1. Il caso López Ribalda: i controlli difensivi nell’ordinamento spagnolo
Nei due anni successivi all’adozione della decisione di Grande Camera Bărbulescu c. Romania, la Corte di Strasburgo è tornata più volte a pronunciarsi sul tema della protezione del diritto alla privacy nel contesto dei controlli a distanza sul lavoratore (c.d. tecnologici), nonché sull’utilizzabilità in giudizio dei dati raccolti per mezzo di essi: prima con la sentenza Antović e Mirković c. Montenegro del 18 novembre 2017 (ricorso n. 70838/13), poi con le sentenze López Ribalda c. Spagna n. 1 del 9 gennaio 2018 (ricorso n. 1874/13) e Libert c. Francia del 22 febbraio 2018 (ricorso n. 588/13), ed infine, nuovamente in composizione di Grande Camera, con la sentenza López Ribalda c. Spagna n. 2 del 17 ottobre 2019 (ricorsi n. 1874/13 e 8567/13).
Nel caso López Ribalda il datore di lavoro, gestore di un supermercato, riscontrava una serie di discrepanze tra il livello delle scorte di magazzino e gli incassi di fine giornata. Sospettando che ciò dipendesse da illecite condotte appropriative di beni e/o denaro aziendale poste in essere da uno o più dipendenti, provvedeva ad installare all'interno del negozio dei dispositivi di videoripresa. Ne collocava alcuni, in posizione ben visibile, a sorveglianza dei varchi d’uscita. Ne occultava altri, all'insaputa dei lavoratori, in posizione utile alla sorveglianza generalizzata ed indistinta di tutto il personale di volta in volta addetto al bancone di cassa (covert video surveillance). Ciò avveniva nonostante il codice per la protezione dei dati personali spagnolo imponesse, senza apparenti deroghe, l'obbligo di farne comunicazione ai lavoratori in modo chiaro ed esauriente, nonché l’obbligo di compiuta informazione circa le modalità di trattamento dei dati personali acquisiti con tale mezzo. Grazie ai filmati così ottenuti, venivano individuati e licenziati i responsabili delle accertate sottrazioni. Costoro adivano le corti nazionali lamentando la lesione del proprio diritto alla privacy (art. 8 Cedu) nonché, sotto il profilo processuale, la violazione del diritto di difesa asseritamente cagionato dall'utilizzazione in giudizio dei dati occultamente carpiti quali prova a loro carico (art. 6 Cedu). Le corti nazionali rigettavano ogni domanda ritenendo che la condotta datoriale denunziata, considerate le circostanze del caso, fosse da reputarsi lecita e proporzionata all'entità dei fatti posti a giustificazione dei licenziamenti: sia in quanto imposta dalla necessità di assicurare adeguata protezione ai diritti patrimoniali del datore di lavoro, sia in quanto l’unica in grado di preservare l'interesse alla conservazione del patrimonio aziendale comportando al contempo il minor sacrificio possibile dei diritti dei lavoratori destinatari dell'attività di sorveglianza.
L'approccio seguito dai giudici spagnoli ricorda, per certi versi, il percorso giurisprudenziale che in Italia ha condotto all'elaborazione della teoria dei c.d. controlli difensivi. Tale categoria tipologica comprende, come noto, quelle attività di sorveglianza a distanza, quali ad esempio il monitoraggio degli accessi alla rete Internet o del sistema di posta elettronica aziendale, poste in essere per mezzo di strumenti tecnologici non allo scopo di verificare l'esatto adempimento delle obbligazioni contrattuali da parte dei lavoratori – in quanto tale tradizionalmente vietato dalla formulazione letterale dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, recentemente sostituito dall'art. 23, comma 1, d.lgs. 24 settembre 2016, n. 185 – bensì al fine di accertare la commissione di condotte illecite lesive del patrimonio aziendale ovvero pericolose per la sicurezza del luogo di lavoro[1].
