1. Il recente caso Internation Parenthood Federation European Network (IPPF EN) v.Italy (n. 87/2012), deciso lo scorso marzo dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali, organismo del Consiglio d’Europa, permette di tornare a riflettre sull’obiezione di coscienza prevista dall’art. 9 della legge 194/1978 e sul delicato bilanciamento con gli altri diritti fondamentali coinvolti, in primis quello alla salute della donna.
E’ noto, invero, come la legge 194 abbia comportato una medicalizzazione dell’aborto, che ha confinato il diritto ad accedere all’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) della donna nell’alveo del diritto alla salute della stessa, e non già in quello di autodeterminazione (da ultimo cfr. A. Lorenzetti, Le donne, in P. Cendon – S. Rossi (a cura di), I nuovi danni alla persona. I soggetti deboli, I, Aracne, Roma, 2013).
Il risultato di tale scelta è che, ancora oggi, il dibattito giuridico e biopolitico sull’aborto appare fervente, nonostante, come è stato notato dalla critica femminista, la legge 194 non sia una “buona” legge che liberalizza l’aborto – il quale di per sé rimane vietato ed è permesso solo nei limiti e nelle forme dalla legge –, ma una“cattiva legge” che – lì dove ha effettivamente funzionato – ha funzionato perché disapplicata (cfr.T. Pitch, Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità, il Saggiatore, Milano, 1998).
Nelle maglie della legge 194, infatti, l’aborto appare più una concessione dello Stato che un diritto della donna, come dimostra la circostanza che chi richiede una IVG è tenuta, in ogni caso, a giustificare la propria decisione sulla base di carenze, mancanze, difficoltà soggettive che il medico deve sanzionare: ciò, sul piano culturale e simbolico, equivale a dire che le donne non hanno la piena disponibilità del proprio potenziale riproduttivo (T. Pitch, op. cit; ma nell’ottica del femminismo giuridico si veda anche M.R. Marella, Le donne, in L. Nivarra, Gli anni Settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, in particolare p. 353 ss.).
Ed in effetti, è questo il punto dolente, la concreta applicazione della legge 194/78 è subordinata al comportamento di una “ristrettissima categoria professionale dotata di particolari capacità tecniche (ostetrici e ginecologi)” (così A. Pugiotto, Obiezione di coscienza nel diritto costituzionale, in Dig. disc. pubbl., Utet, X, 1995, p. 254), in grado di condizionare non poco la scelta e la salute delle donne: più alto è il numero di obiettori, più difficoltà troverà difatti la donna ad accedere all’IVG.
A ben vedere, allora,quello che nel recente passato appariva il tallone d’Achille della normativa italiana sull’aborto, e più in generale sulle scelte procreative (v. legge 40/2004), è stato l’aver costruito (e di continuare a costruire) le “situazioni giuridiche” dei soggetti coinvolti – donna e feto – partendo dai diritti fondamentali alla salute ex art. 32 Cost. ed alla vita ex art. 2 Cost.; tendenza che acuisce gli elementi di conflitto non solo tra feto e donna, ma pure – con il riconoscimento dell’obiezione di coscienza – tra personale sanitario e donna.
Soggetti che, tuttavia, sono giuridicamente costruiti come portatori di situazioni giuridiche soggettive spesso contrapposte e in conflitto, anziché in maniera relazionale come richiederebbe la stessa Costituzione (art. 31, comma secondo) che tutela la maternità come rapporto di interdipendenza, un unicum inscindibile (cfr. M.R. Marella, Esercizi di biopolitica, in Riv. crit. dir. priv., n. 1/2004, p. 1 ss.).
Costruzione giuridica di soggetti potenzialmente in conflitto che emerge anche dalla giurisprudenza costituzionale: la stessa Corte costituzionale, nella sentenza 27 del 1975, subordina sì l’interesse del feto a nascere a quello alla salute della donna, ma nel mentre salda il primo all’art. 2 Cost., non riconosce alla libertà procreativa della donna alcun rilievo costituzionale (spunti critici in S. Niccolai, La legge sulla fecondazione assistita e l’eredità dell’aborto; sull’aborto e i modelli normativi che possono disciplinarlo cfr. M. D’Amico, Donna e aborto nella Germania riunificata, Giuffrè, Milano, 1994).
