L’ultimo e ben mirato libro di Marco Imperato – introdotto dalla lucida, esperta e densa Prefazione di Armando Spataro (pp. 7-18) – parte dalle notizie di cronaca per illuminare Le parole della Giustizia (Aliberti Editore, Roma, 2013).
Dal titolo si potrebbe immaginare un più o meno ampio glossario delle parole-base della Giustizia, ma ci si accorge subito che chi si àncora alla cronaca diffusa da gran parte dei media si trova inesorabilmente a dover anzitutto ristabilire un più corretto significato di tecnicismi giuridici, la cui opacità semantica per i non addetti ai lavori è “sfruttata” da redazioni e testate di parte per costruire e irradiare discorsi contro la Giustizia.
Di qui anche l’appropriato sottotitolo Per capire davvero quello che ti raccontano, in cui subito spicca la sintesi sapiente di quel ti raccontano.
L’educazione alla legalità è imprescindibilmente fatta – oltre che di esempi che molti magistrati offrono con la loro vita – anche di educazione alle “competenze”, perché se si fa appello solo ai “buoni sentimenti” si fanno poi i conti con il fatto che le emozioni, anche le più nobili ed alte, possono risultare labili, caduche e transitorie.
Certamente essa include e reclama l’innalzamento della capacità di comprendere e valutare criticamente atti, parole e fatti sui temi pertinenti, ma la situazione italiana per cui l’informazione – scritta e trasmessa – è proprietaria o comunque politicamente condizionata costituisce la tragica “peculiarità italiana”, che ci rende Paese assai poco libero e civile.
Per di più – fatte salve brillanti eccezioni – la maggior parte dei giornalisti da noi non brilla né per indipendenza (qualità che qui certo non “aiuta” a far carriera), né per competenza né, tanto meno, per etica: di conseguenza, il dominio informativo della linea politica di redazioni e testate è di fatto assoluto e incontrastato.
Si tengano poi sempre presenti i bassi livelli d’istruzione e di lettura italiani e il dato di fatto che solo il 20% della popolazione è in grado di comprendere un testo scritto – anche di non elevata complessità – mentre ben il 98,8% possiede e ascolta la televisione.
È evidente che, in queste condizioni, è quella tv “orientata” che costituisce e plasma l’opinione pubblica maggioritaria nel Paese. Ancor più sparuta la minoranza di chi possiede in casa un vocabolario dell’italiano: figuriamoci quanti – linguisti a parte – sono soliti consultare i dizionari (anche se quelli in rete stanno cominciando a offrire un qualche supporto e stimolo a chi è abituato a “navigare” abitualmente).
Più che appropriata e opportuna, dunque, l’operazione culturale e civica – ancor prima che linguistica – di Marco Imperato: vanno infatti insieme principi e parole del diritto e della legalità.
Ovviamente, con il variare della cronaca, il libro potrebbe allungarsi di un capitolo alla settimana, a volte al giorno, ma Imperato ha comunque ben selezionato parole-chiave stabilmente “offese” e per di più offre una lezione metodologica.
Nell’ambito del lessico della Giustizia, il terreno ontologicamente più “paludoso” e propizio alle deformazioni interessate è quello costituito dai tecnicismi formati per specializzazione di significato di voci che appartengono anche all’italiano comune.
In questi casi il cittadino “crede” di capire – non “si allerta” e non pensa di doversi documentare – perché ha l’impressione di avere a che fare con parola/-e nota/-e, mentre in realtà non ne coglie il significato tecnico e le relative implicazioni e, quindi, non ne riconosce deformazioni e manipolazioni: la sua fragilità comunicativa diventa fragilità di giudizio e, di conseguenza, fragilità democratica.
Anche in questo senso è tutt’altro che accessorio l’avverbio del sottotitolo del libro Per capire davvero: la comprensione dell’informazione, infatti, spesso è più “presunta” che reale e solo in pochi arriva ad esser piena e profonda.
Ad esempio, giustamente Imperato apre il libro spiegando la struttura della magistratura e precisando l’opposizione fra ordini e poteri (pp. 19-27), su cui si è giocato e si gioca come se fossero sinonimi.
Quella sinonimia, ancor prima che linguisticamente erronea, è “incostituzionale”, ma l’uomo della strada per lo più non conosce – o non ricorda – quei tecnicismi e magari non ha nemmeno mai letto la Costituzione (è proprio questa, infatti, la situazione maggioritaria).