2. Il giudizio di proporzione del controllo da remoto nella valutazione della Corte Edu
Come noto, l’art. 8 Cedu, così come gli altri diritti convenzionali c.d. “non assoluti” – quali, ad esempio, l’art. 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione), l’art. 10 (libertà di espressione) l’art. 11 (libertà di riunione e di associazione), ovvero l’art. 2 del Protocollo n. 4 (libertà di circolazione) – presenta una struttura bipartita. Esso è costituito da un primo paragrafo enunciante il contenuto del diritto tutelato e da un secondo paragrafo che enuclea i tre presupposti in presenza dei quali ogni Stato membro è legittimato a sottoporre a restrizioni (interferences), eventualmente anche ad opera di privati nei rapporti orizzontali, l’esercizio del diritto definito dal primo paragrafo: a) che la restrizione trovi fondamento nella legge; b) che la restrizione sia giustificata dalla necessità di perseguire almeno una delle finalità legittime, tassativamente elencate dalla norma; c) che la restrizione sia necessaria in una società democratica. Sicuramente deve considerarsi legittimo, alla luce della giurisprudenza sia nazionale[2], sia convenzionale[3], il fine di indirizzare il controllo alla “protezione dei diritti […] altrui” (art. 8 par. 2 Cedu), identificabile non solo nella salvaguardia degli interessi patrimoniali aziendali, ma anche nel regolare svolgimento dell’attività aziendale.
La ratio decidendi della sentenza di Camera López Ribalda 1 si concentra sul rilievo che, nel caso di specie, l'attività di “sorveglianza occulta” si è risolta in una misura di controllo diretta a colpire indistintamente l’intero staff impiegato presso il punto vendita, ritenuta in quanto tale sproporzionata rispetto al fine (in sé legittimo) di tutelare l'interesse organizzativo-patrimoniale del datore di lavoro. La Corte ha pertanto ritenuto che lo Stato convenuto, omettendo di sanzionare tale sproporzione, abbia fallito il giudizio di bilanciamento imposto dall'art. 8, par. 2 Cedu. Dalla violazione del diritto sostanziale alla tutela della vita privata è conseguita, in un certo senso a cascata, la violazione anche del diritto al fair trial, alla stregua di ricaduta processuale dell’illiceità dell’interferenza ravvisata a monte, quasi si trattasse del frutto di un albero avvelenato[4].
Il giudizio di sproporzione operato dalla Corte è ulteriormente fondato sul rilievo che la legge spagnola espressamente disciplina un articolato bagaglio di strumenti normativi a protezione della privacy sul luogo di lavoro, idoneo a fondare un ragionevole affidamento di tutela da parte dei ricorrenti, in quanto tale rilevante non solo quale base legale su cui fondare una determinata limitazione di un diritto fondamentale (in accordance with the law), ma anche alla stregua di autonoma struttura di bilanciamento del giudizio di necessità in una società democratica.