Se questi appaiono i limiti della medicalizzazione dell’aborto, d’altra parte è proprio il diritto alla salute che, negli ultimi anni, si sta dimostrando in Europa un prezioso grimaldello per la tutela di situazioni giuridiche che oltre Oceano troverebbero tutela sotto l’ombrello della privacy, quale espressione dell’autodeterminazione nella costruzione della propria personalità.
Tale potenzialità del diritto alla salute, peraltro, pare confermata anche dalla decisione in commento, ove il Comitato Europeo dei Diritti Sociali constata la violazione dell’art. 11, parte I (diritto alla salute) in combinato disposto con l’art. E, parte V (non-discriminazione) della Carta Sociale Europea (riveduta nel 1996) da parte dell’Italia, in riferimento all’accesso all’IVG come disciplinata dalla legge 194/1978.
Il Comitato, si badi, non è stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’obiezione di coscienza o sulla legittimità di un diritto di abortire in capo alle donne ai sensi della 194, ma sul modo in cui sono organizzati in Italia i servizi sanitari di assistenza sessuale e riproduttiva, per stabilire se sia garantito o meno, in maniera effettiva, il diritto alla salute delle donne che chiedono di accedere ad interventi abortivi. Norma primaria di riferimento del Comitato è, per l’appunto, l’art. 11, parte I, della Carta Sociale Europea, il quale statuisce che “Ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del miglior stato di salute ottenibile”.
2. Il caso, in particolare, trae origine dal reclamo presentato al Comitato nell’agosto del 2012 dall’Organizzazione non governativa IPPF EN, la quale ha lamentato una presunta violazione da parte dello Stato italiano della legge 194 a causa del crescente numero di medici e personale sanitario obiettori di coscienza, che impediscono la tutela dei diritti delle donne che vogliano accedere all’aborto, finendo per produrre un vero e proprio “sabotaggio” della stessa legge italiana (così in dottrina P. Veronesi, Il corpo e la Costituzione. Concretezza dei «casi» e astrattezza della norma, Milano, Giuffrè, 2007, p. 141). L’art. 9 della legge 194, invero, pur prevedendo l’obbligo per strutture ospedaliere e Regioni di assicurare l’accesso alla pratica dell’aborto, non indica quali misure specifiche devono essere adottate al fine di garantire una corrispondente presenza di personale medico non obiettore in tutti gli ospedali pubblici.
Il Governo italiano, paternalisticamente, ha impostato la difesa sul presupposto che la legge 194 raggiunge un giusto e necessario equilibrio tra il diritto alla vita e alla salute della donna (artt. 2 e 32 Cost.) e la libertà di coscienza del personale sanitario (artt. 2, 19, 21 Cost.) in tema di aborto, per cui l’apparente impedimento all’accesso all’IVG provocato dal numero elevato di obiettori non può essere interpretato come una violazione dell’art. 11 della Carta Sociale Europea.
Ed anzi, la disciplina della legge 194 dovrebbe rientrare nell’ambito del “margine di apprezzamento” spettante agli Stati contraenti per limitare alcuni diritti tutelati dalla Carta, quando ciò sia necessario in una società democratica per proteggere – nel caso di specie – “i diritti e le libertà di terzi” e “la salute pubblica”.
Nel ragionamento del Governo, il punto di equilibrio tra i differenti diritti in gioco è l’art. 9 della legge 194, il quale, da un lato, esonera il personale sanitario che obietti dal“compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinarel’interruzione della gravidanza”, ma non dall'assistenza “antecedente e conseguente all’intervento” (comma terzo); dall’altro obbliga le Regioni a controllare e garantire, anche attraverso la mobilità del personale, che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate assicurino “in ogni caso”l’espletamento delle procedure abortive (comma quarto). Per cui, qualora una donna dovesse trovare difficoltà nell’accesso all’IVG può ben chiedere tutela attraverso procedimenti amministrativi o giudiziari. In fatto, poi, il Governo fornisce una serie di dati da cui emerge che il carico di lavoro per i ginecologi non obiettori negli ultimi trent’anni si è dimezzato, per cui bisognerebbe trarne il buon operato delle Regioni e del Servizio Sanitario Nazionale a tutela di una procreazione cosciente e responsabile.
