La lucida e completa analisi dell’economista prof. Maurizio Franzini, pubblicata in data 8/4/2020 da questa Rivista, si conclude con l’auspicio che la drammatica esperienza umana e sociale della pandemia da covid-19 possa favorire la costruzione di una società più giusta e che è giunto il momento di avviare questo percorso.
Io vorrei partire da quest’ultima condivisibile considerazione per aggiungere una ulteriore riflessione che ho maturato in questi giorni in cui ci siamo, in un certo qual modo, riappropriati del nostro tempo, quotidianamente sottratto alla nostra concreta possibilità di governarlo e gestirlo, presi come siamo dal nostro lavoro e da una vita frenetica connotata anche dal bisogno, spesso avvertito come insopprimibile, di consumare, perché, come sosteneva H. Marcuse[1]:“la seconda natura dell’uomo milita contro qualsiasi cambiamento che possa scalzare o abolire... la sua esistenza quale consumatore che si consuma nel comprare e nel vendere”.
Mai come in questo momento storico i ritmi compassati della nostra esistenza ci hanno fatto riflettere sulla necessità di rivedere le nostre categorie esistenziali, riproponendo in termini ancor più cogenti - di quanto molti di noi non abbiano sempre, ed a prescindere da questa contingenza, avvertito in base al proprio sistema di orientamento valoriale – l’esigenza, ormai divenuta non più eludibile né differibile, di ripensare ad un diverso modo di consumare e di produrre, ponendo al centro l’uomo con le sue esigenze, i suoi bisogni e le sue fragilità, ma anche la natura, giunta forse al limite delle sue potenzialità di sfruttamento, se è vero come è vero che oggi in Antartide si registrano 20 gradi e che i cieli delle grandi metropoli, grazie alle impensabili e drastiche limitazioni del traffico, si presentano con tassi di inquinamento sensibilmente ridotti e le acque dei mari, dei fiumi e dei laghi si ripopolano di pesci: ciò impone una nuova etica della responsabilità nei confronti delle giovani generazioni e di quelle future [2].
Non sarà sfuggito a molti, come osservava qualche giorno fa su Il Manifesto il mio amico filosofo, Alfonso Maurizio Iacono, che in questi ultimi tempi, grazie al silenzio assordante delle nostre città, abbiamo riscoperto il cinguettio degli uccelli ed io, che amo il “fischio” dei merli, ne ho potuto apprezzare da casa la dolcissima melodia.
Nei primi giorni di questa surreale tragedia umana e sociale, affidavo ad una chat di whatsApp tra colleghi la riflessione sopra la fuorviante e mistificante lettura, che viene proposta da qualcuno, del “messaggio” secondo cui il virus ci ha reso più "uguali", una sorta di "livella" sociale, ed osservavo come ciò fosse vero solo in relazione alla nuova consapevolezza di una riscoperta fragilità che accomuna ricchi e poveri, potenti ed ultimi della terra, uomini politici e delle istituzioni e comuni cittadini, così come rilevato sul punto anche dal prof. Franzini nella introduzione del suo articolo.
Ma a fronte di tale fallace “egualitarismo”, restano le profonde differenze sociali ed economiche che fanno sì che la malattia da contagio sia vissuta e gestita in modo molto diverso da milioni di cittadini e dalle varie popolazioni del mondo (negli Usa, per esempio, pare che molto dipenda dalla disponibilità di una carta di credito; in Africa e nel Centro-America in maniera ancora più drammatica come dimostrano le terribili immagini che ci giungono da Guayaquil in Ecuador), così come le limitazioni alla vita di relazione ed il forzato isolamento domiciliare.
Pensavo a chi vive con 5 figli in una casa di 50 mq – magari con un marito e padre violento – e a chi vive in una villa o in un attico o anche in un normale appartamento di 150 metri e penso a chi ha perso il lavoro e non aveva altro.