È utile ricordare a tale proposito che la Corte, nella sentenza Bărbulescu 2, ha individuato l'elenco delle garanzie che l'ordinamento nazionale deve necessariamente assicurare nella protezione del diritto alla privacy sul luogo di lavoro, pena la violazione degli standards di tutela stabiliti dall'art. 8 della Convenzione, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu. Si impone pertanto la verifica:
«(i) se il dipendente sia stato preventivamente informato della possibilità che il datore di lavoro controlli la corrispondenza e altre comunicazioni e dell’attuazione di tali misure;
(ii) quale sia l’estensione del controllo da parte del datore di lavoro e il grado di intrusione nella privacy del dipendente, distinguendo in proposito tra il monitoraggio del flusso delle comunicazioni e del loro contenuto, nonché il carattere totale o parziale dei dati monitorati, la durata nel tempo del monitoraggio, il numero di persone che hanno avuto accesso ai risultati, l’esistenza o l’assenza di limiti spaziali del monitoraggio;
(iii) se il datore di lavoro abbia fornito motivazioni legittime per giustificare il monitoraggio delle comunicazioni e l’accesso ai loro contenuti effettivi, posto che il monitoraggio del contenuto delle comunicazioni è per natura un metodo chiaramente più invasivo, richiede una giustificazione più ampia;
(iv) se fosse stato possibile istituire un sistema di monitoraggio basato su metodi e misure meno intrusivi che non accedere direttamente al contenuto delle comunicazioni del dipendente, e se dunque l’obiettivo perseguito dal datore di lavoro avesse potuto essere raggiunto senza accedere direttamente all’intero contenuto delle comunicazioni del dipendente;
(v) quali siano le conseguenze del monitoraggio per il lavoratore subordinato e quale l’uso da parte del datore di lavoro dei risultati dell’operazione di monitoraggio, in particolare se tale uso sia conforme con lo scopo perseguito e dichiarato, e se sia necessario in relazione allo stesso;
(vi) se siano state predisposte adeguate misure di salvaguardia in favore del lavoratore, in particolare quando le attività di controllo del datore di lavoro siano di natura intrusiva, prevedendosi ad esempio che il datore di lavoro non possa accedere al contenuto effettivo delle comunicazioni, a meno che il lavoratore non sia stato avvisato in anticipo di tale eventualità».
Con la sentenza López Ribalda 2 la Corte ha riorientato il proprio approccio interpretativo, in particolare operando un nuovo bilanciamento degli interessi convenzionalmente rilevanti in gioco – da un lato la protezione della privacy del lavoratore, dall’altro lato l’interesse del datore di lavoro alla protezione del patrimonio aziendale – questa volta ritenendo che le autorità domestiche, e concretamente le corti nazionali, abbiano correttamente valutato che le misure adottate a tutela della privacy dei ricorrenti fossero appropriate e proporzionate rispetto allo scopo legittimamente perseguito.
3. Il caso (quasi) gemello Köpke c. Germania: il carattere non tassativo del presupposto convenzionale dell’informazione preventiva
Con tale pronunzia la Corte Edu ha dimostrato di volersi riallineare all’orientamento interpretativo già espresso nel caso, per certi versi simile, Köpke c. Germania (ricorso n. 420/07), deciso con sentenza del 5 ottobre 2010. Analogamente a quanto avvenuto in López Ribalda, il datore di lavoro aveva videoregistrato senza preavviso la condotta di due lavoratori sul luogo di lavoro sospettati di essere responsabili di una serie di furti in un supermercato. Tuttavia nel caso tedesco i sospetti e le conseguenti attività di controllo si concentravano su lavoratori specificamente individuati, anziché indirizzarsi indistintamente alla generalità dell'organico aziendale. Come osservato dai tribunali tedeschi, l’attività di videosorveglianza era stata effettuata solo dopo che le perdite erano state riscontrate in occasione dell’inventario di magazzino e le irregolarità scoperte nei conti del dipartimento in cui lavoravano i due lavoratori, sollevando un sospetto ragionevole ed individualizzato sulle loro persone. La misura era stata limitata nel tempo (due settimane) e rivolta alla sola area circostante la cassa ed accessibile al pubblico. I dati visivi ottenuti, elaborati da un numero limitato di persone appartenenti in parte allo staff di un’agenzia investigativa, in parte all’organico aziendale, venivano utilizzati esclusivamente in connessione con la cessazione del rapporto di lavoro ed il relativo procedimento dinanzi ai tribunali del lavoro. I tribunali nazionali pertanto hanno ritenuto che l’interferenza nella vita privata fosse stata in concreto limitata a quanto necessario per raggiungere lo scopo al quale la videosorveglianza era preordinata, e che per il datore di lavoro non vi fosse concretamente a disposizione altro mezzo di protezione del proprio diritto di proprietà. La Corte Edu ha quindi escluso la sussistenza di elementi tali da far ritenere che le autorità nazionali avessero fallito nell’individuare un giusto punto di equilibrio, nel rispetto del margine di apprezzamento riconosciuto alle autorità nazionali, tra il diritto del ricorrente al rispetto della vita privata e l’interesse del datore di lavoro alla tutela dei suoi diritti di proprietà.