3. Nell’accertare l’infrazione della Carta Sociale Europea, il Comitato analizza in primo luogo le norme giuridiche nazionali e sovranazionali rilevanti, per poi ripercorrere gli approdi giurisprudenziali più significativi dei giudici italiani ed europei. All’esito dell’esame dei dati giuridici e fattuali, il Comitato riscontra la violazione dell’art. 11 della Carta dei Diritti Sociali, poiché il servizio sanitario italiano non è organizzato in modo tale da garantire sempre la disponibilità di personale medico e ausiliario che non obietti, tenendo conto del fatto che il numero e la tempistica delle richieste di aborto non può essere determinato in anticipo.
Né può considerarsi conforme alla medesima Carta quanto prospettato dal Governo italiano, ossia che la risoluzione di eventuali problemi incontrati dalle donne in itinere nell’accesso alle procedure di aborto sia lasciato, in ultima istanza, alla determinazione delle autorità amministrative o giudiziarie: ciò richiederebbe tempi troppo lunghi, con conseguenti danni alla salute della donna richiedente. Senza contare che spesso gli stessi giudici di merito si sono dimostrati sul punto eccentrici, come mostra l’ordinanza Trib. Spoleto, n. 60 del 2012 con la quale si è sollevata alla Corte costituzionale – che in seguito ha dichiarato manifestamente inammissibile con ord. 196/2012 – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 della legge n. 194, nella parte in cui prevede la facoltà della donna, in presenza delle condizioni ivi stabilite, di procedere volontariamente alla interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni dal concepimento, per contrasto con gli articoli 2, 32, primo comma, 11 e 117, primo comma della Costituzione (cfr. S. Rossi, Se il diritto è una terra straniera: note sull’ordinanza spoletana in tema di aborto, in www.forumcostituzionale.it, 3 novembre 2012; S. Attollino, Obiezione di coscienza e interruzione volontaria della gravidanza: la prevalenza di un’interpretazione restrittiva, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 33/2013).
Come tutti gli altri servizi sanitari, allora, anche l’IVG deve essere garantita a priori dalle strutture sanitarie autorizzate in tutte le Regioni italiane. Dai dati forniti dai reclamanti e dal Governo italiano, difatti, emerge una vera e propria “geografia variabile” dell’applicazione dell’obiezione di coscienza nelle Regioni italiane. Situazione, questa, difficilmente tollerabile ex art. E (non-discriminazione) della Carta Sociale Europea, ai sensi del quale il godimento dei diritti riconosciutinella stessa “deve essere garantito senza qualsiasi distinzione basata in particolare sulla razza, il colore della pelle, il sesso, la lingua, la religione, le opinioni politiche o ogni altra opinione, l’ascendenza nazionale o l’origine sociale, la salute, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la nascita o ogni altra situazione”.
Sotto questo profilo, non a caso, la IPPF EN ha rilevato in sede di reclamo un doppio grado di discriminazione cui sono sottoposte le donne che vogliono abortire in Italia. In primo luogo, vi è una discriminazione di natura economico-territoriale, dovuta alla circostanza che la mancanza di una garanzia della presenza di personale sanitario non obiettore in tutti gli ospedali italiani, costringe la donna a doversi spostare da un ospedale all’altro finché non trova una struttura in grado di offrirle il servizio abortivo (è l’argomento del “turismo abortivo” più volte rimarcato da Stefano Rodotà: cfr. La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, Fetrinelli, 2006, p. 56); ciò fa sì, anche, che l’accesso all’IVG rischia di essere negato alle donne che non hanno risorse finanziarie per raggiungere strutture in grado di fornire la prestazione abortiva, con un’inaccettabile restrizione del loro diritto alla salute.
