de jure condendo per l'anzidetto sollecito adeguamento sul piano dei più efficaci rimedi preventivi e, per quel che qui interessa, compensativi (anche se non mancano nel sistema istituti che possono fornire spunti di riflessione: si pensi all'art. 314 Cod. Proc. Pen.), ferma restando l'imprescindibile necessità di provvedere ai profili logistici ed alle più ampie misure alternative, ma resta la conclusione che lo stato attuale della normativa esclude il profilo compensativo dall'ambito di competenza della Magistratura di Sorveglianza, ne' un tanto può direttamente trarsi dalla giurisprudenza della CEDU.
8. Il ricorso deve perciò essere rigettato. Alla completa reiezione dell'impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell'art. 616 cod. proc. pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.