La Corte ha anche ribadito che nella prospettiva convenzionale, una certa restrizione del diritto alla privacy può e deve essere considerata in accordance with the law non solo in presenza di un fondamento legale certo ed esaustivo, bensì anche in presenza di orientamenti interpretativi giurisprudenziali consolidati i quali, così come avvenuto in Köpke, permettano di colmare l’eventuale deficit di accessibilità e/o prevedibilità del dato legislativo formale. Tale rilievo assume particolare rilevanza ai fini di un esaustivo inquadramento della dottrina nazionale dei controlli difensivi, rispetto alla quale la nostra giurisprudenza ha ritagliato in via pretoria – sostanzialmente praeter legem – un’area immune ai vincoli di legittimità imposti dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori. Analogamente, nel caso López Ribalda i giudici nazionali giudicavano la condotta datoriale legittima nonostante la legge spagnola non prevedesse alcun esplicito esonero dall’adempimento dell’obbligo di offrire ai lavoratori sottoposti a controllo una compiuta informazione preventiva.
Risulta particolarmente rilevante che in López Ribalda 2 la Corte abbia escluso la sussistenza di una violazione nonostante il datore di lavoro non avesse preventivamente avvisato i lavoratori della possibilità di essere sottoposti a videosorveglianza anche negli spazi aziendali in cui le condotte illecite sono poi state poste in essere. La Corte ha argomentato che le specifiche circostanze caratterizzanti il caso di specie, e in particolare l’esistenza di un sospetto ragionevole e circostanziato circa la commissione di gravi illeciti contro il patrimonio aziendale, recano in sé un peso giustificativo tale da costituire sufficiente elemento di bilanciamento in considerazione delle concrete modalità con cui l’interferenza nella sfera privata dei lavoratori è stata realizzata.
L’approdo interpretativo cui la Corte è pervenuta in López Ribalda 2 getta nuova luce interpretativa sul contenuto dell’elenco elaborato dalla Corte nel noto paragrafo 121 della sentenza Bărbulescu c. Romania 2, il quale evidentemente deve essere inteso non alla stregua di catalogo tassativo dei presupposti sempre e comunque necessari e sufficienti a legittimare il controllo a distanza del lavoratore, bensì quale sintesi di indici particolarmente sintomatici della proporzione/sproporzione dell’atto di controllo rispetto al fine cui esso è preordinato, la cui ponderazione è rimessa al giudice di merito per mezzo di un complessivo giudizio di bilanciamento che tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto.
Questa conclusione sembra valida, almeno in linea di principio, ogni qualvolta la Corte EDU stabilisca presupposti, condizioni, requisiti di legittimità di cui il giudice nazionale debba tener conto quando sia chiamato ad effettuare un bilanciamento dei diversi interessi convenzionalmente rilevanti nella trattazione di fattispecie che ricadano nell'ambito di applicazione della Convenzione[5].
Tale considerazione non appare scontata nel quadro del nostro diritto nazionale, in particolare per quanto attiene l’interpretazione dell'art. 4 dello statuto dei lavoratori il quale, all'ultimo comma, prevede espressamente quale requisito di utilizzabilità in giudizio dei risultati degli atti di controllo c.d. “telematico” che sia data al lavoratore adeguata informazione preventiva. Presupposto che, in difetto di un approccio interpretativo convenzionalmente orientato, rischierebbe di essere trattato alla stregua di condizione tassativa ed imprescindibile di liceità dell’atto di controllo, e quindi sostanzialmente non bilanciabile[6]. Se poi il giudice nazionale ritenesse che una tale interpretazione fosse impraticabile in quanto contrastante con il campo delle possibilità semantiche legittimamente ricavabili dalla norma interpretata, dovrebbe essere quanto meno saggiata la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117 Cost. dell’art. 4, ultimo comma dello statuto dei lavoratori nella parte in cui contempla l’obbligo di adeguata informazione al lavoratore circa “le modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli” alla stregua di condizione necessaria e tassativa di lecita utilizzazione delle informazioni raccolte, anziché presupposto suscettibile di bilanciamento alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.