In secondo luogo, poi, lo stato di salute psicofisico delle donne che vogliano accedere ad un intervento abortivo viene ad essere limitato rispetto a qualunque altra persona – uomo o donna che sia – che voglia accedere ad unqualsiasi altro intervento offerto dal Servizio Sanitario Nazionale, per cui non è prevista l’obiezione di coscienza.
Tali argomentazioni sono accolte anche dal Comitato, il quale ritiene che questi diversi piani di discriminazione sono strettamente collegati tra loro e sovrapponibili, dal momento che determinate categorie di donne, in Italia, sono presumibilmente oggetto di un trattamento meno favorevole rispetto all’accesso alle strutture sanitarie che praticano l’aborto, e ciò con riferimentosia al sesso, sia allo stato di salute, sia alla localizzazione territoriale, sia allo status socio-economico: in sostanza, vi è discriminazione poiché “alle donne che rientrano in tali categorie vulnerabili è negato l’accesso effettivo ai servizi di aborto, come conseguenza dell’incapacità delle autorità competenti di adottare le misure necessarie per compensare le carenze di fornitura del servizio causata dal personale sanitario che sceglie di esercitare il proprio diritto all’obiezione di coscienza” (§190). Né, nelle more della procedura, il Governo italiano è stato in grado di dimostrare il contrario.
4. Degna di nota è la concurring opinion del greco Petros Stangos, Vice presidente del Comitato, il quale osserva come la contrarietà all’art. 11 della Carta Sociale Europea non sia da attribuire solo ad una cattiva applicazione della normativa italiana in tema di aborto, ma alla stessa struttura della legge 194/78, ed in particolare agli art. 4 e 5.
La legge italiana, osserva Stangos richiamando R. Dworkin, prende posizione su un dibattito decennale in tema di aborto tra posizioni “pro-life”, propria degli obiettori di coscienza, e posizioni “pro-choise”, volte a tutelare il diritto di autodeterminazione delle donne: ma la posizione cui perviene la legge 194/78 non è neutrale, apparendo tendenzialmente prediligere la posizione sfavorevole all’aborto, come mostrano i meccanismi di accesso all’IVG disciplinati dagli articoli 4 e 5.
In queste due disposizioni, infatti, sono messi in atto tutta una serie di dispositivi operativi e istituzionali (consultori familiari, case di cura, etc.), che hanno il fine di neutralizzare le ragioni di natura economica che plausibilmente potrebbero indurre una donna ad abortire durante i primi tre mesi di gravidanza. Il legislatore italiano ha inteso, così, incoraggiare le donne che visitano i consultori nel corso dei primi tre mesi di gravidanza a desistere dall’intento abortivo.
Ora, se questo tipo di approccio alla problematica era condivisibile al momento dell’emanazione della legge 194, non si può ritenere lo sia ancora oggi, a distanza di 35 anni, quando ormai a livello europeo pare esserci un consenso generale nel riconoscere alla donna il diritto di abortire liberamente nei primi 3/5 mesi di gravidanza, come ha affermato nel 2011 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso R.R. v. Poland (ricorso no. 27617/04), ove condanna la normativa polacca in tema di aborto poiché viola gli artt. 3 (trattamento inumano e degradante) e 8 (mancato rispetto della vita privata e familiare) della CEDU.
Invece l’Italia, nell’impianto stesso della legge 194, disciplina un sofisticato sistema di persuasione delle donne in gravidanza, che rischia di minare la loro salute psichica e la loro autodeterminazione procreativa. Così argomentando, Stangos mira a spostare la copertura costituzionale del diritto all’aborto delle donne sotto la libertà di autodeterminazione, tanto che richiama il precedente statunitense del caso Planned Parenthood of Southeastern Pennsylvania v. Casey (No. 112 S. Ct. 2791, 1992), ove la Corte Suprema degli USA ha ritenuto che la normativa in materia di aborto possa essere dichiarata incostituzionale non solo quando vieti espressamente l’IVG, ma pure quando comporti un’eccessiva ingerenza nella scelta della donna in gravidanza, ponendo ostacolisostanziali all’esercizio della sua libera decisione, della sua privacy (sul tema ampliamente cfr. G. Marini, La giuridificazione della persona. Ideologie e tecniche nei diritti della personalità, in Riv. dir. civ., 2006, I, p. 359 ss.).