Inoltre, come ha spiegato bene nella sua pregevole analisi il prof. Franzini – la pandemia ha approfondito il solco già profondo tra ricchi e poveri, tra ricchi e nuovi poveri, sicché anche il prezzo sociale ed economico di questa tragedia non risulta equamente distribuito nella popolazione dei vari paesi e nella umanità intera.
Il disagio esistenziale che deriva dalla consapevolezza di essere stato casualmente "gettato" (in senso heideggeriano) in un paese opulento e in pace anziché in Siria sotto le bombe o in Uganda, in Burundi o in Nigeria, rende sempre più inaccettabile l'idea della ineluttabilità delle diseguaglianze sociali e della esistenza di milioni di donne e uomini privi di diritti fondamentali, e fra questi, primo fra tutti, quello più antico: “il diritto di avere di diritti” (per richiamare il titolo del saggio di Stefano Rodotà) ed in particolare quello di essere liberi di scegliere il proprio futuro.
Spero che questa lezione "biologica ed etica" possa farci cambiare perché nulla può, né deve essere, più come prima.
Oggi che abbiamo preso atto, qualora ce ne fosse stato bisogno, che la nostra comune fragilità biologica impone di creare le condizioni perché tutti possiamo difenderla con gli stessi mezzi e le stesse opportunità di successo, è giunto il momento di uno sforzo collettivo per una più concreta e fattiva solidarietà umana universale, per superare e contrastare i pericolosi e sempre più diffusi rigurgiti di nazionalismo, per realizzare una sorta di welfare state che non sia limitato ai mercati interni ma che possa risolversi in un aiuto ai popoli che soffrono la miseria e la povertà, agli ultimi della terra, ai milioni di donne e uomini, come dicevo prima, privi di diritti.
C’è, infatti, un diritto che continua ad essere ancora negato e che costituisce la precondizione per il concreto esercizio di tutti gli altri costituzionalmente garantiti, ed è il diritto di essere liberi dal bisogno: una libertà di cui gran parte degli esseri umani ancora non gode e che passa attraverso la realizzazione di quel "diritto all'uguaglianza", riconosciuto come diritto naturale ed imprescrittibile dagli artt. 1 e 2 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.[3]
Forse è anche giunto il momento in cui ci è più chiaro che il capitalismo fatica sempre più a gestire la crisi dello sfruttamento selvaggio delle risorse della natura, ma anche il momento in cui può finalmente ritenersi sempre più acquisita alla coscienza collettiva la consapevolezza che molti bisogni, spesso superflui, sono indotti da un certo sistema di produzione e di consumo, rispetto al quale “l’adattamento diventa spontaneità, autonomia, e la scelta tra le varie necessità sociali appare come libertà” [4].
Per chi come me, e quelli della mia generazione “sessantottina”, ha sempre creduto che la realizzazione di un mondo più giusto non è una utopia, la pratica di una rinnovata solidarietà nazionale e internazionale tra i popoli potrebbe essere forse un primo passo verso un nuovo “comunismo”, verso un nuovo senso di comunità, sulla cui possibilità in una intervista del 6 aprile 2020 a La Repubblica si interrogava il sociologo e filosofo sloveno Slavoj Zizek .
E a chi volesse obiettare che questo sogno contrasta con la realtà dei fatti, forse è il caso di replicare, come pare abbiano detto Hegel e Lenin “ tanto peggio per i fatti” o “tanto peggio per la realtà”.
[1] Marcuse H. Saggio sulla liberazione, Einaudi 1969, pagg.23-24.
[2] Fondata sul Principio di responsabilità”(H.Jonas), come ha ammonito anche Papa Francesco nella enciclica “Laudato si' “ sulla cura della casa comune.
[3] Atto costituzionale del 24/6/1793 (cfr. art. 3, 2° comma Costituzione Italiana).
[4] Marcuse H. Saggio sulla liberazione, Einaudi 1969, pag 25.