In conclusione, la sentenza López Ribalda 2 merita particolare attenzione non solo per il merito di causa di per sé considerato, ma anche per l’ulteriore stimolo rivolto al giudice nazionale circa l’atteggiamento interpretativo ed applicativo che la giurisdizione è chiamata ad assumere ogni qualvolta sia implicata l’implementazione per via giudiziaria delle garanzie convenzionali.
4. La videosorveglianza in luogo esposto al pubblico
Da ultimo, è interessante che in López Ribalda 2 è anche contenuta la riaffermazione del principio già statuito nella sentenza Antović e Mirković c. Montenegro, ove la Corte ha chiarito che la mera circostanza che la prestazione lavorativa avesse svolgimento in luogo pubblico non valeva di per se sola ad escludere l’ambito applicativo dell’art. 8 della Convenzione. Nella specie, due professori universitari lamentavano che costituisse un’indebita violazione del loro diritto alla privacy la decisione assunta dall’Università del Montenegro di installare videocamere di sorveglianza nelle aule d’insegnamento, all’asserito scopo di proteggere l’incolumità delle persone e il patrimonio dell’Università. Le corti domestiche rigettavano le domande risarcitorie sull’assunto che non possa porsi un problema di tutela della vita privata in relazione a condotte poste in essere in luogo pubblico (ovvero esposto al pubblico, secondo la nostra terminologia giuridica nazionale). La Corte Edu, pronunciandosi sul ricorso, ha ampliato i limiti dell’ambito applicativo dell’art. 8 Cedu: a giudizio dalla Corte, infatti, anche quando il luogo di lavoro è pubblico o aperto/esposto al pubblico, l’aspettativa di protezione del diritto alla privacy del lavoratore non svanisce per ciò solo. La decisione, nel sancire la sproporzione dell’ingerenza statale, ha ritenuto che le dichiarate finalità protettive dell’incolumità pubblica e del patrimonio dell’ente non fossero di rilevanza tale da poter bilanciare le misure restrittive adottate dall’Università, in quanto quest’ultima avrebbe ben potuto impiegare ulteriori differenti mezzi a sua disposizione, meno invasivi ma ugualmente idonei ad assicurare il perseguimento dello scopo[7].
* Francesco Buffa, consigliere di Cassazione, Francesco Perrone, giudice del lavoro presso il Tribunale di Padova
[1] Cfr., ex multis, le sentenze della Corte di Cassazione n. 4746 del 3 aprile 2002, pronunciata in un caso di controllo sull'utilizzo extraprofessionale della rete telefonica aziendale, e n. 10955 del 27 maggio 2015, riguardante un caso di accesso all'account personale Facebook di un dipendente.
[2] Ex multis, Cass. n. 12810/2017, n. 5269 e n. 14383/2000.
[3] Ex multis, Corte Edu, GC, 5 settembre 2017, Bărbulescu c. Romania, n. 61496/08.
[4] Cfr. US Supreme Court, Nardone c. United States, n. 240, 11 Dicembre 1939, https://supreme.justia.com/cases/federal/us/302/379/
[5] Cfr., in questo senso, Tribunale di Padova, ordinanza 2 ottobre 2019, n. R.G. 1774/2019.
[6] Cfr. Corte Cost. sentenze nn. 348 e 349 del 2007, da ultimo ribadite in sentenza n. 25 del 2019.
[7] Cfr., in tema di videosorveglianza in luogo pubblico, la decisiva sentenza del 28 gennaio 2003 Peck c. Regno Unito, n. 44647/98). Se diversamente fosse, il mero fatto di trovarsi in luogo pubblico determinerebbe de plano una declaratoria di inammissibilità del ricorso per incompatibilità ratione materiae con la Convenzione ai sensi dell’art. 35, par. 3, lett. a) Cedu.