L’aborto, allora, viene ricompreso tra le libertà fondamentali della donna, invece che in seno al suo diritto alla salute. Riqualificazione giuridica di non poco momento, ampiamente auspicata oltre che da parte del femminismo italiano anche da Luigi Ferrajoli, per il quale l’IVG è un caso in cui la differenza sessuale produce un diritto sessuato, proprio delle donne, dato che l’aborto è un aborto di relazione, piuttosto che di un individuo.
Il filosofo del diritto ritiene, allora, ambigua la stessa formula “diritto di aborto”, che potrebbe far apparire tale diritto quale espressione di una libertà positiva (o libertà di) consistente appunto nella libertà di abortire, mentre invece si tratta di una libertà negativa (o libertà da), in quanto consente alla donna di non essere costretta a divenire madre contro la propria volontà.
Secondo Ferrajoli, in questo senso, quando si parla di aborto è in questione “ben prima che una facultas agendi, un’immunità, unhabeas corpus, ossia la «libertà personale» sancita come inviolabile dall’art. 13 della nostra Costituzione, che è una libertà da «restrizioni», quali sono appunto la costrizione o la coercizione giuridica a divenire madre” (L. Ferrajoli, Diritti fondamentali e bioetica. La questione dell’embrione, in Trattato di Biodiritto a cura di Rodotà e Zatti, Vol. I, Ambito e fonti del Biodiritto, Milano, Giuffrè, 2010, p. 248). “Per questo la decisione della maternità riflette un diritto esclusivo delle donne: perché la libertà negativa di non diventare madri consistente nell’immunità da costrizioni o servitù personali, di cui è corollario la facoltà di abortire, è complementare a una fondamentale libertà positiva: il diritto-potere di generare e mettere al mondo persone, che è un potere creativo e per così dire costituente, di tipo pre- o meta-giuridico, essendo il riflesso di una potenza inerente esclusivamente alla differenza femminile” (L. Ferrajoli, Il problema morale e il ruolo della legge, in Critica marxista, 1995, p. 46).
5. In conclusione la pronuncia del Comitato Europeo dei Diritti Sociali dovrebbe spingere l’Italia a riconsiderare la portata del diritto all’obiezione di coscienza, o meglio, a garantire l’effettività dell’accesso delle donne alle procedure abortive. In prospettiva storica, infatti, obiezione di coscienza e diritto della donna di abortire appaiono diritti fondamentali che si prestano a sfociare in una situazione di “clash of absolutes”, con la conseguenza che si rischi di prediligere una regolamentazione giuridica “finalizzata ad operare una scelta definitiva di interessi e valori in conflitto e, perciò, strutturata come regola di prevalenza” (cfr. M. R. Marella, Identità culturale e ‘differenze’. A proposito del saggio di Paolo Morozzo della Rocca, in Riv. crit. dir. priv., n. 3/1992, p. 440).
L’art. 9 della legge 194/78, a livello declamatorio, ha optato per una tecnica di regolamentazione giuridica diversa, costituendo una regola di “compatibilità” che avrebbe dovuto consentire la coesistenza di valori differenti senza delegittimarne alcuno, regola maggiormente conforme ad una società pluralista e laica (sulle regole di compatibilità cfr. S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, Laterza, 1999).
La regola di compatibilità, infatti, risulta maggiormenteconsona alla costruzione di una società pluralista poiché, essendo “il frutto di una prospettiva relazionale”, esclude l’opportunità di rifarsi ad una gerarchia prefissata di valori e interviene in “una situazione di conflitto senza far ricorso a valutazioni basate su criteri di carattere assoluto” (così M.R. Marella, op. ult. cit., p. 440). E’ noto però che a livello operativo, sin dall’emanazione della legge 194, vi sono stati forti tentativi di delegittimazione del diritto ad accedere all’IVG, tentativi che sono passati per un ampliamento oltre la portata normativa dell’obiezione di coscienza, che l’art. 9 limita sia in senso oggettivo che soggettivo.