Un caso simile è quello delle intercettazioni (pp. 55-65): la parola è ormai di larga comprensione approssimativa proprio per la ricorsività nel trasmesso – è più “consueta” che “nota” – ma quando non si conoscono norme e prassi che le regolano le reazioni alle notizie pertinenti restano emozionali, condizionabili e a facile fidelizzazione.
Sono poi lessemi complessi dello stesso tipo – in quanto costituiti da singoli significanti dell’italiano comune – collaboratori di giustizia (pp. 139-147) o altri sintagmi lessicali confrontabili per struttura: Il concorso esterno è un oggetto misterioso per lo più sconosciuto alla stragrande maggioranza dei cittadini, ma diviene anch’esso (come le intercettazioni e la prescrizione) oggetto di periodiche e furiose polemiche (p. 85). Ancora più ambigui i lessemi di questa categoria formati da un sostantivo e da un aggettivo positivamente valutativo, come nel caso esemplare del processo breve (pp. 97-107) – che è stato ed è di così facile e ampio gioco – e ancor più vistosamente e clamorosamente del giusto processo.
Indubbiamente, poi, i media sfruttano intensivamente anche l’ignoranza delle relazioni e dei nessi giuridici e logici che intercorrono fra i tecnicismi di settore.
Basti pensare a parole come prescrizione (pp. 67-81) e simili: La vicenda del processo per mafia celebrato contro Giulio Andreotti è emblematica di un equivoco diffuso nell’opinione pubblica: il proscioglimento perché il reato è prescritto è interpretato come un’affermazione di non colpevolezza. Non è così, e proprio la vicenda processuale del senatore a vita ci permette di cogliere la differenza (p.69) e – aggiungeremmo – analogo equivoco è sfruttato praticamente ogni volta che si presenta un’assoluzione in comma 2: l’opacità della restrizione comma 2 per il cittadino è totale, per cui la sentenza gli appare identica a quella in comma 1, anche se la differenza certo non è di poco conto.
Sono poi tanti i tecnicismi che – pur non assurgendo a titolo di paragrafo – il libro illumina e rende finalmente perspicui al lettore, parole della giustizia e della legalità, e dei loro “contrari”, come collusione, contumacia e irreperibilità, gradi di giudizio e così via.
L’autore affronta anche esempi della costruzione di discorsi iterati come mantra fino a raggiungere l’effetto-verità: si pensi al principio Tutti uguali davanti alla legge (pp. 39-53) che viene deformato nello scontro politica-magistratura (pp. 29-37) e che si è poi concentrato attorno al “racconto mediatico” costruito sulla metafora-spot toghe rosse. Com’è noto, sui media non è importante il vero, ma solo il verosimile.
Marco Imperato sa riconoscere lucidamente la funzione espressiva e impressiva su cui puntano i media e sa disvelarla al lettore con la sua scrittura competente e piana: La cronaca giudiziaria si occupa più spesso di arresti e misure cautelari che del racconto dei processi: le manette e la porta della galera che si apre sono un’immagine più immediata e stimolante rispetto all’approfondimento dibattimentale (p. 111). Fra le pagine più belle il capitolo finale Non lasciamo cadere il foglio (pp. 169-173), con evidente rinvio alle insuperate parole di Calamandrei: La Costituzione è un pezzo di carta, se la lasciamo cadere non si muove.
Ma non è da meno la lezione e testimonianza offerta da una Lettera al presidente del consiglio riportata in Appendice (pp. 175-180).
La scrittura di Marco Imperato risente positivamente dell’abitudine a confrontarsi con gli studenti, che educano sempre alla complessa abilità dello “spiegare” e dello “spiegarsi”.
Qua e là il libro è addirittura punteggiato da frasi lapidarie per incisività: Non si diventa onesti per decreto legge (p. 95) o Discutere di giustizia ha un senso solo fino a che siamo in una vera democrazia (p. 21): in verità è difficile parlare di vera democrazia con le caratteristiche anzidette del Paese, ma il senso della frase di Marco Imperato è trasparente e condivisibile (e quanto meno di buon auspicio).
Direi che il target che si seleziona per contenuti e forma è costituito anzitutto dagli studenti delle Scuole Superiori e dagli insegnanti di ogni ordine e grado, ma il libro non sarà meno prezioso per tutti gli operatori e protagonisti dell’educazione alla legalità – magistrati compresi – nell’individuare le crucialità linguistiche da sottrarre all’ambiguità e all’oscurità. Infatti, se il silenzio è mafia, l’omertà di parole non lo è di meno.