In senso oggettivo l’obiezione è limitata sia perché può essere opposta solo per il compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non anche all’assistenza “antecedente e conseguente all’intervento” (art. 9, comma 3); sia perché, in ogni caso, è destinata a recedere nel caso in cui l’intervento dei sanitari “è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” (art. 9, comma 5).
Tali limiti oggettivi all’obiezione di coscienza, tuttavia,sono oggi sottoposti ad un pericoloso attacco che mira ad un “debordamento” dall’ambito dell’IVG, per investire anche la contraccezione d’emergenza (c.d. pillola del giorno dopo) (si veda G. Brunelli, L’interruzione volontaria della gravidanza: come si ostacola l’applicazione di una legge (a contenuto costituzionalmente vincolato), in G. Brunelli, A. Pugiotto e P. Veronesi (a cura di), Il diritto costituzionale come regola e limite al potere. Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Vol III. Napoli, Jovene, 2009, pp. 815 ss.).
In senso soggettivo, invece, l’obiezione di coscienza riguarda esclusivamente “il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie”: tale formulazione è stata aspramente criticata da pur autorevole dottrina, secondo cui questa «limitazione sembra veramente offensiva della libertà di coscienza. A noi pare che debba essere riconosciuto anche al portantino di rifiutarsi di spingere il carrello su cui è la paziente verso la sala di operazioni in cui verrà praticato l’aborto» (A.C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano, Giuffrè, 1979, p. 28, n. 1).
Tali estensioni dell’ambito di applicazione del diritto di obiettare sono, nondimeno, da escludersi ai sensi dell’art. 10 della Carta di Nizza, che al secondo comma riconosce il diritto all’obiezione di coscienza “secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”, imponendo agli esegeti un’interpretazione restrittiva dell’istituto.
D’altra parte è proprio l’abuso dell’obiezione di coscienza che ha portato oggi al sostanziale svuotamento del diritto delle donne di accedere all’aborto in diverse Regioni italiane, come constatato dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali nel caso in commento: la prassi propria di moltissimi ospedali pubblici di non garantire un adeguato numero di personale sanitario non obiettore vanifica il bilanciamento di interessi astrattamente cristallizzato nella legge 194/78.
Così l’abuso del diritto all’obiezione di coscienza finisce per trasformare, di fatto, la regola giuridica di compatibilità, contenuta nell’art. 9 della legge 194, in regola di prevalenza del diritto di obiezione, che fa propria la concezione morale e religiosa dominante a scapito di una minoranza (le donne, ma per diversi profili anche il personale sanitario non obiettore)e del principio di laicità dello Stato. Come è stato rilevato, difatti, «[i]n realtà, la pretesa di estendere l’obiezione di coscienza nelle più varie direzioni corrisponde ad un progetto politico ben chiaro. Non tanto la liberazione della coscienza individuale, quanto piuttosto l’uso di questo strumento per sostituire la tavola dei valori costituzionali con una diversa, strettamente dipendente dall’adesione ad un credo. In questo modo non si avrebbe soltanto una pesante incrinatura della legalità costituzionale, ma si determinerebbe una pericolosa rottura del patto tra i cittadini, di cui la Repubblica deve rimanere garante. A ben guardare, dietro questo uso del riferimento all’obiezione di coscienza si manifesta una richiesta di disobbedienza civile, che risponde a ben altre finalità e che, comunque, è retta da principi e regole che la rendono diversamente impegnativa e onerosa per chi la pratica» (S. Rodotà, Perché laico,Bari-Roma, Laterza 2009, p. 36).
Di qui, in definitiva, la necessità di ripensare il meccanismo dell’obiezione di coscienza, che se era plausibile nell’immediata emanazione della legge sull’IVG, appare quantomeno discutibile a più di trent’anni dalla sua vigenza, in considerazione del fatto che il personale sanitario neoassunto che decide di specializzarsi in ostetricia e ginecologia è consapevole di potersi trovare in conflitto di coscienza a causa degli interventi abortivi, per cui può anticipatamente optare per altra specializzazione sanitaria, così tutelando la propria libertà religiosa e di pensiero, senza ledere la libertà e la salute delle donne richiedenti l’IVG.
Ulteriori riferimenti bibliografici
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